In memoria del Questore Nino D’Amato, recentemente scomparso

I ricordi e gli aneddoti raccontati dal cronista che ben lo ha conosciuto

 

di Franco Presicci *

 

MILANO – Sono passati oltre due mesi dalla scomparsa del questore Nino D’Amato, e mi piace ricordarlo nei momenti della nostra amicizia e della sua brillante carriera professionale. Lo conobbi tantissimi anni fa alla squadra Mobile di Milano, dove era il vice di Achille Serra. Capii subito che ci avrebbe legati un affetto profondo e tanta simpatia. Era buono, scherzoso, sincero, disponibile, preparatissimo e rispettoso. Tutti i colleghi delle testate lombarde lo stimavano. Per avere una notizia ci rivolgevamo preferibilmente a lui, per il garbo che aveva anche nel dire di no. Ci sono fasi nelle indagini che per gli investigatori è necessario tenere la bocca chiusa: basta la fuga di un dettaglio per buttare all’aria un lungo le delicato lavoro. Ma i cronisti devono portare cibo a casa, nel senso che devono cacciare notizie, e lì nasce l’incomprensione tra chi deve tutelare un’operazione e chi deve raccontarla. E quando accadeva che un tassello filtrava non ho visto mai Nino inalberarsi. Dallo sguardo intuivo che non aveva gradito. Anche nelle nostre file dovevamo indossare l’usbergo per parare i colpi che qualche collega solitario, dribblando, cercava di assestare, tentando di raccattare qua e là. Ma anche orecchiando, se si aveva voglia e coraggio, era difficile captare la chicca. Così si dovevano percorrere altri sentieri. Snidare la volpe costava comunque fatica, se non arrivava il giorno delle rivelazioni ufficiali. Durante le conferenze-stampa Nino D’Amato era pacato, chiaro, diceva quello che doveva dire, non elargiva dettagli di troppo, tenendo per sé quelli che avrebbero potuto colmare il paniere, magari con una trappola a qualcuno sfuggito alla cattura e quindi da acciuffare, continuando l’impegno.

Anche sul teatro di un delitto Nino era prudente, ci invitava ad avere pazienza, a spegnere le domande, per dargli tempo di formulare un’ipotesi, assicurando che avrebbe rispettato i nostri orari, se possibile. Ricordo una scena da Padrino vicino alla circonvallazione, con la vittima raggomitolata sul marciapiede davanti all’esposizione di un fruttivendolo, fra mele e pere che rotolavano. Aveva il permesso di uscire da casa due volte alla settimana per fare appunto la spesa. Nino D’Amato sapeva tutto dell’uomo, la sua attività, la sua biografia; e immaginava che l’omicidio potesse essere un avvertimento al fratello, che trafficava in droga stando all’estero. Ma non si lasciò sfuggire una parola, perché evidentemente aveva già lo sguardo sull’ambiente criminale in cui la decisione era maturata. Per annodare almeno in parte il filo della vicenda sgattaiolai per andare a stuzzicare un amico che sapeva sempre tutto, o quasi. E anche lì trovai chiusa non solo a porta ma anche la finestra. Fortunatamente captai una telefonata e rubai parole utili per la stesura dell’articolo (per la verità anche noi a volte c’imbattevamo nella dea bendata, altro che bravura).

Era Nino D’Amato anche quando si negava. Era come Vito Plantone: un grande amico e poliziotto d’alto rango, ma se doveva tenere la bocca chiusa, nemmeno sant’Ambrogio avrebbe fatto il miracolo. Così era anche Antonio Pagnozzi e così Mario Iovine, tutti pilastri della Questura promossi all’incarico di questore e poi di prefetto. Nino D’Amato non ebbe giorni felici in via Fatebenefratelli. Anche se molti lo amavano e lo apprezzavano. Così almeno mi dice un collega che ne sa più di Pico della Mirandola: Alberto Berticelli, coraggioso e coerente, a volte ruvido, pane al pane e vino a vino. Nino respirò a pieni polmoni quando andò a Piacenza. Eppure dall’epoca in cui era vicecapo della Mobile ne avevano fatte, di grosse operazioni. Per esempio i cento chili di eroina e 50 milioni di lire scoperti in un colpo solo in un abbaino di viale Espinasse; e l’operazione detta “I fiori di San Vito” contro la ‘ndrangheta, in cui erano state rinvenute anche carte che documentavano i riti d’iniziazione. Tra i relatori della conferenza-stampa c’erano anche i magistrati e Antonio Manganelli, futuro capo della polizia. Nino D’Amato non usciva mai dal seminato. Lavorava con zelo, competenza, coscienza e bravura, senza esporsi alla pubblicità. Ne ha avuto, di gatte da pelare, Nino. Dirigeva la Mobile al tempo di Mani Pulite ed ebbe il suo da fare, come dice l’ispettore capo Alberto Rocco Maria Sala, che ha lavorato con le polizie di tutto il mondo, e aveva avuto a che fare anche con la criminalità organizzata.

Parlare con Nino D’Amato era un grande piacere. “Una volta che un’indagine si era conclusa, ci raccontava storie ai confini con la realtà”, commenta un cronista di notevole spessore, un cane da tartufi bene addestrato anche e soprattutto dall’esperienza quotidiana: Michele Focarete, della scuderia de “Il Corriere della Sera”, tra l’altro profondo conoscitore della vita notturna milanese: “Nino era colto, intelligente ottimo investigatore. Ci teneva fermi sulla sedia quando snocciolava storie di arresti rocamboleschi, di pescicani della mala sorpresi a letto e di notti smaltite in auto e con il freddo nelle ossa (non è vero come dice Giuseppe Marotta “che a Milano non fa freddo”: n.d.r.), in attesa di un malacarne da mandare al gabbio o di un colpo sul punto di essere realizzato. Michele Focarete ha scritto anche “che fu in quegli anni che D’Amato stilò un prospetto sull’attività delle bande criminali internazionali che gestivano il traffico dell’immigrazione clandestina”.

Nino D’Amato era un “gentleman”. Sempre elegante, occhiali da big della cultura, sagoma da attore dello schermo: per esempio Renato Salvatori (“Rocco e i suoi fratelli”: 1960, regista Luchino Visconti). Era nato a Taranto, la mia città, il 3 settembre 1950) e aveva indossato la divisa nel ‘76. Ovunque avesse prestato servizio, a Reggio Calabria, Roma, Milano, Piacenza, ha dato ottima prova di sé, come persona e come poliziotto. Promosso questore, prima destinazione Crotone, quindi La Spezia (aveva un motto: “La polizia per e verso la gente”). Si distinse anche in quella veste. Condivideva il suo tempo tra il servizio, svolto onorevolmente, e la famiglia. Ha lasciato la moglie, Anna Tommasi, una bella signora cordiale che lo amava alla follia, e due figli, Martina e Matteo. Anna posta quasi ogni giorno dei video su Facebook: e dalle canzoni che fanno da sottofondo si capisce il suo dolore immenso.

Se n’è andato dopo aver combattuto contro un male implacabile. La sua morte ha addolorato tutti, colleghi, amici, conoscenti, giornalisti. Tutti sono andati a salutarlo nella chiesa di Sant’Andrea, dove si sono svolti i funerali, C’erano il questore di Milano, Bruno Megale, i vice-commissari Silvano Gattari e Antonio Scorpaniti, il prefetto in pensione Francesco Colucci… Io non esco più di casa, ma ho seguito tutta la vicenda, anche attraverso i racconti dei miei colleghi. Dio sa se avrei voluto esserci a baciare la sua bara. Mi restano i ricordi. Tantissimi.

Per migliaia di giorni, quando lavoravo, ho attraversato i corridoi della questura, mi sono fermato nell’ufficio di Paolo Scarpis, allora dirigente dei Servizi generali (quindi questore e prefetto), e in quello di Gattari, detto “il re della Volanti” e poi in quello del capo della Mobile, dove quando c’era lui, Nino, scambiavamo le solite quattro chiacchiere, prima delle notizie quotidiane. Lui aveva sempre la battuta pronta. Qualche collega furbacchione ne approfittava e tentava di andare a mietere il grano in qualche altro angolo, uscendone sempre a mani vuote. Erano altri giorni, quelli. Lavoravamo con fatica per succhiare “dolcetti”.

Con Nino D’Amato e altri ci vedevamo anche a cena, dove i più anziani come il maresciallo Ferdinando Oscuri, si lasciavano andare, sciogliendo fatti passati, come la rapina all’agenzia del banco di Napoli di largo Zandonai e la successiva sparatoria che rivoltò Milano facendo morti e feriti; la serata di fuoco contro la bisca di corso Sempione, nell’81; le ore drammatiche di Terrazzano, dove il 10 ottobre del ‘56 due fratelli presero in ostaggio maestre e bambini… Era quasi sempre Oscuri, una vita passata con onore in via Fatebenefratelli, che rispolverava queste pagine di storia.  Gli altri ascoltavano con interesse, mentre il maresciallo Giannattasio, che tra l’altro aveva interrogato elementi della mafia americana a Milano, faceva qualche aggiunta. Nino ascoltava, sorrideva alle battute sottovoce di un gatto sornione che cercava di pescare anche nel piatto. Ne abbiamo fatti di incontri gastronomici in allegria. Una sera ci riunimmo alla Taverna dei Sette Peccati e c’era anche Pippo Micalizio, scomparso da tempo anche lui.

 

*già cronista del quotidiano milanese IL GIORNO