Il Verso dì Dante: viaggio tra la perduta gente di Calabria

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Nella ricorrenza del “Dantedì, istituita lo scorso anno, 25 marzo, per celebrare il simbolico viaggio che Dante ha immaginato di iniziare nella settimana santa del 1300 (anche se diversi studiosi indicano come data probabile la notte tra il 7 e l’8 aprile), proseguiamo il “cammin” smarrito anche in questa II edizione, dopo aver chiesto aiuto al Sommo Poeta per attraversare la selva oscura della pandemia con la sua illuminante lezione a distanza, che abbiamo tradotto su queste pagine precisamente un anno fa (La lezione di Dante in questi dì: l’illuminante viaggio della Comedìa e il follo volo di Ulisse, (https://www.laprimapagina.it/2020/03/28/la-lezione-di-dante-in-questi-di-lilluminante-viaggio-della-comedia-e-il-follo-volo-di-ulisse/(si apre in una nuova scheda).

In questo nuovo viaggio creiamo un’inedita corrispondenza tra il cammin del Sommo Poeta e quello che Umberto Zanotti Bianco compie “Tra la perduta gente” di Africo e della Calabria, quando il filantropo, archeologo, senatore a vita e fondatore di Italia Nostra, nell’arco temporale che va dal 1910 al 1928 (data in cui il regime fascista lo costringe al confino, la stessa sorte toccata a Dante) stabilisce la sua residenza in Calabria. All’indomani del disastroso terremoto del 1908, che ha distrutto Reggio e Messina,  il giovane Umberto (nasce nell’isola di Creta nel 1889) dà vita a centinaia di asili, scuole, corsi serali e professionali, biblioteche popolari, e tante altre straordinarie opere sociali e umanitarie nei paesi più sperduti e poveri dell’Aspromonte. Un’opera incredibile per quei tempi, grazie al suo spirito missionario (per questo definito “monaco laico”) e al volontariato, che ha consentito a migliaia e migliaia di giovani e di adulti di uscire dalla condizione di emarginazione e di analfabetismo, attraverso nuove forme di cooperativismo economico. Ma altrettanto importante è stata la sua opera nell’ambito storico-archeologico, condotta insieme a Paolo Orsi. Umberto Zanotti Bianco era convinto che l’arretratezza meridionale avesse tra le sue cause principali anche la perdita della memoria storica e che il vero riscatto passasse attraverso l’investimento nella cultura, come la riscoperta della Magna Grecia. In questa instancabile opera, animato dal motto “vade ed repara domum meam” (va e ripara la mia casa) si è prodigato fino alla fine dei suoi anni (28 agosto 1963), in una terra, come la Calabria,  che i poteri dell’epoca avevano emarginato con lo Stato colpevolmente assente, lasciando in abbandono un popolo diseredato.

A distanza di oltre cento anni anche se le condizioni non sono più le stesse, quella denuncia è attuale e la Calabria è ancora la terra del “doloroso ospizio” de “la perduta gente” in cui si dissemina copioso “il mal seme di Adamo”. E si ripete la predazione e la spoliazione delle risorse collettive da parte di poteri criminali e occulti con diversi “responsabili” istituzionali complici e conniventi: per la loro spregiudicata e cieca bramosia, hanno favorito la criminalità organizzata e la corruzione, come ci raccontano le cronache quotidiane, attraverso le tante indagini e operazioni messe a segno con tenacia dal procuratore Nicola Gratteri insieme agli altri magistrati e alle forze dell’ordine impegnati in quest’opera di “bonifica” e di “purgazione” delle istituzioni e della società. L’obiettivo dichiarato è quello di recidere l’intreccio diabolico tra uomini della Stato, clan di varia estrazione e natura, e ‘ndrine che hanno infestato – e tuttora infestano – il territorio calabrese, generando il degrado umano, sociale, culturale, politico e antropologico di questa terra. Questo stato di cose è il risultato non certo del fato, ma dall’indifferenza complice di gran parte della classe politica, della classe dirigente e pseudo-intellettuale, sia nazionale che regionale, e dei cosiddetti professionisti che si mettono al servizio dei poteri criminali, provocando rassegnazione, frustrazione, sfiducia e impotenza nella popolazione laboriosa e onesta, e costringendo molti giovani ma anche aduli, all’esilio, all’emigrazione e alla emarginazione.  

    

– Ihhhhh… e che so quelle?

– Quelle, quelle sono le nuvole!

– E che so ste nuvole? Quanto so belle! quanto so belle! quanto so belle!

– Ah… straziante meravigliosa bellezza del creato!

(Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole, cortometraggio, scena finale con Totò e Ninetto Davoli, 1968)

La prima vera poesia

21 – 25 marzo. Il nostro “cammin” nel poema sacro inizia il giorno che celebra la Poesia, l’equinozio di primavera. Con la rivoluzione terrestre che pone allo zenit dell’equatore il sole, si può dedurre che la prima vera poesia è il momento in cui l’ispirazione si pone allo zenit del cosmo, o della creazione, e ci eleva anima e corpo, come l’ascesi dall’Inferno al Paradiso. Ma è indispensabile percorrere i tre regni nella nostra storia attraverso le esperienze che la vita ci riserva, come l’umanità sta sperimentando, in un tempo in cui la paura, l’incertezza, lo smarrimento per l’emergenza sanitaria e umanitaria ancora attanagliano le esistenze: un itinerario di perdizione, di espiazione. In questo senso Dante abita le nostre inquiete esistenze quantiche post-moderne e digitali, non più analogiche e interroga le coscienze erranti dei viandanti, attraverso la sua visione. Ma sono tante le risposte che non possono essere traslate dalle parole. Quante immagini e sentimenti che l’intera umanità ha vissuto, sentito, intuito, poi svanite! Impronte effimere tra i granelli della clessidra di un tempo peregrino continuamente capovolto, o dissolte nel flusso e riflusso delle onde del mare. Anche l’acqua si carica di tutte queste memorie inconsce e le scioglie tra la sabbia bagnando i nudi piedi che la attraversano. e “per correr migliori acque” è necessario alzare “le vele dell’ingegno” per lasciarsi “dietro a sé mar sì crudele”. (Purgatorio, canto I).  

È possibile pensare che la Poesia più intensa e densa di significati mai concepita, non abbia una corrispondenza nelle parole o nelle altre forme espressive, e sia rimasta muta o incompiuta, impressa sulla pietra del silenzio, tacita negli occhi e nell’anima degli ignari poeti. Entriamo forse nel mondo dell’ineffabile, la parola che cerca di esprimere l’inesprimibile e dell’insufficienza della ragione umana a comprendere i grandi misteri, di cui Virgilio ne è il simbolo: Trasumanar significar per verba | non si poria; però l’essemplo basti | a cui esperïenza grazia serba.“ (Paradiso, I canto). E allora osiamo immaginare che la poesia più alta sia nel “visibile parlare” che Dante è costretto ad osservare nei bassorilievi descritti del X canto del Purgatorio:

“Colui che mai non vide cosa nova,/produsse esto visibile parlare,/ novello a noi, perché qui non si trova/. Mentr’io mi dilettava di guardare/ le imagini di tante umilitadi…” (Purgatorio, Canto X)

L’umiltà: la virtù profetica di Dante

Nella prima cornice del Purgatorio Dante incontra la schiera dei superbi i cui corpi sono curvati a terra, piegati in due sotto i grevi macigni della presunzione. A loro dedica il X, l’XI e il XII canto. La superbia, l’orgoglio, la vanagloria, sono i peccati più gravi di cui si è macchiato sia Lucifero che i mitici progenitori, Adamo ed Eva. Ed è la prima colpa dal quale le anime espianti si devono purificare, attraverso l’umiltà che rappresenta il contrappasso. Dante raffigura i superbi infermi della mente poiché non si accorgono di una verità elementare: che l’uomo, per sua natura terrena, è un bruco in cui si matura la farfalla “angelica”, l’anima destinata al volo verso Dio. Alla faticosa salita di Dante e Virgilio protesi nella fenditura della roccia, “pietra fessa”,  corrisponde l’apparizione informe dei superbi curvi sotto i loro macigni. Anche Dante, prima di giungere alla cornice, china la fronte e va curvo sotto il peso di quello che confesserà essere il maggior peccato, vale a dire la superbia. E prima ancora di incontrare i penitenti, è solo a contemplare gli esempi di umiltà. Solo con la propria coscienza, con il proprio peccato, dirà poi che è a quella zona del Purgatorio che sarà destinato dopo la morte fisica. La contemplazione fa parte della penitenza, della visione di quell’amore teso verso il bene che ristora i suoi lenti e grevi passi, come è descritto simbolicamente nel primo canto del Purgatorio (dominato dalla natura trasfigurata nell’idillica immagine del cielo e del mare illuminati dalla nuova luce), quando viene cinto con l’umile pianta, il giunco, da Virgilio, dopo averlo asperso con la rugiada per purificarlo dalle impurità che l’Inferno gli aveva ancora lasciato sul volto:

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque

subitamente là onde l’avelse…  

Senza l’humus dell’umiltà non può o potrà vivere l’esperienza della crescita nel vero amore e l’esistenza non potrà esperimentare il miracolo della rinascita, la metamorfosi del bruco in farfalla, la conoscenza di se stessi, coscienza dei propri limiti e riconoscenza del mistero che impregna la vita. Ed è quello che accade nella fioritura della natura, nella linfa che diventa corolla, petalo, nettare, effluvio. In un fiore quanti, ma quanti poemi si trasfondono! Eppure – queste le contraddizioni del nostro abitare il mondo con superbia, presunzione e vanagloria  – non ci soffermiamo a contemplare quella meraviglia che porta dentro l’incommensurabilità della Creazione e delle Creature. Ce lo rivela Buddha:

“Amici” incominciò il Buddha, “questo fiore è una meravigliosa realtà. Tenendolo qui davanti a voi, tutti potete sperimentarla. Entrare in contatto con un fiore è entrare in contatto con una realtà meravigliosa, entrare in contatto con la vita stessa. “Mahakassapa ha sorriso per primo, perché è entrato immediatamente in contatto con il fiore. Sin tanto che gli ostacoli ostruiscono la vostra mente, non potete entrare in contatto con un fiore. Molti di voi si sono chiesti: ‘Perché mai Gautama tiene alto quel fiore? Che senso avrà il suo gesto?’ Ma, se la vostra mente è intasata da tali pensieri, non potete sperimentare realmente il fiore.

“Amici, perdervi nei pensieri vi impedisce di entrare in contatto con la vita. Se vi lasciate dominare dalla preoccupazione, la frustrazione, l’ansia, l’ira o l’invidia, perdete la possibilità di entrare in contatto con le meraviglie della vita. “Amici, il loto nella mia mano è reale solo per quelli di voi che dimorano in consapevolezza nel momento presente. Finché non sarete ritornati al momento presente, il fiore non esisterà davvero. Vi sono persone che attraversano una foresta di alberi di sandalo senza vederne neppure uno. La vita è colma di sofferenza, ma racchiude anche molte meraviglie. Siate consapevoli, e vedrete sia la sua sofferenza sia la sua meraviglia.

E ancora, come non rievocare la magnificenza del giglio evangelico:

“Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.  

L’inferno e il purgatorio “tra la perduta gente di Calabria”

Questo nostro “cammin” verso Dante inizia in una giornata di primavera carica di pioggia, di ombre e di pensieri che grondano il loro anelito di essere illuminati, alla ricerca dell’eden perduto, attraverso i tre regni delle parole, i tre mondi della loro materia ignota , i tre sogni della loro luce che disvela le verità nascoste. Ogni esistenza visibile e invisibile attraversa l’inferno, il purgatorio per accedere al paradiso, come rivela, nel suo folle viaggio, Alda Merini: 

Sono nata il ventuno a primavera.

Ma non sapevo che nascere folle,

aprire le zolle

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe,

sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera.  

Viaggio più “periglioso” immaginato e tradotto in versi come quello dantesco ci è ignoto! Non osiamo immaginare quante altre odissee avrebbero potuto scrivere i tanti esuli come Dante. E possiamo ipotizzare la scomparsa di tanti Poeti, non sappiamo se Sommi –  lungo i viaggi della disperazione senza ritorno nella loro Itaca! Anche la Poesia vive il suo esilio, il suo smarrimento, il suo naufragio, il suo nostòs, il suo ritorno con i suoi diversi versi che conversano con la “straziante meravigliosa bellezza del Creato” (P.P. Pasolini, Che cosa sono le nuvole, 1968).  

Ma qui, “in questa terra, oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli” (Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli), restiamo come sospesi. Vivere in una terra estrema dove Cristo non è mai disceso, come la Calabria, tra la perduta gente, significa sperimentare l’inferno dei viventi, quello delle “Città invisibili” di Italo Calvino come gli tutti gli “invisibili”:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

La Calabria ci espone a questa condizione resa ancora più estrema: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Chi vive in questa terra accetta il rischio, la straziante sfida, consapevolmente o nella sua inconsapevole folle ventura: e significa attraversare il male, e tentare di oltrepassare il limite imposto dalle mitiche Colonne d’Ercole, e approdare nel “secondo regno,/ ove l’umano spirito si purga/ e di salire al ciel diventa degno” (Purgatorio, I canto). Come penitenti restiamo curvi a guidare l’aratro che apre le zolle della nostra coscienza, e ogni tanto contempliamo il cielo osservando il lontano orizzonte, disseminando nell’ignoto “il mal seme di Adamo”, per non perdere il “ben dell’intelletto”. Ed è questa l’ostinata sfida del novello Sisifo, a cui ci ha costretti Albert Camus, ”che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte.” (A. Camus, Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo, 1942). Una titanica lotta che anche Leopardi, nel suo ultimo tentativo di esistere e di resistere, ispirato dalla tenacia della “Ginestra”, espia, nell’estremo tentativo di annunciare l’utopica “social catena”, la rete di solidarietà, sollevando il suo macigno sulle pendici dello “sterminator Vesevo”: … e quell’error che primo/ contra l’empia natura/ strinse i mortali in social catena..” (G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, 1836)

Ma non si possono riattraversare i versi della Comedìa se non si entra dentro il regno della mirabile visione dopo il suo smarrimento e il pentimento grazie all’intervento provvidenziale e divino della sua amata Beatrice. E’ stato l’Amor che move il sole e l’altre stelle che lo ha ispirato: “Io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattar di lei (…) Io spero di dicer di lei quello che mai non fu detto da alcuna (Vita nuova). 

Per la sua alta e ardua missione di collettiva rigenerazione umana e morale, immaginiamo il pellegrino Dante peregrinare in questo “secol superbo e sciocco” (Leopardi, La ginestra) dopo sei secoli e 7 anni,  “tra la perduta gente” di Africo, nella punta estrema dell’estrema Calabria, accompagnato da Umberto Zanotti Bianco, in quel lontano-vicino 1928, a distanza di 20 anni dal disastroso maremoto tra Scilla e Cariddi. Quanti terremoti hanno martirizzato questa terra che alle scosse telluriche patisce catastrofi e disastri provocati dall’inferno che si porta dentro il ventre: oscurità, oscenità, malvagità e stupidità, disseminate ovunque. Quante invettive e apostrofi l’autore de la Comedìa avrebbe rivolto agli ignobili rappresentanti istituzionali, ai pupi e pupazzetti di ogni risma al servizio del male e della criminalità, sopraffatti dall’incontinenza, dalla corruzione, dalla complicità e dalla brama di potere e di danaro. La schiera è carca; in particolare ruffiani, simoniaci, barattieri, ladri, consiglieri di frodi, traditori, per non parlare dei vili. Non una sola, ma tante voragini sono state scavate dalla moltitudine di luciferi, che si aggirano con le sembianze di orrendi topi e mostruose talpe che si nutrono di spazzatura e di ogni sorta di sterco che hanno proliferato dai loro putrefatti ed empi ventri, macerati nell’acido corrosivo della corruzione. Altro che Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca, con cui Dante immagina le quattro zone del Cocito, dove sono puniti i traditori. Immaginiamo un impasto come un magma incandescente che risucchia e fonde i loro orrendi corpi da cui eruttano fetidi escrementi che si solidificano non appena eruttati, e sulle cui rocce si scolpiscono le immagini del dolore e delle inaudite sofferenze inferte ai tanti innocenti. Queste bolge sono popolate da mostruosi volti che mentre sputano, dalla loro fetida bocca nerissima pece bollente, vengono inghiottiti nel proprio vomito.   

Dopo aver attraversato i cerchi, le bolge e le malebolge de la perduta gente di Calabria, al loco ov’i’ t’ ho detto/ che tu vedrai le genti dolorose/ c’ hanno perduto il ben de l’intelletto, vediamo Dante salire verso l’Aspro Monte del Purgatorio. Ma a questo punto “convien saltar lo sacrato poema, / come chi trova suo cammin reciso. (XXIII Canto del Paradiso). E man mano che ascende, la sua voce incrocia quella di Umberto Zanotti Bianco. In lontananza si ode l’eco degli idiomi forgiati dalle onde egee del greco mar che le sacre muse hanno ispirato:

“Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno/ toglieva gli animai che sono in terra/ da le fatiche loro; e io sol uno/ m’apparecchiava a sostener la guerra/ si del cammino e si de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra./ O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;/ o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate.” (Inferno, Canto II).

“Le luci si spengono sui monti e le prime stelle tremano nel cielo assieme al trillo lontano dei grilli. Per vederli ho lasciato aperta la portiera della tenda. La fiamma della candela che ne illumina le pareti, aumenta il senso di pace e di poesia di questa vita solitaria che però così vicina al cuore delle cose”

Stanotte ha soffiato a lungo il vento, tenendomi in uno stato di romantico dormiveglia. Vento possente, ma muto, senza voce, come se sospingesse innanzi i vasti silenzi rubati all’altopiano deserto, che m’invitava, scuotendo la tenda, verso alte vie ignote….

Di tratto in tratto conduceva a me il fumido odore di carbonare lontane, il lezzo delle povere case del villaggio, e poi, come un tesoro sperduto, il profumo0 ancor tepido di qualche ciuffo di antennaria dormente sotto le stelle. Oh! Che stelle! Due volte ho sollevato la portiera per contemplarle, così vivide, così pure: due volte ho dovuto abbassarla perché riempendosi di tumulto, la tenda si gonfiava fremendo come una vela sul mare. Ma alla prima alba, nel riaprirla , un astro sì luminoso e pur sì dolce palpitava sui monti bui, che non ho saputo resistere al richiamo e, gettandomi una coperta sulle spalle, sono uscito sul prato pallido sentendo la parola dell’Apocalisse: “E gli darò la stella mattutina”. In basso sulla strada, il rumore secco di alcuni colpi di tosse d’una capra. Un vecchio che la segue mi guarda trasognato:

– a st’ura vi levastuvu, vossia? – Il vento mi ha svegliato. – Scuntati li peccati nostri, figgi!… Ma ch’avimu a fari? Abitazioni da offrirvi nun di tenimu… vidistine u paisi nostru…. È ‘na cosa chi schifa manc’a guardarla. Ah! Pensati figghiu…  pensati per nuautri… stamu nt asti campagni comi tante crapi spasulati (capre sperdute) senza campaneddu…

La capra che s’è arrampicata sulla sponda della strada, s’affaccia tra i fichi d’India e fissa immobile, interrogativa con le sue iridi gialle il bagno di gomma appeso ad un ramo si dondola al vento: poi alza la sua barbetta e emette un tremulo lamento. 

– Dove andate adesso? – A fari nu pocu di legniceddu ‘ntu boscu.

Badate di non farvi prendere con la capra nelle zone vincolate se no vi multano.

  • Eh! Signurinu meu… chillu chi vonnu, fannu… contra Sua Maestà chi si havi a mettiri?

Continuo a guardare l’astro lontano. – Come la chiamate quella stella?

Il vecchio si volta, soffrega con il dorso della mano la sua barba incolta, poi puntando il braccio teso verso l’orizzonte sentenzia:

  • Chista è Venera. Co’è bella! Eh, figghiu… per sti cosi beddi nui curi no nd’avimu!

Io ritornai dalla santissima onda

 rifatto sì come piante novelle

 rinnovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire alle stelle.  (Purgatorio, Canto XXXIII) 

Stasera brume tristi gravano su tutte le cime e gli altopiani: ed una angoscia di esilio dal mondo, dalla vita, penetra lenta, dissolvente nelle mie vene. Con la posta di ieri una lettera di cari amici inglesi mi invitava a Vienna a sentire alcuni concerti mozartiani. Ho risposto senza esitazione, senza rammarico, che non potevo, ma penso cosa sarebbe la mia esistenza, imprigionata in questa sterile landa, senza speranza di vedere mai altra terra, altra espressione di umanità, oltre quella grigia cortina che sembrava volermi precludere perfino la visione del cielo. E non è questo il destino spietato di quei condannati che sento tornare, senza canti, nei sordidi abituri visitati in questi giorni? Li seguo con il pensiero in quelle viuzze viscide di putridume in cui affondano i loro piedi sempre nudi “se no la vita nostra se la mangerebbero le pietre” in quei tuguri cadenti, quasi mai illuminati, se non d’inverno con un tizzone di pino, che spande attorno, col fumo, un poco di caldo e di chiarore… 

Ah! L’indefinibile sgomento di queste notti che da secoli trascorro ignare su tutto ciò che qui piange , senza recar mai, la speranza di un’alba migliore! Come non sentire liberatrice la morte, il cui pensiero in questo momento è dolce a me che sono solo spettatore di tanta miseria?

“Per corre miglior acqua alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro a sé mar sì crudele; /e canterò di quel secundo regno,/ ove l’umano sprito si purga/ e di salire al ciel diventa degno.”

Dolce color d’oriental zeffiro , / che s’accoglieva nel sereno aspetto/ dell’aere puro infino al primo giro,/ agli occhi miei ricominciò diletto,/ tosto ch’io uscì fuor dell’aura morta, / che m’avea contristati gli occhi e il petto./ lo bel pianeta, che ad amar conforta,/ faceva tutto rider l’oriente,/ velando i pesci che eran in sua scorta./ Io mi volsi a man destra, e puosi mente/ all’altro polo, e vidi quattro stelle/ non viste mai fuor ch’alla prima gente” (Purgatorio, I canto)

In cielo si potrà dormire, si potrà riposare a lungo? – chiedeva la vecchia morente nell’Asilo notturno (dramma di Massimo Gorki); quale altro desiderio, quale altra visione può raddolcire la stanchezza, lo sfinimento di queste creature?

Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e intenerisce il core,/Lo dì c’han detto a’ dolci amici addio; / e che lo novo peregrin d’amore/ punge, se ode squilla di lontano,/ che paia il giorno pianger che si more; / quand’io cominciai a render vano/ l’udire, e a mirare una dell’alme/ surta, che l’ascoltar chiedea con mano. (Purgatorio, Canto VIII).

Cerco invano di addormentarmi per non morire di malinconia: cerco invano un perché a tanto penare, una giustificazione, uno scopo, a tanta assenza di bene: cerco invano di esaltarmi sognandola freschezza mattutina del mondo avvenire, pensando alla potenza dell’amore che saprà un giorno raggiungere anche questo angolo obliato della terra: ma le esalazioni di questa miserabile vita malata e dolorante mi uccidono il sonno.

Sedetti di nuovo accanto al tavolo a leggere : roses that blush unseen… Dio mio! Chiusi il libro e m’immersi in quell’altra poesia, forse più ricca, più varia, più profonda che offrono le umili, le misere cose, che incontriamo ogni ora sul nostro cammino, ma che trascuriamo come inutile polvere. E reclinata la testa sulle braccia mi posi ad ascoltare, sulla mia stanchezza, scivolare silenzioso il tempo.

“Colui che mai non vide cosa nova,

produsse esto visibile parlare,

 novello a noi, perché qui non si trova.

Mentr’io mi dilettava di guardare

 le imagini di tante umilitadi…” (Purgatorio, Canto X)

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
(Purgatorio, Canto XI)

(Le citazioni di Umberto Zanotti Bianco sono tratta dal libro, Tra la perduta gente, 2006, Rubbettino editore)