Sulla “via del ritorno”: il viaggio di Fedele Ceravolo

 

Nel suo ultimo romanzo lo scrittore (originario di Soriano Calabro), lancia un messaggio affinché le comunità ritrovino i fondamentali valori che contrassegnano l’umanità: la giustizia, la pace, la fraternità, i sentimenti che hanno disegnato il percorso dei grandi spiriti dell’antichità e dell’epoca moderna. “La via del ritorno” (Pathos Edizioni, Torino) simbolicamente segna anche il ritorno di Fedele Ceravolo all’origine della sua biografia esistenziale, il borgo natio di Soriano (sempre presente nei suoi romanzi) con questa ultima opera presentata nell’ambito del Salone internazionale del Libro di Torino OFF 2023, nella sede della Libreria Belgravia (15 maggio).  

 

“La via del ritorno” porta al futuro e rappresenta anche una porta che si apre al sole. Uscito a primavera scorsa a breve il romanzo si potrà leggere anche nel luogo dove Fedele Ceravolo è nato ed ha vissuto la sua infanzia e adolescenza, Soriano Calabro (località ricca di testimonianze archeologiche e storiche importanti, a partire dal sito del monumentale Convento dedicato a San Domenico). Tutti i suoi romanzi raccontano e rievocano il rapporto con il luogo di origine. Anche questo è un segno emblematico del suo ritorno. Lo scrittore infatti vive a Torino dove ha insegnato ed è stato anche dirigente scolastico ma il legame con il suo “villaggio vivente della memoria” (Ernesto De Martino, L’etnologo e il poeta, 1959) è sempre vivo e ritorna nei suoi testi a contrassegnare non solo un fatto biografico e antropologico, ma esistenziale.  Come il suo ultimo Il romanzo perduto e… ritrovato (2018) ma Disperanza (1992), Elpidia (2012), prosegue la sua ricerca umana, estetica, spirituale attraverso un’opera che possiamo definire di taglio filosofico e pedagogico, ma anche romanzo di formazione, come nella più nobile tradizione del Settecento, con una nuova luce proprio in un periodo di decadenza di quei valori che hanno segnato l’esperienza più illuminata dell’uomo nella storia, a partire dai filosofi greci, come la lezione del padre della filosofia antropologica, Socrate.

Anche dietro quest’ultimo romanzo c’è un lavoro di ricerca e attraverso un linguaggio fortemente simbolico, Fedele Ceravolo ricostruisce la sua personale utopia, con dei personaggi allegorici, che richiamano la storia, la filosofia e figure che appartengono alla tradizione biblica. La narrazione si porta dentro la struttura del dialogo tracciata da Platone. Il romanzo si può leggere come un saggio o saggio romanzato. È la forma-tecnica con cui l’autore, fin dalla sua prima opera, trasferisce la sua indagine e il nucleo attorno a cui gravita la narrazione. La conoscenza diventa trascendenza e anche scienza dell’anima, se consideriamo questo fondamentale linguaggio per identificare il luogo segreto dove sentimenti, esperienze, emozioni, vengono trasfusi, trasfigurati, trascesi e maturati divenendo vino che poi viene versato nel calice del “divino”.

Fedele è un uomo che ha una profonda fede (nomen omen), capace di trasmettere nella sua autentica semplicità portandosi dentro una luce che sa illuminare con la sua parola. Il romanzo diventa uno strumento essenziale per l’autore de “La via del ritorno” nel dare voce ad una visione utopica in cui tensione etica e ricerca spirituale si intrecciano. Questa ricchezza interiore è diventata nel tempo creazione artistica ed estetica, dando voce a personaggi che rappresentano simbolicamente il rapporto dialettico tra il bene e il male ma anche il legame che si genera tra l’uomo e il mondo con il mistero che circonda la creazione. In questo viaggio lungo “la via del ritorno”, la lettura si carica di suggestioni semantiche, esistenziali, religiose e rappresentano un ulteriore testamento spirituale.

Possiamo attribuire al concetto insito alla parola “ritorno” il valore di una legge universale. Tutto ciò che noi facciamo ci ritorna: se seminiamo il bene ci ritorna il bene, al contrario il male. Può essere applicata a qualsiasi nostro gesto o comportamento. Tutto ritorna lungo questa via. Ma “la via del ritorno” può essere anche intesa come il nostos greco (da cui la parola ‘nostalgia’): il ritorno dopo il lungo viaggio compiuto da Ulisse. Ognuno di noi si porta dentro la sua Itaca e nella nostra odissea prima o poi ritroviamo la rotta che ci riporta verso la patria o la casa che abbiamo agognato nostalgicamente.

Le interpretazioni possono essere molteplici proprio perché le parole che usa Ceravolo sono così cariche di echi semantici e filosofici, che diventano una cassa di risonanza che si riverbera nel tempo e nello spazio. E quindi possiamo fare una lettura che attraversa la storia e si incrocia con dimensioni simboliche che ci portano alla scoperta dei tanti enigmi che interrogano la vita e il creato.

In un periodo storico in cui il degrado culturale, politico, umano sembra essere inarrestabile, leggere il romanzo di Fedele Ceravolo ci restituisce la consapevolezza che le luci della sapienza resteranno accese e che quindi possiamo “ritornare” a sperare che l’umanità possa riscoprire “la via del ritorno”, perché se si prosegue nella folle direzione che sta perseguendo questa società dominata da psicopatici che hanno in mano il dominio di ogni settore dell’economia e della comunicazione continuamente manipolata e mistificata, non ci sarà scampo: con le parole del sommo Dante, “lasciate ogni speranza, o voi ch’intrate”.

Come spiega lo stesso autore, è una riflessione sulle umane vicende, dalla vita alla morte,  dalla giustizia all’ingiustizia. Dentro le pagine si può scoprire il docente che vive come una missione questa responsabilità e immagina una scuola ideale. Si coglie potente un messaggio che esorta a ritrovare la via della pace, dell’accoglienza, della giustizia, dell’utopia. Così come in passato anche i poteri dominanti esercitano il loro dominio con la divisione, la separazione, con la diffusione della paura, con la mancanza di fiducia nell’altro. Al contrario l’amore unisce, incanta, dona bellezza e restituisce fiducia e luce. La storia non è cambiata in questi anni di emergenza. Il modello è stato riproposto con grande successo: da una parte la paura, dall’altra divisioni, angosce, crisi e la depredazione dei fondamentali valori umani come la convivenza civile, la libertà, la fiducia nel futuro. Togliendo questi spazi vitali, l’umanità è preda di questi oscuri poteri che con l’uso della tecnologia ormai hanno nelle mani degli strumenti incontrollabili, capaci di sconvolgere la visione del mondo e falsificare qualsiasi immagine dei fatti. Le oligarchie plutocratiche possono cambiare le sorti dell’umanità in un attimo. In questo scenario non c’è legge che possa salvaguardare i diritti sacri e inviolabili sanciti nella Costituzione e non c’è governo che possa garantire e rispettare i principi democratici e i fondamentali valori etico-civili.  L’unico spazio vitale che possiamo salvaguardare è quello che coltiviamo nella nostra Coscienza come emerge nelle pagine del romanzo di Ceravolo.

L’opera è stata presentata il 15 maggio a Torino (Libreria Belgravi), nell’ambito del Salone Internazionale del Libro OFF. Si è sviluppato un importante dialogo con l’autore a cui ha partecipato Sonia Caruso (docente) e poi si sono uniti Giovanni Quaglia (docente di Economia e Direzione  presso il Dipartimento  di Menagement dell’Università di Torino) e Carla Casalegno (scrittrice e biografa del Beato Piergiorgio Frassati).

Di seguito si riportano gli interventi a partire da quello di Sonia Caruso.

Il libro “La via del ritorno” è un testo che personalmente assocerei al termine “viaggio” in senso lato, al costante e perpetuo peregrinare umano. Può il viaggio essere considerato metafora della vita e della storia dell’uomo? In fondo, l’uomo non è necessariamente portato a doversi spostare lungo innumerevoli sentieri, anche non fisicamente, ma coi propri pensieri, con il proprio agire, attraverso gli incontri tra certezze, dubbi, gioie, dolori, aspettative, delusioni, successi e fallimenti? Poi, certo, c’è pure la dimensione fisica, paesaggistica del viaggio, tra l’altro topos mai tramontato nel corso della storia della letteratura, in cui la nostra vivida immaginazione prende la forma della realtà delle nostre visioni. Bene, “La via del ritorno” accompagna il lettore tra le strade dei significati, tra i sensi più differenti del vagare umano. Qui leggiamo la storia di un viaggio della speranza, quello che può salvare la vita da una situazione di estrema fragilità, di fuga da scenari di guerra, che a noi cittadini evoluti occidentali fa tanto paura, ma abbiamo quasi perso la capacità di conoscerla. Inoltre, c’è anche il racconto di un viaggio, un cambiamento per scelta, quindi, apparentemente, un percorso più libero. Ci sono viaggi individuali, che inevitabilmente si intrecciano con spostamenti che diventano corali, di gruppo, amicali, familiari. I principali fili conduttori che personalmente ho individuato nel romanzo di Fedele sono il linguaggio, il tema della differenza, alcune naturali contrapposizioni, come per esempio gioia/dolore; guerra/pace; giustizia/ingiustizia; ita/morte. Il tema del linguaggio, mi permetto di sostenere, salta all’occhio in modo estremamente creativo attraverso anche quelli che potrebbero essere intesi come giochi linguistici: per esempio, il luogo, il paese nominato Disperanza, si può eventualmente leggere Di (spazio) speranza. Dividendo quella particella, quella minuscola preposizione, si può arrivare quasi a non soffermarsi solamente sul significato dettato dal dizionario e provare, quindi,  una sensazione, un sentimento a metà strada tra disperazione e speranza, ma potremmo sentire attraverso un tono, una nota musicale leggermente differente un invito  a immaginare un luogo, appunto, Di speranza, che può, quindi, offrire un’idea tangibile di fiducia. Non possiamo, inoltre, non notare i nomi propri come dei “designatori rigidi” per citare filosofi e logici che si sono espressi proprio in questo modo, cioè Hilary Putnam e Saul Aaron Kripke. Il nome che può già individuare il senso stesso e, dunque, un significato profondo, un’identità.                    Sì, questo è anche , secondo me, un romanzo che accoglie pienamente in sé il concetto di interazionismo: cosa sono gli incontri tra individui, tra piccoli e grandi mondi; come possono nascere, con quali idee a monte; come ci poniamo davanti all’altro da sé attraverso il nostro sé.  Qui i riferimenti sarebbero davvero innumerevoli: dall’analisi dei simboli comunicativi di George Herbert Mead alla teoria della comunicazione di Habermas, con la sua triade in cui individua correttezza, sincerità e verità; ma si può andare indietro con il Maestro di tutti i Tempi, Socrate, che parte dalla conoscenza di se stessi per rivolgersi al “Tu” diverso da noi, appunto, e non possiamo dimenticare il disegno cosmopolita e attualissimo di pace di Emmanuel Kant.                                                                           Il libro in esame può arrivare a disegnare una vera e propria rappresentazione grafica. La storia dei protagonisti comincia con racconti e dimensioni individuali, per, poi, prendere vita ed esprimersi nella formazione di gruppi: realtà di paese, comunità e famiglia. Il romanzo, infatti, non esclude i tre aspetti fondamentali che costituiscono una società.                        Nel viaggio iniziale dei giovani migranti si può individuare ovviamente un livello “macro sociologico” sullo sfondo, cioè quel mondo che chiunque di noi può osservare come malato; poi, abbiamo un livello “medio”, cioè tutte quelle organizzazioni più o meno grandi che nelle diverse sfaccettature possono anche venirci in soccorso e insinuarsi tra le realtà più o meno consistenti; ed, infine, quella dimensione più raccolta, più piccina, cosiddetta “micro”, che può anche assumere forme di intimità familiare.                                                                 Bene, i mondi dei giovani protagonisti alla fine si uniscono nell’abbraccio familiare di papà Abramo e di mamma Sara, a loro volta simboli della Terra e della Luna, quindi del cielo e del pianeta su cui viviamo. Probabilmente, il simbolo per eccellenza del romanzo di Fedele è il dialogo tra uomo e Dio.  Una conversazione che si tinge dei colori della confidenza e del mistero. Quella familiarità che porta l’uomo a rivolgersi persino all’assoluto in modo amicale, ma, allo stesso tempo, non possiamo cedere ad un silenzio riflessivo davanti all’enigma del vivere della sua Bellezza, ma anche di tutta la sua sofferenza.                       I riferimenti letterari con cui Fedele ci accompagna sono variopinti: dalla Scrittura ad alcuni passi della Sura 2, alla lirica introspettiva, tenace e allo stesso tempo delicata, di Foscolo, alla narrazione completa, poetica, filosofica e psicologica di Dante, all’incessante equilibrio della ricerca tra scienza e poesia di Primo Levi, e ad una delle più affascinanti visioni che io trovo squisitamente struggente nel suo invito universale di forza e unione, attraverso il pensiero illuminato, laico, onesto e , comunque, tendente ad un senso di Infinito, di Giacomo Leopardi.

Un grazie sincero a Fedele, tra le altre cose, per averci anche ricordato uno dei periodi più sofferenti della nostra recentissima contemporaneità, cioè la pandemia del Covid 19, che, tre anni fa, nell’attimo fugace di manciate di pochi giorni, ha cambiato le nostre vite all’improvviso. Un momento che ci eravamo promessi un po’ tutti di cogliere come occasione di cambiamento, di riflessione, di incontro e di dialogo, di abbraccio nelle differenza. Proprio come il dialogo che leggiamo nelle ultime pagine del Libro può continuare a farci ricordare tutta la nostra gratitudine verso il valore, che individuo nella Libertà, mai separato dal valore dell’amore, non due sostanze, ma un unico sinolo, mi si perdoni se disturbo il grande pensiero di Aristotele. La libertà che, ben diversa dall’arbitrarietà, non può, per sua stessa natura, essere separata dal comandamento più grande.

Giovanni Quaglia, nel suo intervento, ha sottolineato il pregevole contenuto del romanzo e per la brillante forma espressiva. Il docente ha messo in luce i forti richiami a valori profondi, quali la persona, la famiglia, la comunità, la condivisione e la capacità di camminare insieme. Ha insistito soprattutto sul valore della speranza, dando lettura, a tale riguardo, di una favoletta di autore anonimo, pervenuta da fonte ebraica e riportata da Giordano Frosini nel suo volume “ Il ritorno della speranza” (ed. Dehoniane, Bologna 2005): “C’erano quattro candele accese. Il luogo  dove do  dove si trovavano era talmente silenzioso che si poteva ascoltare la loro conversazione. Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente. La prima diceva: ‘ Io sono la pace. Ma gli uomini non riescono a mantenermi: penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi.’ Così fu, e a poco a poco la candela si lasciò spegnere completamente. La seconda disse: ‘ Io sono la fede. Purtroppo non servo a nulla. Gli uomini non ne vogliono sapere di me, e per questo motivo non ha senso che io resti accesa.’ Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e si spense. Triste triste, la terza candela a sua volta disse: ‘ Io sono l’amore. Non ho la forza per continuare a rimanere accesa. Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza. Essi odiano perfino coloro che più li amano, i loro familiari. ‘ E senza attendere oltre la candela si lasciò spegnere. Inaspettatamente un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente. Impaurito per la semioscurità, disse: ‘ Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio.’ E cosi dicendo scoppiò in lacrime. Allora la quarta candela, impietositasi, disse: ‘ Non temere, non piangere: finché sarò accesa, potremo sempre riaccendere anche le altre: io sono la speranza.’ Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre”.  Il prof.  Quaglia ha così concluso il suo intervento: “ Amare la speranza è come avere una candela sempre accesa, che ognuno porta continuamente dentro di sé, nel proprio animo di fanciullo, capace di dominare tutti gli angoli della casa e di ridare vita ai sentimenti più belli che giacciono nel fondo del cuore dell’uomo. Un grande dono di Dio, la speranza, tutta la speranza, che non è solo una virtù ma una delle dimensioni costitutive e fondamentali dell’esistenza umana.”

 Ad approfondire l’analisi la prof.ssa Carla Casalegno. In particolare ha messo in luce la trama legata a personaggi dai nomi fortemente evocativi e rivolgendosi all’autore ha sottolineato “Mio intento però è sicuramente quello di riprenderne le pagine per approfondire i tanti percorsi di lettura che, come è nel tuo stile, sai mettere in atto nei tuoi libri, spaziando con scioltezza e consistenza all’interno di una vasta gamma di tematiche letterarie, storiche, di attualità. Proprio questa eterogenea ricchezza fa sì che, per ricorrere ad una similitudine, “La via del ritorno” sia come una miniera e per miniera intendo proprio un giacimento di materiali utili e preziosi. Il tuo libro si configura cioè come una miniera di argomenti e considerazioni, che stimolano la riflessione e l’approfondimento. Continuando sulla linea della metafora, i singoli capitoli sono quindi pietre preziose, o, per essere al passo con i tempi, si potrebbe dire che sono quelle “terre rare” oggi così necessarie ed essenziali nei più svariati settori della moderna tecnologia avanzata, Ancora complimenti, dunque, per averli scritti!”

Riportiamo l’intervento integrale dell’autore, nel quale ha sentito la necessità di spiegare i caratteri del romanzo con i valori che lo hanno animato e i messaggi simbolici che ha inteso rappresentare. Nell’occasione, come incipit, Fedele Ceravolo ha citato Corrado Alvaro, per cogliere gli elementi introspettivi che muovono la memoria e i ricordi che sono parte essenziale della vita psichica ed emotiva dell’uomo e che hanno anche ispirato la scrittura del testo: 

“Ognuno di noi vive nel riflesso di quello che fu da ragazzo, e avanzando negli anni i ricordi e le impressioni divengono più chiari, escono dai loro nascondigli, il presente si colora del riflesso del passato. … Accade molto spesso agli uomini di sorprendersi in un atto qualunque, in un movimento di pensieri che sembra ad essi di ripetere come in un sogno: non sono altro  che le intuizioni dell’infanzia che tornano vive e vere, sono il compimento di un moto dello spirito, un tempo accennato, finalmente compiuto”  (C. Alvaro, Memoria e fantasia). In primo luogo Ceravolo ha spiegato che il libro è frutto dell’isolamento a cui ci ha costretti la pandemia, occasione, nonostante tutti i problemi che essa ci ha creato, di meditazione sulla vita e sul suo mistero o sui suoi misteri. Ma anche una riflessione sull’abbandono, forzato e non, di luoghi cari come sul ritorno ai medesimi o sulla ricerca degli stessi attraverso un viaggio, in parte reale ed in parte immaginario, particolarmente significativo; una notazione su problematiche sociali ricorrenti e spesso drammatiche; un pensiero sul senso delle umane vicende in generale: vita e morte, guerra e pace, immigrazione e accoglienza, giustizia e ingiustizia, sogno, in particolare, di una scuola ideale e realtà della stessa, speranza e disperazione, in simbiosi nella ricorrente disperanza.  Poi ha aggiunto: “Nel portare a termine la narrazione ho sorpreso me stesso, come dice Alvaro, “in un movimento di pensieri” che “ non sono altro che le intuizioni dell’infanzia che tornano vive e   vere … compimento di un moto dello spirito, un tempo accennato, finalmente compiuto”.                                                                                    A camminare su questa “via” accompagnati da Waqt e da Cam, cioè dal Tempo e dal protagonista del racconto, invito, prima di tutto, chiunque abbia la fortuna di nascere e rimanere nel paese natio, verso il quale diventa sempre più profondo il legame affettivo, che, comunque, non potendo essere eterno, bisogna prepararsi a sciogliere, aiutati anche dal superamento delle prove esistenziali. Invito a seguire questa “via” chiunque abbia sperimentato l’allontanamento dal luogo più amato e, poi, il ritorno allo stesso, facendo tesoro delle esperienze di vita pure in vista della misteriosa e inevitabile uscita finale.                                                                                                                               Invito a percorrere “La via del ritorno” anche chi, per varie ragioni, il luogo più amato lo abbia smarrito e ne sia alla ricerca pure nella sua ideale realtà, rappresentata nel libro da “Disperanza”,  attratto dal desiderio  o  dalla curiosità di rivederlo e di ritrovarsi in esso, libero dagli umani affanni e fiducioso nel ricongiungimento della propria dimensione umana e della propria dimensione divina.”

Nel suo intervento l’autore ha fatto riferimento allo psicoterapeuta Alberto Simone in “Ogni giorno è un miracolo”: “Separato dalla sua origine divina l’uomo è condannato a subire gli effetti del tempo, elemento che rende impermanenti e inafferrabili tutte le cose di questo mondo, compresa la nostra stessa vita. E mentre consuma la sua esistenza tra mille affanni, l’uomo è perennemente inquieto e insoddisfatto. Le cose del mondo lo rassicurano e lo rendono felice solo per breve tempo. In relazione  a queste parole, Ceravolo rileva che  “la ‘via’ è, prima di tutto, quella del ritorno di Cam  alle sue  origini, attraversando luoghi d’incanto dell’Oriente e dell’Occidente, cioè della Palestina e dintorni, da una parte, e della nostra Penisola, dall’altra, per ritrovarsi nelle loro affascinanti meraviglie e nelle loro complesse e spesso tragiche  problematiche fino, tra l’altro, al dramma della pandemia.” A rofforzare questo passaggio cita un passo del romanzo: “Conosci il mio pensiero… sai bene come la penso – rispose Sara. Sono convinta che a noi esseri umani il Creatore dà la possibilità di disporre della materia, della fisicità, della corporeità, ma l’essenza della vita la mette Lui. Se, poi, noi non diamo la nostra disponibilità e se interrompiamo la nostra collaborazione, con ciò noi non possiamo interrompere il progetto divino, che si realizzerà comunque o altrove. Questo vuol dire che, se un bambino rifiutato… respinto… non accettato nasce in cima al mondo, egli ci appartiene. Sono d’accordo! Allora, se noi non possiamo aspettare bambini, ci sono bambini che aspettano noi! » esclamò Abramo. Crescendo, il pensiero di Sara sul progetto divino interrotto dall’uomo, ripreso e realizzato altrove dal Creatore, l’ho fatto mio. A Dio onnipotente nulla è impossibile e, quindi, ho dedotto che anch’io, in un primo tempo, posso essere stato rifiutato in Italia, per, poi, aver trovato accoglienza, pur tra altre mille difficoltà, nella mia Africa e da qui avere… avere iniziato la via…la via del ritorno.  (pag. 60)

Prosegue l’autore: “La ‘via’ è quella di Abramo, del ritorno del Dottor Abramo Pianeta insieme a sua moglie, la Professoressa Sara Luna, al suo paese d’origine. I due sono unanimi anche nell’impegno umano, sociale e culturale mirato al riscatto di una Terra “amara e bella”, tormentata dal tarlo della delinquenza, che investe anche il Dottor Pianeta e tormenta  la giovane Elpidia, data la sua parentela (è figlia di Pietro Trimascu: Trimascu è un acronimo che sintetizza la delinquenza nelle sue peculiarità: trigula, malanova e scuntentizza). Tuttavia,  non è quello che costringe Abramo ad uscire di nuovo dal suo paese, bensì lo shock anafilattico che colpisce la Professoressa Luna. Da qui la via del ritorno di Sara Luna alla sua terra, a Torino, insieme ad Abramo, ed il fortunato incontro con la nobildonna Madreterra, la quale lascia in eredità  alla famiglia Pianeta una grande casa. A Torino, però, i Pianeta incorrono nel terribile male sociale, raffinata emanazione ed espansione  del male conosciuto in Calabria e, quindi, vivono un tormentato periodo di ingiustizia.” E Ceravolo sottolinea:

“La via del ritorno … del ritorno della giustizia riesce a ritrovarla ancora Il Dottor Abramo, sostenuto dalla sua onestà e dalla sua pazienza, ma anche dall’aiuto del leale e coraggioso Dottor Tommaso Della Sapienza.

Sulla via del ritorno, del ritorno ad una scuola libera da pregiudizi e proiettata verso l’idealità si ritrova Cam, il Professor Cam, diventato docente come sua  madre.  Ma, mentre la percorre con l’aiuto dell’Alunna Scolastica, Santa Scolastica, la via di Cam s’incrocia con la via, questa volta ancor più drammatica, di papà Abramo, il quale ha contratto il Covid insieme al collega Della Sapienza, mentre entrambi erano in servizio nello stesso ospedale. L’ultima via del ritorno è percorsa insieme dai due medici e da Waqt, il Tempo: è una via inesorabile e, razionalmente, senza ritorno; ma il ritorno c’è: c’è un ritorno rassicurante, sostenuto soprattutto dall’alba radiosa della Collina Torinese, sulla quale il sole appare segno d’infinito,“… esaltando i momenti belli della vita e contrastando quelli tristi con il richiamo all’eternità dei primi e alla provvisorietà dei secondi attraverso l’istantaneo e rassicurante volto di Waqt, il sereno viso Della sapienza e l’aspetto del Pianeta radioso di speranza”. Invito a percorrere questa “via” chiunque ami la lettura, perché leggere è uno stupendo sentiero di andata e ritorno … un andirivieni senza fine di gioia e di felicità, di ansia e di tormento nei corrispondenti momenti più belli e in quelli meno belli della vita. In particolare, invito tutti gli studenti e, soprattutto, i miei ex alunni, ai quali, da docente, offro l’opportunità di diventare, per una volta, miei professori e, quindi, di leggere, correggere e giudicare un mio ‘tema’, per poi, eventualmente, discuterne insieme  in librerie e luoghi di  cultura.” Come ulteriore approfondimento Ceravolo ha rievocato la propria esperienza familiare nel periodo della sua infanzia, rispetto al concetto che i latini definivano come negotium, quello del lavoro, dell’attività pratica per entrare poi nella dimensione dell’ispirazione della scrittura, che attiene all’hotium, con il quale si coltiva lo spazio interiore:  “Leggere e scrivere un libro o riflettere sullo stesso rientra nella dimensione del cosiddetto “otium”, che non significa dolce far niente, ma fare per il piacere di fare con infiniti effetti benefici e, nel nostro caso, anche con l’auspicio di trovare o ritrovare, parafrasando questo libro, con l’auspicio di ritrovare ‘la via del ritorno’, del ritorno, prima di tutto, della pace, di cui abbiamo tanto bisogno. Quando si scrive, quando si vuole fermare nella parola scritta un’intuizione, un’idea, si entra in una dimensione diversa dal solito, ci si sente chiamati a ‘creare’, sia pure per un attimo; un attimo, per me, simile al momento in cui io, da bambino e con stupore sempre nuovo, vedevo mio padre, artigiano della creta, ricavare dall’argilla informe un vaso, un’anfora, un oggetto sempre attraente. Allora, senza saperlo, facevo esperienza di due importanti dimensioni esistenziali, come avrei scoperto durante gli studi liceali: l’otium ed il negotium . Il negotium si verificava quando io dovevo aiutare mio padre a far girare il tornio, perché lui stava sulla parte alta della struttura per incastrare le due parti di una grande anfora; oppure quando lui terminava un oggetto di piccole dimensioni ed io dovevo prelevarlo e collocarlo nell’apposito spazio. L’otium, invece, si verificava quando io ero libero da ogni impegno e potevo, quindi, liberamente osservare la graduale creazione dei manufatti.  Allora seguivo le operazioni con il pensiero che, attratto dall’ immaginazione, anticipava la realizzazione . Mi sono accorto di ritrovarmi in uno stato simile scrivendo. Quando si scrive, infatti,  ci si sente attratti, chiamati e, quindi, liberamente obbligati a rispondere all’insistente voce interiore, che gli antichi chiamavano Calliope. Ci si sente attratti dalla Musa o dallo Spirito: ci sente ispirati. Ed è bello … si ha la stessa sensazione che si ha quando si riesce a portare a compimento  un gioco, un’opera, un lavoro, un’impresa … Ci si sente, sia pure per un momento,  piccoli e grandi insieme. Ma bisogna stare attenti … attenti  a non stravolgere la realtà! La piccolezza … la nostra piccolezza, che, poi, è la nostra umanità, deve rimanere tale, anche perché è preziosa … preziosa di quella preziosità che ci permette di contemplare la grandezza e di apprezzarla senza presumere di sostituirla. La grandezza, così, ci verrà incontro spontaneamente e ci guiderà in un proficuo dialogo nel quale porremo e ci porremo domande tipo:  – Scrivere? Perché scrivere? Perché metterci a nudo e farci osservare? Perché spendere le nostre risorse?. Nelle silenziose risposte a tali domande, l’incontro tra grandezza e piccolezza diventerà sempre più profondo e aiuterà a scoprire la meraviglia … la meraviglia della solidarietà che fa dire a Qualcuno:  “Il bisogno di raccontare agli ‘altri’, di fare  gli ‘altri’ partecipi, aveva assunto fra noi , prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore” (Primo Levi, Premessa  a “Se questo è un uomo”). L’incontro tra piccolezza e grandezza aiuterà a scoprire la bellezza del sapere e della sua infinità richiamando testimoni come Colui che ammette “So di non sapere” (Socrate) o Colui che afferma “ Nonostante tutti i libri che ho letto o che ho scritto, mi accorgo di essere alle radici del sapere” (Norberto Bobbio). L’incontro rafforzerà le virtù e soprattutto rinvigorirà l’umiltà tanto da far dire al Poeta “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” (Eugenio Montale). Ho osato, quindi, far mio ‘il bisogno di raccontare’ di cui parla Primo Levi, la cui voce ho avuto il privilegio di ascoltare in un dialogo telefonico nel 1976. La compianta Professoressa Ada Sacerdote, allora mia insegnante coordinatrice  di Latino e Greco nel corso di abilitazione, avendo appreso che ero originario della Calabria, parlava  volentieri con me e mi informò che aveva insegnato nel liceo classico di Vibo valentia.           Il Liceo-Ginnasio “Michele Morelli”! Il mio liceo! – esclamai io. L’illustre Professoressa, di religione ebraica, era particolarmente affettuosa e materna, sapeva unire la sua profonda preparazione ad una grande umanità e parlava della sua permanenza in Calabria quasi con lo stesso attaccamento e la stessa nostalgia con cui ne parlavo io. Le confidai che anche la lontananza  dalla mia regione mi aveva spinto a scrivere. L’indimenticabile docente volle leggere le bozze di  “Disperanza”, il mio primo scritto,  e, poi, mi disse: – Perché non lo pubblichi?  Ti aiuto io … ti faccio parlare con una persona importante … ti do il numero di telefono di Primo Levi. Chiamalo. Digli che te l’ho detto io  di telefonargli.                          Rimasi stupito ed emozionato sentendo quel nome e registrai il numero. Qualche giorno dopo, telefonai allo Scrittore. La chiamata non servì alla pubblicazione del libro. Durò poco tempo, un tempo  che, però, è diventato eterno, tanto che la sento spesso risuonare. Il breve dialogo mi fece riscontrare subito una certa tristezza ma anche e soprattutto la ricchezza di valori dell’uomo, valori che io ho spesso richiamato durante il mio insegnamento ed anche nello scrivere, pure nello scrivere “La via del ritorno”.