Formigoni vede il PdL come una nuova Dc

Roberto Formigoni lancia la sua candidatura alla guida di un PdL che “deve ripartire. Per farlo occorrono le primarie e io mi candido alla leadership”. Detto in altre parole, Formigoni punta al vertice del partito, a patto però che Berlusconi salga al Colle, ma questa volta nelle vesti di Presidente della Repubblica. Una condizione sine qua non, evidentemente al solo scopo di “pensionare” il Cav con la dignità che gli si deve per tutto il lavoro che ha fatto, consentendo così di spiegare la rivoluzione agli elettori nei termini di una fisiologica successione generazionale. Non solo. Quando Formigoni “sdogana” il bunga bunga, affermando che non è un ostacolo a una eventuale ascesa al Quirinale di Berlusconi, lo fa parlando sì da politico ma da politico cattolico, due ingredienti che nella sua vita non viaggiano mai disgiunti. E allora, il messaggio che emerge sembra chiaro: Silvio, fatti da parte, te lo chiedono i cattolici e i moderati. E’ giunta l’ora di cambiare. Già, ma come? Formigoni indica la strada: con le primarie, strumento utilizzato soltanto dal centrosinistra. Per arrivare dove? Il governatore pensa alla formazione di una squadra dirigenziale, magari capitanata da lui, in modo tale da spogliare una volta per tutte il PdL della leadership di tipo personalistico – per intenderci il modello berlusconiano – per giungere ad uno schema di potere condiviso e mediato da varie anime (leggi correnti). E riecco, così, la Democrazia Cristiana, un partito che grazie a questo tipo di struttura sapeva radicarsi sul territorio e raccogliere il consenso a livello trasversale, dai lavoratori delle fabbriche agli imprenditori. Proprio ciò che non è riuscito, o è riuscito solo in modo discontinuo, all’attuale PdL modellato sulla figura del Cavaliere. Un ritorno al passato, quello di Formigoni? Macché. Si tratta soltanto di riappropriarsi di un modello vincente, di una vecchia scuola politica che all’Italia, piaccia o no, ha dato molto.