Le avventure dei pescatori gioiesi

Nelle belle giornate di sole, da maggio a settembre, non è raro avvistare in lontananza, affiorante sulla superficie ’a pinnedda ( la pinna ) di questo pesce che, pur vivendo in mare aperto, spesso si avvicina alla costa e ama assopirsi, abbandonandosi in superficie alle correnti, sotto i caldi raggi solari. E’ il pesce luna, ’a mola per i pescatori gioiesi, che si dedicavano a dargli la caccia, con ogni mezzo e strenua determinazione, nonostante non fosse esattamente il più richiesto sui banchi dei pescivendoli o ai mercati ittici. Di questo grande pesce osseo, infatti, sono commestibili solo le interiora che, cucinate cu sucu e pipi pistatu da mani esperte, erano veramente una delizia per il palato. Definito mola per le sue dimensioni e per la sua forma ovoidale e schiacciata, simile appunto ad una macina ( mola = macina in latino ), può raggiungere, negli esemplari più grandi, la lunghezza di tre metri ed il peso di più di due tonnellate. La pinna caudale di questo pesce è un’escrescenza carnosa con poca mobilità, quindi, per gli spostamenti, si affidata alle sue due robuste pinne dorsale e anale, allungate e opposte in posizione simmetrica. Piccola, invece, e a forma di ventaglio la pinna pettorale. Molto piccola la bocca con i denti fusi tra loro in una sorta di becco con il quale si nutre di plancton, meduse e piccoli pesci. La pelle di questo pesce è coriacea e molto abrasiva ( più della carta vetrata ) e può raggiungere lo spessore di quindici centimetri, oltre a contenere una infinità di microorganismi e parassiti, per liberarsi dei quali, risale in superficie facendo galleggiare il corpo in posizione orizzontale in maniera tale che gli uccelli li possano beccare e mangiarli. Ed è proprio quando si muove in prossimità della superficie del mare che ’a mola viene avvistata dall’occhio esperto del pescatore che scatta immediatamente al suo inseguimento. Ad un osservatore poco esperto, l’affiorare della sua pinna, può facilmente sembrare quella di uno squalo e così da riva, immancabilmente, qualche buontempone gridava il finto allarme: u piscicani, u piscicani. Chi non scherzava era invece il pescatore che, brandendo dalla barca una friccina ( fiocina ) a sette denti, guidava l’agguato silenzioso al pesce luna che si crogiolava ’a pilu d’acqua. Approfittando del momentaneo torpore della mola, la barca si avvicinava cercando di non allarmarla facendo rumore. Raggiunto il bersaglio era il momento per il pescatore di entrare in azione. Un bersaglio molto facile se immobile ma se destata era necessario intraprendere un inseguimento e mettere in pratica tutta l’abilità nel tiro della fiocina. In entrambi i casi, pressoché scontato il risultato. Dopo essere stata arpionata, la mola viene issata in barca agganciandola con il gancio ( ganciu ) e portata a riva dove inizia l’opera di sezionamento per estrarne le parti commestibili, mentre il resto ( la gran parte ) viene gettato via. Una pratica certosina per  la quale una folla di curiosi si radunava, puntualmente, attorno a questo pesce dall’aspetto primitivo e strano, ancora agonizzante. Ma non sempre la pesca si svolgeva secondo la consueta prassi. Tra gli innumerevoli episodi verificatisi durante le innumerevoli battute di pesca, a proposito di caccia alla mola, nel passato, se ne riferisce  uno che è rimasto epico ed emblematico di come, spesso, bisognava “immolarsi per raggiungere lo scopo. Protagonisti del racconto sono ‘u zi Gaetanu  e suo nipote Micu che, come di consueto si trovavano in mare per una battuta di pesca. Ad un tratto, a distogliere i due lupi di mare dalle loro faccende, è l’affiorare di unapinedda: ’a mola! Immediato scatta l’inseguimento e l’agguato, e giunti in prossimità dell’enorme sagoma circolare, quasi immobile, del pesce, u Zi Gaetanu, assunta sulla barca una posizione ben salda sulle gambe, ordina a Micu: «pigghia ‘u ganciu.» Incredibile e inaspettata la risposta: «Zii Gaetanu,‘u ganciu non c‘èsti!» Il viso du Zi Gaetanu si fece brutto in un ghigno animalesco che non lasciava presagire nulla di buono nello sviluppo della vicenda. Ne seguì un concitato diverbio tra i due marinai che finì per destare dal torpore la mola che, lentamente, cominciò a inabissarsi. La cosa non sfuggì  ‘o Zi Gaetanu al quale restavano pochi attimi per decidere cosa fare per non perdere definitivamente contatto con la preda. Fuori di se dalla stizza, recuperò immediatamente lucidità e dopo essersi tolto il maglione  e indossandolo a mo di calzoni, si tuffo ’a chiumbu dalla barca per raggiungere in profondità la mola. Passarono alcuni interminabili istanti durante i quali Micu, allarmato, non vedeva riemergere lo Zio. Ad un tratto la tensione si fece insostenibile, fino a che qualcosa cominciò ad affiorare sotto la superficie, prima una grossa sagoma indistinta si materializzò nel blu del fondale, poi il busto di ‘u Zi Gaetanu, emerso dalla cintola in su fuori dall’acqua, come se cavalcasse un acquascooter guidandolo in spericolate evoluzioni. Dopo aver raggiunto in profondità la mola, Zii Gaetanu, vi si era agganciato con le mani tenendola dalle grandi pinne simmetriche usando le gambe, protette dalla pelle abrasiva del pesce dal pesante maglione, per cavalcarla sul dorso facendo leva per riportarlo su verso la superficie. Raccontata così, ai più, potrà sembrare una fiaba marinaresca ma è certo che quanto raccontato corrisponde a pura verità. E non è nemmeno un caso unico, visto che anche altri pescatori, trovandosi sprovvisti di strumenti adatti, hanno optato ,addirittura,per la pericolosa cavalcata della mola, riuscendo a direzionarla fino a condurla a riva. Il rischio non era tanto quello di essere disarcionato, quindi, oltre alle doti di cavallerizzo, il pescatore doveva essere munito delle dovute protezioni per non procurarsi, a braccia e gambe, delle brutte escoriazioni che si infettavano rapidamente rendendo la convalescenza un autentico calvario.