Contro lo stigma, l’analisi dell’impatto socio-culturale del consumo di marijuana

Uno degli argomenti più dibattuti dai giornali e dalle pubblicazioni dell’ultimo decennio è la cannabis. Divenuta protagonista non solo perché i preparati ricavati dalle infiorescenze della pianta di canapa, la più comune delle quali è la marijuana, vengono utilizzati a scopo ricreativo fin dai tempi antichi. Ma anche per via del dibattito costantemente riacceso dalle varie legislature, che si sono interrogate (e continuano a farlo) sull’opportunità di legalizzare l’uso terapeutico e ricreativo della cannabis.

Le preparazioni a base di cannabis rappresentano la droga più diffusa tra la popolazione giovanile nei paesi occidentali. Ma, ciononostante, rimane una pianta molto controversa. Anche perché moltissimi ricercatori e sociologi, negli anni, hanno lamentato la scarsità di informazioni chiare e dettagliate in possesso della popolazione (e perfino degli organi legislativi) sulle caratteristiche, gli effetti e le proprietà della cannabis.

È anche per questo motivo se la pianta di canapa è vittima di uno stigma talmente radicato da essere additata come fonte di grande rischio per i suoi consumatori. Eppure, di cannabis se ne parlava – e se ne utilizzava – già nella preistoria, poiché gli impieghi medici e sociali di questa pianta hanno radici antiche.

Con i progressi tecnologici di questa società attuale, la cannabis è una delle più grandi candidate ad offrire nuove opportunità di utilizzo anche nel campo industriale, con particolare riferimento ai settori dell’ingegneria, della biotecnologia e dell’agricoltura.

Marijuana: il grande ruolo del suo consumo per la società

La marijuana è stata protagonista della storia degli anni Sessanta e Settanta, decenni caratterizzati da movimenti di controcultura che hanno rivoluzionato ogni approccio e ogni visione socio-culturale.

Il suo utilizzo si inseriva come una specie di fil rouge che faceva da connettore in un’epoca di enormi cambiamenti culturali, con effetti a cui si deve il merito tutt’oggi. Ci si riferisce ai movimenti femministi, ai movimenti per i diritti civili, alla rivoluzione sessuale e alla liberazione omosessuale, ma anche all’opposizione alla guerra del Vietnam, con gli hippy e i beatnik che si batterono per sfidare l’autorità del governo.

In questi contesti sociali e culturali, l’utilizzo di droghe e l’adozione di stili di vita alternativi vennero stigmatizzati. Eppure fu proprio durante questi grandi cambiamenti che l’uso della cannabis divenne capillare, poiché le si attribuiva un ruolo decisivo: creare un senso di appartenenza tra gli “oppositori” della Beat Generation e infondergli il coraggio necessario per sfidare la società e lo Stato.

Chi non aveva mai fatto uso di erba, infatti, sfogava il suo moralismo (fino al razzismo) nei confronti di chi utilizzava la cannabis, perché non conosceva una delle più grandi potenzialità delle sostanze psicoattive e stupefacenti, e cioè la capacità della cannabis di allargare la mente, di accentuare i sensi e di rappresentare un valido strumento per giungere a grandi intuizioni.

In quegli anni nasce in California uno dei più prestigiosi ibridi di canapa sativa – grazie all’ibridazione di una sativa messicana, di una colombiana e di un’indica indiana assieme alla Purple Thai thailandese – ad opera dei fratelli Haze. Il nome che le venne dato fu Purple Haze (sì, è anche il titolo di una canzone del leggendario Jimi Hendrix), per via delle sfumature di colore viola che caratterizza le infiorescenze. Il colore viola, per molte culture orientali (ma non solo), è legato al significato di nobiltà e ricchezza spirituale, per questo potrebbe essere interessante scoprire di più sulla marijuana viola.

La cannabis era, dunque, vittima di una narrazione culturale, diffusa dai governatori (con Richard Nixon e Ronald Reagan tra i più spietati) e dalla popolazione che la stigmatizzava, che scrittori del calibro di Ginsberg, Burroughs, Kerouac e Cassady la combatterono a suon di opere il cui tema era quello delle sostanze psicotrope e del loro fondamentale ruolo nel processo creativo.

Negli anni Ottanta, ci pensarono vari artisti e musicisti tra le più grandi icone del reggae, del funk e dell’R&B, fra cui spiccano Bob Marley, Peter Tosh, Snoop Dogg, Tupac Shakur, a parlare chiaramente della cannabis nelle loro canzoni, con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica e tenere vivo il dibattito sulla cannabis, per giungere a un cambiamento culturale che ne promuovesse la trasparenza e la normalizzazione dell’uso della cannabis.

Un utilizzo di cannabis inteso, pertanto, non come devastatore della società e delle menti, ma come strategia per accedere ai flussi creativi interiori e stimolare la lucidità, da inserire nel proprio stile di vita in maniera normale e piacevole. Attualmente, pare che questo cambio di rotta sia stato conseguito.