La capitale del libro scopre il talento di Lida Michela Carullo

La giovanissima scrittrice, autrice a 11 anni del romanzo Immersa nel caos, insignita del titolo di “Alfiere della Repubblica” (11 marzo) dal presidente Sergio Mattarella, ha partecipato ad uno degli appuntamenti del “Maggio dei Libri” che si è svolto a Palazzo Gagliardi sabato 22 maggio, nel corso del quale è stato proiettato il documentario “Dopo il silenzio. Nuovi scrittori calabresi”. Dopo l’importante proclamazione di “Vibo, capitale italiana del libro” Lida Michela Carullo rappresenta un caso letterario, ma anche la speranza di una nuova stagione di rinascita letteraria e culturale della Calabria.

Dal caos al caso: viaggio nel microcosmo di una terra estrema attraverso la parabola della scrittura

Maggio ha messo in scena la rinascita con l’esplodere della primavera che mostra la fioritura della sua anima feconda. E’ come se la natura scrivesse il suo libro più intenso, più colorato e più profumato. Non a caso il mese di maggio è anche il tempo dei libri. Quest’anno ha assunto un significato del tutto speciale per Vibo Valentia e l’Amministrazione comunale, perché è stata designata “Capitale italiana del libro” (7 maggio) dal Ministero della Cultura, presieduto dal ministro Dario Franceschini. E il “Il Maggio dei Libri” si è caricato di una risonanza che ha oltrepassato i confini del territorio.

Uno degli appuntamenti programmati dall’assessorato alla Cultura ha avuto come tema dominante il rinascimento della letteratura in Calabria, con i nuovi scrittori calabresi. E la presentazione del documentario “Dopo il silenzio – Nuovi scrittori calabresi” (sabato 22, ore 18), nella cornice storica di Palazzo Gagliardi – diventato il luogo deputato per la diffusione di eventi culturali – è stata l’occasione per scoprire una giovanissima scrittrice, Lida Michela Carullo, alla ribalta nazionale per essere stata insignita del titolo di “Alfiere della Repubblica” da parte del presidente Sergio Mattarella. L’evento è stato introdotto dall’Assessore alla Cultura, Daniela Rotino, che ha promosso “Il Maggio dei Libri”.

Lida Michela Carullo è uno di quei talenti naturali che sbocciano non per caso. A soli 11 anni aveva già nel cassetto il suo primo romanzo, Immersa nel caos, pubblicato nel 2019. Adesso ha sedici anni e frequenta il Liceo psicopedagogico “Capialbi” di Vibo Valentia.   

 “Ho sempre amato leggere. Ho iniziato a scrivere a 11 anni in un momento di solitudine – ha esordito, dopo la visione del documentario. “La lettura e la scrittura mi hanno liberato dal caos interiore. Non è tanto la scrittura importante, ma la lettura, perché ci fa vivere tantissime vite” – ha asserito la giovanissima scrittrice.  “Non ho vissuto soltanto la mia vita. Ho fatto tantissime esperienze attraverso la lettura, perché ha il potere di coinvolgerci e di farci vivere tante emozioni”. 

Sono riflessioni che ricordano una sorta di sillogismo coniato da Umberto Eco: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.”

 Ma la sua opera prima è stata un’altra: “In realtà il mio primo romanzo è stato Così per caso che avevo pubblicato su una piattaforma online, però mi sono vergognata e l’ho eliminato. Mi sono vergognata perché non ero sicura delle mie capacità”. Poi si è immersa nel caos: “Ho fatto diverse stesure del romanzo per acquisire una maggiore sicurezza nella scrittura”.

Il “caso” e il “caos”, anagrammi di questa scrittrice, aprono degli scenari inesplorati, sia per la sua età, ma anche per la maturità sorprendente con la quale dispiega il suo rapporto con la scrittura e con la materia caotica che ha trattato nel suo romanzo; vale a dire la solitudine, la depressione, l’abbandono e altre scottanti questioni che affliggono non sono le nuove generazioni in età adolescenziale, ma anche gli adulti. Ci ritroviamo di fronte a quello che gli antropologi e le scienze umanistiche in genere, definirebbero come “rito di passaggio”: una iniziazione attraverso l’esplorazione della profondità oscura dell’inconscio, per dare ordine al disordine ricorrendo al potere maieutico della parola, come è accaduto in tempi remoti con l’invenzione dei miti e delle fiabe.

Immersa nel caos non ha solo un valore di carattere artistico come opera creativa, ma va letto su diversi piani e livelli. Per tali ragioni possiamo affermare che si tratti di un “caso letterario”, anche per il luogo dove è ambientata la storia che vede come protagonista una studentessa, Vess (diminutivo di Vanessa), in una città mai vista come New York. Al centro quindi la scuola e una metropoli, simbolo della potenza degli USA, ma anche luogo dove l’umanità rischia di smarrire se stessa. Pensiamo, ad esempio alla raccolta “Poeta a New York” che il grande poeta andaluso, Federico Garcia Lorca (ucciso nel 1936 dal regima fascista di Francisco Franco, era nato il 5 giugno 1898) ha concepito quando ha visitato la metropoli in piena crisi economica, dopo il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre del 1929 (la raccolta uscirà postuma nel 1940, Poeta en Nueva York). La scelta di oltrepassare i confini continentali, in un luogo mai visto, innesta un cortocircuito con una citazione dell’antropologo Ernesto De Martino: “…per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria a cui l’immagine e il cuore tornino sempre di nuovo”. Questo importante antropologo che ha analizzato alcuni fenomeni etnologici come il tarantismo, la fascinazione o altre sopravvivenze che si richiamano al pensiero magico (in particolare nei libri “Sud e magia, 1959” e “La terra del rimorso”, 1961) ponendo la questione ontologica, fenomenologica, esistenziale e antropologica dello stare al mondo dell’uomo, prefigura le “apocalissi culturali” della civiltà borghese dominata dalla tecnica e dalle macchine, che De Martino declina come “crisi di presenza” (E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, 1977. Si veda anche L’etnologo e il poeta, in Albino Pierro, il mio villaggio,1959).

 Anche Lida Michela Carullo per poter diventare cosmopolita si porta dentro “un villaggio vivente nella memoria”:

“Ho scelto una città come New York perché è stato sempre un sogno andarci. Io amo viaggiare. Ma ci sono tanti posti in Calabria da scoprire. Amo la mia terra perché sono nata e cresciuta. Voglio rimanere qui anche da grande per ricostruire questo territorio, perché la Calabria non è solo ‘ndrangheta, ma è arte, letteratura, storia, cultura, mare, splendidi paesaggi.” ma soprattutto testimonia come l’esercizio della scrittura abbia, non solo un valore creativo, ma anche terapeutico”.

Alcuni passi del libro offrono una fotografia della tempra stilistica e della tecnica narrativa della sua scrittura:

“Forse ebbi solo un’amica in tutta la mia vita. Ma se ne andò anche lei. Alla fine se ne vanno tutti. La stupida sono sempre io. Rimango. Rimango sempre. Rimango perché voglio che ritornino di nuovo, che mi abbraccino e dicano che era solo uno stupido scherzo. Che ritornino da me per scusarsi e per ridere alla fine di una litigata. Rimango perché ho fiducia. Ma ora ho chiuso Ho regalato fiducia a troppo persone. L’hanno rovinata, rotta, spezzata, sporcata e buttata via. Come un rottame o un oggetto vecchio e di nessun valore, il quale ci sembra di troppo e decidiamo di buttarlo via. Ma non si sono resi conto che non hanno buttato solo quella. Hanno buttato via la mia gioia. Hanno buttato i miei sorrisi e le mie risate, hanno buttato i nostri bei ricordi. Hanno buttato il mio cuore. Hanno buttato me stessa come se fossi stata solo uno stupido oggetto, al quale è necessario sbarazzarsi al più presto…” (pp. 7- 8).

In questi enunciati si coglie il ritmo battente dell’anafora (la ripetizione delle stesse parole dà intensità emotiva e poetica ai sentimenti) e la disposizione paratattica delle proposizioni, ci rivela anche una vena poetica.   

“Ero solamente confusa. Talmente tanto confusa, che quasi dubitai di esistere. Perché sì, i ricordi mi facevano questo effetto. Mi facevano sparire. C’erano solo loro. Erano talmente tanti e così insistenti che a volte mi capitava di non farcela. Di cedere ed abbandonarmi a me stessa, a loro. Non potevo eliminarli. E anche i libri me lo confermarono: “Ricordare; ri.cor.dà.re/ “conservare nella memoria”. Già si conservano. A volte pensai di soffrire di disposofobia. La ricerca di accumulare qualsiasi cosa. Io lo facevo, sì. ma con i ricordi. Quei dannati ricordi che fanno come la luna. Ti seguono, ti seguono sempre qualsiasi destinazione tu scelga. La luna pè sempre lì. Alle tue spalle a seguirti, ovunque tu ti trovi. Cominciai così, ad odiare la luna, le stelle e tutto il dannato universo” (pp. 195-196).

Nel romanzo si affrontano questioni di grande delicatezza come quello dell’adozione; ma anche inquietanti, come quello della pedofilia. Lida Michela Carullo dimostra una straordinaria densità emotiva, psicologica e capacità di mettersi nei panni altrui:

“All’interno del libro parlo di alcuni temi molto forti come la depressione, la solitudine, la perdita, il lutto; ma uno dei temi che mi ha molto interessato è l’abuso sui minori.

“Ed improvvisamente una scena di anni fa, mi apparve davanti. “Papà che facciamo” dissi sorridendo. “tu che vorresti fare, Vess?” chiese l’uomodavanti a me. Alzai le spalle, “giochiamo” chiesi speranzosa. Mi era sempre piaciuto giocare, soprattutto con le bambole. Di solito lo facevo con mamma. Ma stava male ed era a curarsi. Papà mi aveva detto così. “D’accordo” disse, “ma scelgo io a cosa giocare” sussurrò e m i prese per la mia piccola mano, accompagnandomi nella camera sua e della mia mamma. “che facciamo? Saltiamo sul letto?” chiesi ingenuamente ma da lui ricevetti un “no” come risposta. All’improvviso persi il contatto con il pavimento e mi ritrovai seduta sui piedi del letto. “Allora piccola, giochiamo” disse e io annui. Ero curiosa di scoprire cosa avremmo fatto. Non ricordo di aver giocato prima d’ora in quella stanza. Non vedevo l’ora di vedere di che gioco si trattasse e poi giocarci anche con i miei amici. (161-162)

“Già, ero una povera orfanella, adottata così, per pura pietà e per accontentare delle famiglie, la mia famiglia per regalargli la gioia di un figlio. Mi sentii così uno stupido oggetto, il quale veniva usato per scopo personale. E questo concetto lo approfondii attraverso l’uomo con cui condivido il tetto, l’uomo che non ha saputo farmi da padre. Ed era stupido come io rimuginassi sempre nei ricordi. A volte pensai di essere masochista. Pensavo e pensavo sempre di più e così il dolore aumentava come lo facevano i ricordi…” (199-200).  

Significativa, come chiave di lettura, l’interpretazione editoriale riportata nell’aletta di copertina del libro:

“Trovarsi di fronte a Immersa nel caos significa incontrare un testo potente. La storia che viene espressa è variopinta, ricca di suspense, di continui colpi di scena immersi nella realtà quotidiana di un giovane ragazza, nella quale è semplice immedesimarsi. La voglia di riscatto e la speranza di trasformare il presente in un futuro migliore coesistono e si scontrano con il trepidante timore di “non essere abbastanza” e il turbolento rapporto con il passato. I temi trattati si dispiegano in diverse situazioni , tracciando un’ideale ricerca della verità all’interno degli eventi e nelle interiorità dei diversi personaggi del romanzo. E’ una trafila umana interessante quella in cui ci imbattiamo; le personalità messe in scena sono ben strutturate e poliedriche. Si può quasi azzardare dicendo che la vera protagonista del testo è la vita stessa e tutto ciò che racchiude; una vita che si manifesta con lucidità senza guardare in faccia solo le angosce e l’incomunicabilità. L’autrice si accosta a tematiche brucianti, delicate e di interesse collettivo; portando alla luce pieghe di una realtà a tratti crudele, ma lo fa con il garbo di una scrittura semplice ma allo stesso tempo incisiva.”  

Questa giovanissima scrittrice è riuscita a mettere ordine rispetto all’interrogazione a cui si è esposta. Immersa nel caos fa pensare all’origine del logos, quando l’umanità ha iniziato a inventare i miti per ordinare il caos originario, il mistero del cosmo (la stessa parola “cosmo” significa “ordine” associato al concetto della “bellezza”). Le narrazioni mitiche sono il frutto di una memoria collettiva che si porta dentro l’inconscio, quel mondo simbolico, onirico e sacro in cui si è manifestato il principio del logos (Aristotele e Vangelo secondo Giovanni). Il mito nasce proprio per mettere ordine al caos: e il racconto (mithos)spiega il mistero che avvolge il mondo attraverso l’intervento del sovrannaturale. Ma sotto il profilo psicologico, la letteratura è anche una esperienza terapeutica.

 “Per me la letteratura, la scrittura, hanno rappresentato un ordine al caos interiore iniziale, come la protagonista che si è ritrovata ad affrontare, ad esempio, il ricordo. Vess ha dimenticato il passato a causa dei traumi vissuti da piccola. Quindi quei ricordi negativi erano stati rimossi. Ho vissuto una crescita personale attraverso la scrittura. Sono più attenta a quello che succede nel mondo. Ho imparato ad analizzare tutto ciò che accade. La lettura come la scrittura mi hanno aperto gli occhi. La lettura e la scrittura rappresentano una bolla sicura, come lo sono stati per i ragazzi del Decameron che hanno deciso di isolarsi per sfuggire alla peste.”

Si pensi alla funzione del teatro tragico greco con il ricorso alla catarsi: ci ha consegnato la chiave per entrare con il linguaggio  dell’archetipo. Non a caso le opere classiche dialogano con tutte le generazioni, proprio perché entrano in contatto con una memoria collettiva, con una matrice universale che ognuno di noi si porta dentro, perché apparteniamo ad una coralità, ad una eredità millenaria di esperienze e di memorie. Questa corrispondenza ci deve far riflettere sul rapporto con la dimensione dell’alterità che è dentro di noi; vale a dire riconoscere e riconoscersi: riconoscere l’altro, ma anche noi stessi attraverso l’altro, il nostro speculum veritatis alchemico, come accade nel mito di Narciso. Spesso noi, negando l’alterità, neghiamo noi stessi. Lo afferma la scrittrice e filosofa Simone Weil (1909 – 1943) che la negazione dell’altro porta al male, mentre il riconoscimento dell’altro crea il bene: “E’ bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie” (S.Weil, Quaderni, 1941-1942)

“Rispetto alla negazione – ha ripreso Lida Michela Carullo richiamando un episodio del romanzo – la madre della protagonista nega ciò che succede alla figlia, ha paura di andare in fondo alla questione. Ed è proprio nella negazione che crea il male, perché se non ci fosse stata questa negazione, la protagonista non avrebbe sofferto così tanto.”

A concludere l’incontro con questa novella scrittrice, il sindaco dell’Amministrazione comunale di Vibo Valentia Maria Limardo. Dopo aver ringraziato per l’impegno profuso dall’assessore Daniela Rotino e per il prezioso contributo dell’archeologa Mariangela Preta, la Limardo si è soffermata sull’importanza che ha avuto il premio “Vibo capitale italiana del libro”, attraverso l’esempio della giovanissima Lida Michela Carullo:

“Questi giovani rappresentano per noi la rinascita. Ogni traguardo è un pezzo di strada che si fa, ma è al tempo stesso una tappa di un cammino. La designazione di Vibo capitale italiana del libro ci riempie di orgoglio. Un grande traguardo che abbiamo ambito insieme all’assessore Daniela Rotino, al contempo lo consideriamo una tappa importante.”

La Calabria nello “specchio parabolico” della scrittura

L’impressione è che la Calabria stia diventando una terra che ispira, capace di attrarre l’energia luminosa che proviene da sorgenti lontane come lo specchio parabolico per dissotterrare i suoi oscuri o luminosi segreti, oltre che il suo passato nascosto o le sue occulte verità: ma soprattutto l’anima raminga, inquieta e recondita, per far emergere le profondità inesplorate della sua natura geologica e antropologica. Si stanno manifestando dei segni che tracciano un disegno. Per poterlo identificare però sarebbe opportuno fare uno sforzo di immaginazione e cambiare scena: cioè spostare l’attenzione dagli uomini che hanno creato le storie (gli scrittori) per orientarla al luogo che fa da sfondo o da scenario alle stesse storie. D’altronde gli uomini sono figli di un remoto tempo vissuto in un rapporto psicofisico con la terra, dal cui ventre è scaturita la Cultura. In fondo la letteratura – compresa l’oralità, la cultura agrafa (la trasmissione dei saperi senza l’utilizzo della grafia),  è una delle espressioni dello spirito più alte che la civiltà dei sapiens abbia prodotto. Il suo concepimento è il frutto dello sguardo: il punto di vista con cui si interroga il mondo, il focus che accendiamo sui variegati teatri umani e naturali, come quando i primi uomini si sono ritrovati di fronte allo spettacolo stupefacente del creato facendo lievitare il sentimento della meraviglia che ha mosso la conoscenza e la filosofia. Platone e Aristotele lo avevano osservato:

“E’ proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo”. (Platone, Teeteto, 386 – 367 a.C.).

“Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare ora come in origine, a causa della meraviglia; mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi dell’intero universo. Ora, chi non prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere,; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. .. (Aristotele, Metafisica, IV sec. a.C.).

Anche un figlio di Platone e Aristotele della nostra contemporaneità particolarmente ispirato, Albert Einstein (a cento anni dal premio Nobel per la Fisica, 1921), fa ricorso alla meraviglia e al mistero come formula chiave per la conoscenza scientifica:

“La cosa più lontana dalla nostra esperienza è ciò che è misterioso. È l’emozione fondamentale accanto alla culla della vera arte e della vera scienza. Chi non lo conosce e non è più in grado di meravigliarsi, e non prova più stupore, è come morto, una candela spenta da un soffio. Fu l’esperienza del mistero – seppure mista alla paura – che generò la religione. Sapere dell’esistenza di qualcosa che non possiamo penetrare, sapere della manifestazione della ragione più profonda e della più radiosa bellezza, accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più elementari – questo sapere e questa emozione costituiscono la vera attitudine religiosa; in questo senso, e solo in questo, sono un uomo profondamente religioso. (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, raccolta miscellanea di scritti, 1999).

Il padre della relatività ristabilisce un legame non solo tra meraviglia e scienza, ma anche tra esperienza e verità:

“E’ privilegio del genio morale dell’uomo, impersonato da individui ispirati, suggerire degli assiomi etici così generali e ben fondati che gli uomini li accettino, in quanto ancorati alla grande massa delle loro esperienze emotive individuali. Gli assiomi etici vendono scoperti e verificati in modo non molto diverso dagli assiomi della scienza. La verità è ciò che resiste alla prova dell’esperienza” (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, 1950).

Quel primigenio mondo dove sono stati immaginati i miti, poi si è trasformato in un teatro, sulla cui scena l’uomo ha iniziato a indossare maschere, interpretando diversi ruoli; ma prima è stato spettatore di fenomeni e di eventi:  

“La sorte conduce una processione e dispone lo spettacolo a suo piacere. I partecipanti della processione hanno maschere diverse e variopinte; infatti la sorte a uno assegna una maschera regale, e gli incorona la testa  Con un diadema, a un altro invece assegna un volto di servo, un altro poi lo fa ricco e bello, un altro ancora deforme e ridicolo”. (Luciano di Samosata, 120 – 192 d.C).

Il teatro è sguardo, come rivela la stessa etimologia della parola. Anche coloro che non hanno scritto, attraverso l’osservazione, scoprono se stessi e raccontano la propria silente epopea. Nel caso della Calabria è accaduta una sorta di epifania: a manifestarsi è il volto di “un personaggio in cerca di autore” per parafrasare il noto dramma di Luigi Pirandello, a distanza di un secolo dalla sua prima rappresentazione (9 maggio 1921, Teatro Valle di Roma). Al centro, quindi, dell’immaginario, c’è questa terra, questa regione, i suoi travagliati figli, le sue tormentate vicissitudini, le profonde ferite inferte alla sua anima, ma anche i suoi desideri che sono rimasti appesi o sospesi al filo dei sogni, con le sue inconfessate attese, con le sue titaniche lotte, per dimostrare che non è vero ciò che appare. Siamo nell’era delle “maschere” prefigurate da Luciano di Samosata e della post-verità.  Nella maschera e nel contrasto vita-forma, Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934, ha costruito la sua visone grottesco-umoristica dell’esistenza, demistificando le menzogne della società borghese e mandando letteralmente in crisi l’identità dell’individuo, come se improvvisamente un sisma abbia ridotto in macerie le certezze costruite con grande fatica e umiltà – o presunzione e arroganza – dall’umanità. Lo aveva già svelato Shakespeare che “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Hanno le loro uscite e le loro entrate; e nella vita ognuno recita diversi ruoli… ” (Come vi piace, 1599-1600) 

  E in questi primi vagiti del nuovo millennio le esigue e ingannevoli sicurezze (la pandemia le ha fatto emergere), con cui abbiamo nutrito il disinganno, sono state scosse, e spettatori increduli, abbiamo assistito ad uno spettacolo stupefacente, ad una partenogenesi a cui ci siamo ormai assuefatti. E da “terra estrema” la Calabria riesce a partorire fenomeni inspiegabili. Per misurare la loro smisuratezza, dopo che Ulisse ha oltrepassato le mitiche Colonne d’ercole (XXVI canto dell’Inferno), in un tempo che si deve “misurare” con il salto della specie dei virus, dobbiamo ricorrere al “salto quantico” della Teoria dei Quanti, perché la particella-onda con cui è composta la materia umana, rifugge agli sguardi indiscreti, e tutto rimane indeterminato, come emerge dalle sperimentazione che ha portato alla nota formulazione del principio di indeterminazione (Werner Karl Heisenberg, 1927), sancendo una rottura con la meccanica classica e aprendo la strada alla crisi delle certezze delle scienze positive e dell’uomo come personaggio, che ancora, è in cerca di autore:

“Nell’ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere è piuttosto rimesso al gioco del caso”. (W.K. Heisemberg, Ordinamento della realtà, 1942).

Anche la Calabria è rimessa al gioco del caso e della necessità (per riprendere il titolo del famoso libro di Jaques Monod, premio Nobel per la Medicina nel 1965), ma anche al mistero che incombe sul destino della materia elementare su cui si identifica il destino della condizione umana, come l’istinto, la parola e il pensiero. Lo hanno intuito alcuni nuovi scrittori che hanno fatto uscire dal silenzio questa terra, andando ad interrogare quelle particelle-onde instabili non facilmente osservabili e identificabili, secondo i classici strumenti di misura. Forse attraverso uno sguardo de-formato o trasformato si possono cogliere le segrete sfumature fisiche della materia oscura (una componente invisibile e misteriosa che occupa circa il 25% dell’universo, scoperta nel 1974 dall’astrofisica Vera Rubin, 1928 – 2016). Nel microcosmo calabro i corpi e i corpuscoli agitano gli atomi di una materia esistenziale composta da particelle-materia che sperimentano la diaspora (di tipo fermionico, quark, elettroni e neutrini) e da particelle-forza (di tipo bosonico), portatrici delle forze fondamentali esistenti in natura (fotoni e gluoni, privi di massa, e i bosoni Xe Z, dotati di massa) che sentono un’inguaribile nostalgia del ritorno, al pari del sentimento di struggimento interiore come il romantico sehnsucht. Ma siamo sempre nel campo fenomenico della lotta tra il bene e il male, tra materia e antimateria, come svela il mistero che avvolge il bosone di Higgs, passato alla storia come “particella di Dio” (sperimentata al CERN di Ginevra nel 2012), grazie alla quale si sono generate le creature, comprese quelle umane, per come ci è stato rivelato dalla rivoluzionaria teoria di Charles Darwin (L’origine della specie risale al 1859, mentre L’origine dell’uomo al 1870). Lungo questa linea evolutiva e di trasformazione genetica, morfologica e antropologica, si è affermato il genere di homo della specie Sapiens con sottoclasse Italicus  Kalabris nei circa duecentomila anni di storia, da quando i nostri antenati Sapiens Sapiens hanno imposto la loro intelligenza – sulla cui sapienza contemporanea i dubbi attanagliano la coscienza, non solo la scienza.

Eppure ci sono dei segni importanti di novità che fanno ben sperare nell’orizzonte dell’avanguardia letteraria contemporanea della Calabria: come i protagonisti di “Dopo il silenzio. Nuovi scrittori calabresi (regia di Mario Canale, prodotto da Giulia Mancini, 2018). L’evocativo titolo ci riconduce al Fiat lux della Genesi, l’atto creativo per antonomasia. Cinque narratori come le mitiche cinque età evolutive e le cinque dita rocciose su cui si inerpica il suggestivo borgo di Pentedattilo, in quella striscia di terra dove ancora si può ascoltare l’idioma di Omero, il greco di Calabria, ma anche il profumo dei bergamotti. Questi autori sono stati alla ribalta nazionale, con diversi riconoscimenti, anche di carattere cinematografico e televisivo (si ricordano Anime nere di Gioacchino Criaco,  Il giudice meschino di Mimmo Gangemi, ma anche Artemisia Sanchez di Santo Gioffrè, anche se quest’ultimo non appare nel documentario), facendo della Calabria il genius loci di un mondo che era rimasto confinato nel recinto, o dentro il labirinto, della cronaca nera o inghiottita nel buco nero prodotto dal “bacio del sole”. Non a caso, a fare da leitmotiv, il brano di Leonida Repaci tratto da “Calabria grande e amara” che risale al 1964. È l’anno in cui Pier Paolo Pasolini scrive la profezia di “Alì dagli occhi azzurri” e Franco Costabile “Il canto dei nuovi emigranti”.  Per l’anniversario dei quarant’anni dalla sua tragica scomparsa (1965) alla storia del poeta di San Biase (Lamezia Terme)  è stato dedicato un documentario che porta l’omonimo titolo del suo poema, realizzato da due giovani registi del Vibonese, Felice D’Agostino e Arturo Lavorato, premiato al 23° Torino film festival nel 2005. In Calabria la questione delle “migrazioni” diventa prefigurazione del mondo che vediamo sotto i nostri occhi. Franco Costabile nel suo drammatico “Canto” ha evocato lo strazio di una Calabria disperata, segnata dalla miseria e dall’abbandono, mentre Pasolini ha concepito uno straordinario testo profetico in cui la capacità di scavare in profondità è diventata visione nitida del futuro. E non è casuale che il regista, scrittore e poeta sia stato ispirato dalla Calabria: “… Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/a milioni, vestiti di stracci,/ asiatici, e di camice americane./ subito i calabresi diranno,/ come malandrini a malandrini:/ Ecco di vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio./Da Crotone o Palmi saliranno/ a Napoli, e da lì a Barcellona/ a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita./ Anime e angeli, topi e pidocchi,/ col germe della Storia Antica…

Anche Leonida Repaci, nativo di Palmi, sente il richiamo dell’archetipo, a partire dalla mitica creazione della Genesi per approdare alla concezione umanistico-rinascimentale dell’homo artifex fortunae sua ma anche copula mundi (Marsilio Ficino), infuso dello spirito plasmatore e creativo dell’Horatio dignitate hominis (Pico della Mirandola) e dell’Uomo vitruviano (Leonardo). Questa concezione dell’uomo plasmatore e creatore al pari di Dio, spinge Machiavelli a concepire la politica come il delirio di onnipotenza con la lotta spietata per il potere, bandendo la pietas  e l’humanitas, rinnegando l’humus da cui è fecondato l’Umanesimo e il Rinascimento. Nel testo di Repaci la Calabria viene colta nell’atto della sua creazione come una sorta di paradiso in cui il demonio ha seminato il suo “mal seme di Adamo” (Dante, Inferno, III canto) condannando i calabresi a vivere “Tra la perduta gente”, come ha immaginato il filantropo e archeologo Umberto Zanotti Bianco, in una serie di racconti scritti tra il 1916 e il 1926, testimone di una terra condannata alla dannazione. In “Calabria grande e amara”  vengono infatti descritti ed evocati i tanti mali con cui ogni nato in questa terra sembra predestinato, nonostante la vana speranza di redimersi nella titanica lotta contro la natura tellurica di Gea e un destino di emarginazione e di emigrazione. Un quadro tragico di deprivazione e di degrado materiale, morale e culturale, che ha aperto la strada alle forze del male. E mentre nel frattempo la criminalità è riuscita ad organizzarsi, le istituzioni democratiche, con tutto il super apparato bellico, tecnico e tecnologico che hanno a disposizione sia l’intelligence che le forze armate, hanno dimostrato di non sapersi organizzare per estirpare il “mal seme”. Paradossi di questa nostra Repubblica che rinnega la propria Costituzione a 75 anni dal referendum istituzionale, nonostante la reiterata propaganda dei rappresentanti istituzionali con altisonanti e iperboliche liturgie. Come risultato macroscopico, osserviamo l’anestetizzazione o narcotizzazione delle coscienze attraverso la mutazione antropologica (sotto l’effetto irreversibile della civiltà dei consumi, fotografata da Pasolini negli Scritti corsari, 1975). Così si può giustificare il confinamento a terra estrema e irredimibile la Calabria, portando all’autoconvinzione che tutto è già scritto nel DNA del pre-giudizio della natura del calabrese, grazie ad una ben studiata e oculata/occulta persuasione da parte dei poteri mediatici al servizio di altri poteri, che, cme ogni male, sono occulti. Tradotto, significa che ancora ci dobbiamo liberare da una visione antropologica frutto delle aberranti teorie della razza alla Cesare Lombroso. Ma sappiamo, grazie all’osservazione scientifica nel campo dell’evoluzione genetica ed epigenetica dei caratteri ereditari della vita sulla terra – e quindi anche in Calabria e in altri luoghi “sperduti” del mondo – che è il caso a recitare un ruolo decisivo nel salto evolutivo degli esseri viventi, oltre alla necessità (selezione e adattamento).

E in questa ricerca della filogenesi letteraria, la Calabria, in particolare il Vibonese, ci ha riservato una illuminante scoperta. Non sappiamo quanto abbia giocato il caso, oppure siamo dentro la manifestazione dell’inconscio collettivo che ogni generazione si porta dentro, e poi, in modo inaspettato, lo partorisce per caso… Sicuramente agisce quella legge dello Spirito che si rintraccia nella materia quantica, filosofica e spirituale, come i corsi e ricorsi storici teorizzati da Giambattista Vico e dalla Fisica dei Quanti. Forse sta per manifestarsi l’Età dello Spirito, i “tempi nuovi”in cui il mondo sarà trasfigurato dalla venuta dello “Spirito della gioia”,  dopo quella del Padre e del Figlio, come aveva preconizzato Gioacchino da Fiore, oltre 8 secoli fa?

Al di là di questo arco storico e fenomenologico di lunga durata, alla luce delle testimonianze degli scrittori protagonisti del documentario “Dopo il silenzio. Nuovi scrittori calabresi”, l’attenzione va posta su una questione fondamentale: la funzione e la responsabilità che gli scrittori hanno nel tentativo di redimere le genti di Calabria e far germogliare quell’anima infusa nel sentimento classico-romantico-risorgimentale, affinché la luce possa trionfare sull’oscurità della barbarie, nel segno più profondo dell’eredità che ci ha consegnato la tradizione della civiltà classica greca e magnogreca.

In primo luogo emerge l’importante ruolo degli scrittori nel raccontare la Calabria. A questo primo motivo si lega la funzione della letteratura e della cultura nel cercare di cambiare le sorti di una terra martoriata. Nelle testimonianze di Carmine Abate, Gioacchino Criaco, Anna Rosa Macrì, Mimmo Gangemi, Domenico Dara, è venuto fuori il tema dell’impegno. Che richiama la funzione degli scrittori naturalisti e veristi: l’opera diventa non solo una produzione artistica, ma anche un documento sociale, umano, che può essere declinato in chiave evolutiva e pedagogica, di denuncia ma anche di responsabilità culturale e formativa. Ad esempio, è significativa l’istanza, da parte di tutti, di uscire dalle narrazioni che vedono la Calabria come una terra “senza colpa e senza redenzione” per citare Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (un’opera, a mio avviso, con cui ogni calabrese si dovrebbe misurare, anche se racconta il suo confino in un paese della Lucania), segnata da pregiudizi e da un destino di rassegnazione. Si intravede uno spirito che illumina il lavoro letterario di questi autori in risonanza con il percorso storico della letteratura italiana più significativo sotto il profilo etico-politico. Una mappa che parte da Dante, lasciando il testimone al nostro Tommaso Campanella, che passa a Giuseppe Parini, Carlo Goldoni, Ugo Foscolo, coinvolgendo una buona parte della letteratura romantico-risorgimentale fino ai veristi, per approdare alla stagione degli scrittori che hanno dato vita al Neorealismo, che comprende tra gli altri, gli emblematici e intensi testi poetici della raccolta “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo. Dall’altro, un filone che possiamo definire del “disimpegno”, una letteratura che nasce per intrattenere, di produzione o esibizione estetica (arte celebrativa e arte per l’arte), ma che ha una sua valenza artistico-letteraria per definire lo spirito di un’età o di una società, come è accaduto nel periodo umanistico-rinascimentale che ha prodotto i poemi epico-cavallereschi e tutta quella tradizione popolare che è approdata nell’opera dei pupi:

“Pupi siamo, caro Signor Fifì. Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori ! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pu­po che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti ! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. (L. Pirandello, Il berretto a sonagli, Atto primo, scena IV)

Le questioni che emergono dalle parole degli scrittori fondamentalmente sono quelle che si portano dietro e dentro il desiderio di raccontare una Calabria diversa rispetto al clichè della narrazione mediatico-spettacolare cronachistica che la vedono inchiodata “al palo del telegrafo” citando il noto verso di Salvatore  Quasimodo  di “All’ombra dei salici”.

La letteratura, l’arte, nascono dal rapporto che ogni scrittore o artista intrattiene o crea con il proprio mondo, a partire dal luogo di origine. È lo sguardo che interroga e decodifica i segni che si dispiegano lungo il divenire del suo itinerario umano, emotivo, esistenziale e storico e li traduce sulla pagina attraverso la sua capacità immaginativa, espressiva e creativa. E dalle parole dei nostri autori si osserva come lo sguardo sia diverso tra chi è andato via dalla Calabria, come Carmine Abate, Domenico Dara e in parte Criaco; e chi invece è rimasto, come Anna Rosa Macrì e Mimmo Gangemi. Coloro che vivono fuori dalla Calabria hanno un doppio sguardo (lo esplicita Abate); o meglio, uno sguardo i cui orizzonti si sono dilatati e distanziati. Ed è interessante notare come in questi autori, la distanza, la lontananza, abbia prodotto una visione che possiamo definire romantica, come ricerca di una matrice originaria che sconfina in una sorta di mitologia, attraverso una visione che riesce a penetrare la superficie spesso opaca della storia o della cronaca, che appunto, ci inchioda ad un destino di rassegnazione. Facendo invece leva su un sentimento del divenire storico, del legame tra presente e passato, nella compiuta formazione della coscienza collettiva, si definisce una dimensione romantica nel rapporto con il luogo di origine, di una scissione che si è prodotta per lo sradicamento e la messa in crisi dell’identità. Al concetto di società – un insieme di individui uniti per motivi di opportunità e interessi comuni, il patto sociale appunto, frutto della cultura illuminista – subentra quello di nazione, che chiama in causa i sentimenti, le emozioni, le memorie, con un senso di appartenenza, per lingua, origini etniche e la consapevolezza della propria identità culturale, anche se in chiave antropologica.

In questa volontà programmatica di penetrare la storia, sullo sfondo appare la categoria estetica, teorizzata da Alessandro Manzoni, del “vero poetico” che deve dare il sangue al “vero storico”. Non a caso, in particolare Dara, innesta il dialetto nel corpo della lingua italiana, senza artificio, ma come un parto naturale. Significative le sue dichiarazioni di poetica:

“Girifalco è come ogni luogo: un microcosmo. Io penso che Girifalco è essa stessa ma ogni luogo del mondo. Il presupposto che ogni storia, ogni vita vissuta è una vita che va raccontata come un romanzo. Tutti noi viviamo un romanzo e quindi Girifalco è un microcosmo in cui queste storie trovano il loro compimento. In fondo non ho fatto altro che raccontare quello che vedevo da ragazzo e quindi questa umanità, questo universo di personaggi leggendario che la mia fantasia trasformava in personaggi letterari. Quindi bisogna solo fare uno sforzo di immaginazione per riuscire a vedere in questa quotidianità che noi viviamo il centro dell’umanità”. 

Allora, si può dedurre che la Calabria, in questa fase storica, stia vivendo una riscoperta di se stessa, una nuova “coscienza storica”, facendo ricorso all’interpretazione ermeneutica del filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer 1900 – 2002):

“La presa di coscienza storica può considerarsi un privilegio e una rivoluzione dell’epoca moderna; con tale espressione indichiamo il privilegio dell’uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività di ogni opinione. Tale svolta si è radicata in ogni ambito del sapere, anche nelle Weltanshaunmgen, garantendo l’accordo tra le molteplici posizioni delle scienze naturali in un insieme coerente alla luce della consapevolezza che  ciascuna di tali scienze un carattere particolare della propria prospettiva” (H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, 1969).

Anche la letteratura si può ridefinire come una espressione della natura umana, oltre che come prodotto culturale. Ed è per questa apertura nell’ambito delle scienze umanistiche, ma nella visione sinestetica complessiva dell’unità dei saperi, proprio attraverso lo sguardo “scientifico” di questi autori che studiano i documenti umani e li traducono con il linguaggio alfabetico, possiamo anche spingerci a parlare di Rinascimento calabrese. Si tratta, in definitiva, di offrire una visione – o quelle Weltanshaunmgen anche utopiche all’anima – per uscire dall’oscurità in cui ci siamo ritrovati per diversi motivi. La fioritura di questi autori ci racconta che dentro il corpo ammalato – contaminato – di questa terra, contagiato da virus che non sappiamo se frutto del salto evolutivo di specie o costruiti in laboratorio, stanno attecchendo robusti anticorpi. Il lavoro compiuto è stato quello di riscoprire delle storie rimaste sepolte e dissotterrare una memoria collettiva originaria per restituire un immaginario che è stato distrutto dalla inesorabile narrazione negativa che si è nutrita con il veleno del clamore mediatico; per cui la scena è stata occupata dalla “poetica del male”: da un lato si è creata una forma di rassegnata accettazione e dall’altra di autocompiacimento e di dipendenza rispetto alla propria sensazione di impotenza che si porta dentro il complesso di inferiorità. E il male diventa anch’esso uno spettacolo da esibire e una parte del nostro corpo che viene estroflesso. In un mondo in cui tutto diventa merce, prodotto da vendere sul mercato mediatico, mercificazione e mistificazione nello stesso tempo, ci siamo auto convinti che siamo irredimibili: rinchiusi in un labirinto dove prima o poi il Minotauro ci divorerà. Una dottrina calvinista rovesciata: le opere non sono certo il segno di una elezione, ma di disgrazia.

Sono emblematiche le parole della Macrì:

Pur da un punto di vista umano, morale, politico, prendendomi tutto il carico dei problemi della Calabria, rivendico il piacere, il gusto, il diritto ma anche il dovere di raccontare una normalità calabrese che qualcuno si deve decidere pure a raccontare, perché non la racconta nessuno. Mi domando perché un film che racconta la storia di una famiglia possa essere ambientato ad Asti, a Treviso e in qualunque provincia italiana e non a Cosenza, a Catanzaro o Reggio.

Oppure il concetto di responsabilità espresso da parte di Abate, in quanto avverte l’esigenza

 di scrivere queste storie e di dare voce a queste persone che prima di noi hanno fatto la nostra storia che è legatissima al presente. Lo vedo come un univo filo, non vedo stacchi. Mi sento l’erede di questi contadini che hanno occupato le terre, questi contadini morti a Melissa, sento questa responsabilità in quanto scrittore, di non far dimenticare queste storie.  

E’ l’operazione di consapevolezza del ruolo sociale, politico e antropologico della letteratura, ma anche della poesia, di farci uscire dalla fatalità, da quella narrazione di terra predestinata alla dannazione.

I protagonisti del documentario credono nel riscatto, prospettano un destino diverso in questa terra estrema, come si prefigge “Nella terra estrema: reportage sulla Calabria” (2013), una antologia in cui sono raccolti gli scritti di Giovanni Russo (giornalista nato a Salerno scomparso nel 2017, con un saggio introduttivo di Vito Teti). E partendo dalla sua estremità geografica e culturale, la Calabria si candida ad essere un laboratorio politico ed esistenziale unico proprio per la posizione di “estremità”: perché la postura dell’intero corpo sociale e politico dell’intera Penisola dipende dal piede. La Calabria è una terra profondamente ferita, depredata, complessa, difficile, ma che ci pone di fronte una straordinaria sfida, una inattesa opportunità, una enorme responsabilità, proprio perché è un luogo estremo, proteso nel cuore del Mediterraneo,  che coniuga i verbi al passato remoto. In primo luogo, perché noi calabresi – che abbiamo deciso di restare – viviamo esperienze al limite; poi perché nasciamo già sradicati: vuoi o non vuoi, sperimentiamo una sorta di diaspora esistenziale, ma senza avere un Dio, perché non siamo certo un popolo eletto come gli Ebrei e la Calabria non è una “Terra Promessa” (al contrario, ripudiata e pregiudicata) e dobbiamo lottare una sfida impari, titanica per dover mostrare e dimostrare che invece siamo la più antica progenie italica. Ci tocca costantemente dimostrarlo perché siamo sotto osservazione, come i pazienti Covid. Per cui, sotto questa specola, anche la retorica dell’orgoglio o del riscatto, diventa a volte una trappola, una lama a doppio taglio. Riscatto perché e da che cosa? Da chi e per raggiungere quale successo? Certo, tutto dovrebbe essere teso a conquistare la dignità come il fine più alto in cui si attua la libertà, che si contrapponga ad un modello forgiato dai quei poteri economici, produttivi e mediatici che diffonde inganni, menzogne, emarginazione, distruzione, disumanità, miseria, e ci fa pensare e desiderare i pensieri e i desideri che sono merce in vendita, perché fanno comodo ad un sistema i cui frutti velenosi sono la criminalità organizzata, la produzione di inquinamento, di armi, di massacri, di violenza, di colonizzazioni vecchie e nuove, di sfruttamento, di crimini legalizzati e di profonde ingiustizie. Per lo stesso meccanismo proiettivo, ci lasciamo “affascinare” dai tanti pregiudizi, perché siamo recalcitranti a farci un esame di coscienza “spietato” e a togliere le maschere con cui amiamo confabulare.      

Ecco la vera sfida: restare per non essere trascinati nel vortice della mutazione antropologica a causa del complesso di inferiorità che ci è stato iniettato come un virus e di cui noi stessi siamo vittime e carnefici predestinati. Questa resistenza eretica forse è l’ispirazione, il motivo forte di questa fioritura che, in questo inizio del nuovo millennio, sta facendo mostra di un atteso rinascimento letterario. L’eresia intesa come forza per affermare la propria libertà, come è testimoniata da don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera:

“Vi auguro di essere eretici perché eresia dal greco significa scelta. Eretico è la persona che sceglie. L’eretico è colui che più della verità ama la ricerca della verità. L’eresia dei fatti prima di quella delle parole. L’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi. L’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità, dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri, chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è colui che non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia chi approfondisce chi si mette in gioco in quello che fa chi crede che solo nel “noi” l’”io” possa trovare una realizzazione. Chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie, chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza che sono le malattie spirituali della nostra epoca.” (Don Luigi Ciotti,  Congresso nazionale di “Slow food”, 10/05/ 2014. Si veda anche L’eresia della verità, 2017.  

Ma se non si ara e non si coltiva il terreno dell’humanitas e non si tracciano solchi profondi che scoprano la tradizione classica, non potrà fiorire nessun Rinascimento. Si tratta di aprire, scoprire e far emergere, come quando appunto si ara e si coltiva: con cura, con pazienza, con quella fede (ma anche capacità contemplativa e visiva) che anima il contadino fiducioso che i suoi sacrifici si tradurranno in un raccolto. La letteratura è anche un’operazione archeologica e maieutica. La giovanissima Lida Michela Carullo ne rappresenta una testimonianza ma è anche una testimone esemplare. Ma anche perché, come ci rammenta Mario Vargas Llosa (premio Nobel per la Letteratura nel 2010) “un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni” (M. Vargas Llosa, Elogio della lettura e della finzione, 2011)

 La scrittura quindi diventa il luogo in cui questa terra può riscrivere il suo destino, senza più portarsi il fardello del complesso di inferiorità. Allora, l’altro passaggio importante, fondamentale, come atto di maturità e consapevolezza, è dettato dal “coraggio di essere eretici”: restare in questa terra estrema, generando lo sguardo dal di dentro il ventre tellurico, e farlo partorire, con tutte le sue verità nascoste, come un magma in eruzione che trasforma anche la propria geologia e genealogia antropologica. Anche da lontano, con una visione più staccata, con un orizzonte più aperto, si ha la possibilità di entrare nell’anima, di andare in profondità, con l’estensione dello spettro visivo, come accade ad esempio a Abate e Dara. Quando si ama la pupilla si dilata. Succede in tutte quelle situazioni in cui si è attratti da qualcuno che si ha di fronte come reazione fisiologica del nostro occhio, per il rilascio della dopamina. Così accade all’iride dello scrittore, quella che in gergo tecnico è definita come “midrasi” dal greco amadros, oscuro, al contrario la “miosi”, da meiosis, indica il restringimento della pupilla di fronte ad uno stimolo luminoso. L’amore dilata le pupille. Come la diastole del cuore, il dispiegamento di un dono, in modo gratuito e con Grazia, senza aspettarsi un profitto. Al contrario le paure ci chiudono, ci oscurano. Il grande scrittore greco Nikos Kazantzakis (1883- 1957 ) ha fatto scrivere questa potente epigrafe sulla sua tomba:
“Non mi aspetto niente. Non ho paura di nessuno. Io sono libero”.

Rispetto ad Abate e a Dara, la Macrì, Gangemi e lo stesso Criaco, hanno dato più intensità alla dimensione storica e sociale dei personaggi. Pensiamo a Giuseppe, il protagonista de La signora di Ellis Island, che racconta l’epopea dell’emigrazione e il ritorno per il riscatto, come spiega lo stesso Gangemi:

“A me piacerebbe che nascesse una generazione con uno scatto di orgoglio che ebbe Giuseppe ne La signora di Ellis Island, e che decidesse di costruire qui, nella sua terra quello che è così bravo a costruire altrove facendo la fortuna delle terre dove emigra. Però non succede. Il spero tanto che si sia questa inversione di tendenza. Non succede perché sono riuscirci a convincerci, a farci entrare nella testa che questa sia orma una terra persa”.

 Anna Rosa Macrì attraverso la sua sensibilità, avendo vissuto la Calabria da giornalista, entrando nella vita di tante persone, scopre un mondo più psicologico, le storie più nascoste, da un punto di vista femminile, per raccontare una normalità di questa regione. Criaco addirittura rovescia il paradigma negativo della poetica che Giovanni Verga ha immaginato nel “Ciclo dei vinti”:

“La mia letteratura, sia in positivo che in negativo, non è una letteratura dei vinti. Mi sono ripreso il diritto di raccontare la mia terra. Ma non per farne una cartolina o un racconto migliore. Per dire che noi possiamo raccontare il nostro mondo e lo possiamo fare in modo sincero… Penso che il mio modo di scrivere sia totalmente differente dalla letteratura calabrese classica, degli Alvaro, degli Strati, dei Seminara. I protagonisti dei miei libri il destino se lo costruiscono. Non sono dei vinti, oppure non si sentono dei vinti… Loro sono in un mondo nuovo e vogliono vivere in questo mondo da protagonisti. La mia è una generazione di mogli e figli che stanno senza mariti e senza padri e quindi si uniscono per dare una nuova interpretazione alla vita”.     

Mettersi nei panni degli altri è l’operazione umana ed esistenziale più difficile da fare. Ma anche l’assumersi la responsabilità, quella che i greci hanno identificato come parresia, il primato della coscienza e il rispondere delle verità delle parole, perché “le parole sono pietre” (Carlo Levi). Con l’auspicio di un Rinascimento di Vibo e della Calabria: attraverso la scrittura, la lettura, soprattutto attraverso l’apertura (la “midrasi” e la “diastole”), l’ascolto e la presenza, dopo la negazione in questo nostro tempo scandito dall’emergenza sanitaria, per sviluppare gli anticorpi e avere una maggiore consapevolezza delle risorse per investire sulla fiducia verso le nuove generazioni che, come Lida Michela Carullo, si sono immersi nel caos di questi tempi, per ritessere il filo della libertà, del dono, dell’amore, coniugato come filos e agape: libertà per una scelta consapevole (coscienza etica-eretica); amore come cura della terra (coscienza ecologica) in cui poter coltivare la propria vita senza negazione dell’altrui esistenza ma con l’apertura e la scoperta dell’alterità (coscienza della pietas e dell’humanitas), con la passione che anima chi lotta per il bene e il bello la kalokagathia (coscienza estetica), come ci esorta la stessa etimologia della parola Calabria, Kalon-brion: “faccio sorgere il bene”.