“Darei l’intera Montedison per una lucciola”. La profezia di Pasolini

Sono passati 45 anni dal 1 febbraio del 1975, quando sulle pagine del Corriere della Sera appariva “L’articolo delle lucciole” scritto da Pier Paolo Pasolini. Un testamento profetico e poetico, una denuncia dell’inquinamento dell’ambiente ma anche delle coscienze, svelando come gli italiani siano diventati “un popolo degenerato, ridicolo” e corrotto. Quella spietata analisi ci restituisce lo specchio deforme dei nostri tempi con le comparse delle “maschere funebri” e delle “teste di legno” andate in scena in Calabria nelle recenti elezioni regionali.

Era nel mondo un figlio e un giorno andò in Calabria era estate, ed erano vuote le casupole, nuove, a pandizucchero, da fiabe di fate color delle feci. Vuote…

… Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane. Subito i Calabresi diranno, come malandrini a malandrini : “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio !” Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita…

(Pier Paolo Pasolini, Profezia, 1964)

“Il popolo gode nell’affidare il potere al turpe” – tradere turpi fasces populus / gaudet, (Seneca, Fedra)

“Il fascismo si cura leggendo, il razzismo si cura viaggiando.” (Miguel de Unamuno).

“E voi imparate che occorre vedere e non guardare, in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro, una volta, stava per governare il mondo! I popoli lo spensero. Ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo”. (Bertolt Brecht)

“Quando il mondo classico sarà esaurito, quando non ci saranno più le lucciole, le api, le farfalle, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita”. (Pier Paolo Pasolini, “La rabbia”, 1963).

Primo febbraio, ore 9.30. Il sole splende sulle colline vestite di ulivi secolari. Emanano verbi di luce, di spiritualità, di sapienza e di pace. Kronos accoglie nella sua ordinata dimora Aion e il tempo cronologico si raccoglie nel tempo del ritorno. Ma sulle colline che declinano e inclinano, si coglie un tempo immemorabile. Qui, in Calabria, in questo punto della terra e della storia, dove la natura ha plasmato una geografia fisica e antropica segnata da profonde ferite, ancora il paesaggio è impregnato di essenze metafisiche scaturite da templi vegetali che raccontano una esperienza segreta, millenaria. Si chiamano ulivi e il loro testamento rivela il Mito, il dono di Atena, il Crisma, il Messia. Si scopre, in questa terra travagliata da tradimenti, inganni e oscuri presagi, che il linguaggio della natura si traduce ancora con l’alfabeto del Cielo, e ogni presenza può essere il segno di un disegno che trascende lo sguardo e trasfigura l’esistenza. In questo giorno il tempo si riflette e diventa esso stesso riflessione nello specchio deforme della storia. Era il primo febbraio del 1975. Sulle pagine del Corriere della Sera appariva la sparizione delle lucciole dal titolo “Il vuoto del potere in Italia” (passato alla storia come “L’articolo delle lucciole” nella versione della prima edizione del 1975 de “Gli scritti corsari”). Non possiamo immaginare dove si trovasse fisicamente, né sapere quando Pier Paolo Pasolini abbia concepito quelle memorabili parole e in quale località fosse. Non sappiamo quale paesaggio fisico e antropico si mostrasse di fronte al suo sguardo. Ma immaginiamo che la sua mente fosse catturata dalla visione immaginifica delle lucciole. Sono passati 45 anni. Riattraversiamo quelle parole, quelle memorie del sottosuolo affiorate nelle brume invernali di questi primi vagiti di febbraio, per rintracciare le loro impronte, la loro eredità umana, culturale, antropologica, politica e storica. Con questa tensione intellettuale vi rileggiamo la potenza profetica e poetica. E ci sorprende ogni volta che ne scorriamo la sintassi espressiva, emotiva, ecologica, esistenziale. Ogni presente è tale se “pre-sente”, se scava in profondità, se interroga la superficie per coglierne la verità che si nasconde (come ci rivela l’etimo greco aletheia) e che svela la destinazione. Lo sguardo contempla, abbraccia e intuisce attraverso i segni fisici, da cui scaturiscono quelli metafisici. Nella scomparsa delle lucciole Pasolini riavvolge il filo intricato della storia repubblicana di questo Paese. Nel suo tessuto antropologico ha intravisto una trama che solo i suoi occhi potevano scrutare, mentre nell’ordito era ordito il genocidio culturale, la mutazione antropologica, l’omologazione, l’inquinamento dell’ambiente: e si preannunciava il testamento di questo nostro presente nel cui ventre si concepiscono le magnifiche sorti della nemesis. Il punto di partenza sono le parole del poeta e intellettuale Franco Fortini sulla natura del fascismo e dei fascismi in Italia, come si siano tramutati e perpetuati con il regime democristiano, anzi come il fascismo abbia mutato sembianze – e si mostra ancora oggi – con l’inquietante banalità del male. Lo stile è corrosivo, demistificante, radicale, rabbioso, eretico, dettato da una forte tensione etica, umana e politica. Questo lo snodo temporale: Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più… Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”. Pasolini distingue tre fasi: prima, durante e dopo della scomparsa delle lucciole. L’analisi si concentra su quello che è accaduto subito dopo la scomparsa. I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'”arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste. In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Una nuova epoca della storia umana, un éskhatos, un ultimo destino del genere umano, che apre ad una nuova visione della fine dei tempi. Entra in scena l’ideologia dei consumi, la televisione, una feroce e vorace industrializzazione, che cambiano in modo repentino il volto delle comunità e delle città: i comportamenti, i desideri, i pensieri, il rapporto con il passato. La nuova società volta le spalle alla sua eredità storica – la civiltà contadina – ne cancella le impronte, i segni che ne identificavano la sua eredità e si attua il genocidio culturale, la mutazione antropologica. Un vero e proprio shock. Le sue parole sono taglienti, spietate, veementi, ma cariche di passione, di disperato amore, di accorata denuncia. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. In questa terra estrema dell’antica Italia, la Calabria, la dissociazone della cosceinza, è emersa in tutta la sua oscura verità alle recenti elezioni regionali, il cui responso – i segni non casuali che mostra la storia, il 27 gennaio, giorno dedicato alla rievocazione dell’orrore nazifascista – ci rivela la perdita di ogni memoria, come se le parole di Primo Levi espresse nella poesia “Se questo è un uomo”, siano scomparse insieme alle lucciole, mentre  sono riapparse le “maschere funebri”. Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. Queste immagini sembrano descrivere l’apparizione in Calabria dei vecchi e nuovi potenti democristiani in una versione aggiornata digital social terza Repubblica, in cui va in onda la macabra replica della seconda, con tanto sfoggio di caricature e decrepiti simulacri. L’affresco antropologico di Pasolini è una perfetta radiografia di questi nostri tempi e mostra le croniche malattie che affliggono le articolazioni del corpo scheletrico-elettorale calabrese. Non solo l’ostentata parte, in uno stile ormai degenere della commedia all’italiana o della più vetusta  commedia dell’arte, dove svetta la maschera dello pseudo-vetero Lenone. Ma la scena oscena del sindaco di Soriano Vincenzo Bartone che si prostra a baciare la mano taumaturgica di un vecchio fabbro claudicante che ancora crede di forgiare nella fucina dell’Etna Pandora e il suo vaso, è smisuratamente eloquente. E’ sembrata la rappresentazione dissacrante della discesa agli inferi in cui anche gli sguardi luciferini dei Malebranche dell’Inferno dantesco (custodi della V bolgia, deputati a controllare che i dannati dell’ottavo cerchio, i fraudolenti, i barattieri, non escano dalla pece bollente) sarebbero rimasti folgorati nel vedere l’esilarante film. A sfilare le sfavillanti maschere funebri, i “flatus vocis”, il mucchio di ossa e di cenere, i cadaveri viventi dei tanti calabresi che sorridevano felici alle loro esequie. Ci soccorre l’umoristico “Fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, che si consola portando i fiori sulla sua tomba. Con i suoi nervosi tratti e ritratti, Pasolini ci illumina su quello che accade sotto in nostri sguardi esterrefatti, intrisi di stupore e ubriacati di stupidità, perché giammai si sarebbe mai potuto assistere alla totale perdita di qualsiasi senso del ridicolo. Chi avrebbe potuto divinare un atto di sottomissione di un uomo delle istituzioni che riproduce il rito del baciamano dei picciotti al proprio boss? Anche ad Afragola si è assistito alla stessa oscena scena. L’omaggio  si è compiuto verso l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, alla distanza esatta di un anno, 21 gennaio 2019. Ma il  baciamano del sindaco di Soriano è pregno di tutta la terribile tradizione meridionale di prostrazione ai potenti e che simboleggia la consegna della Calabria nelle mani dei capiclan, con il clamoroso tradimento della Costituzione. Lo spettacolo demenziale si svela in questi nostri tempi ispirati dalla imbecillità e su inverosimili palcoscenici con altri inquietanti spettri che errano in cerca di vanagloria. E parafrasando “…era impossibile che i calabresi reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni … un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo”. In sintesi, per Pasolini non si trattava tanto di sostituire “le teste di legno” che avevano portato “l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico”, ma di credere che le lucciole potessero ispirare ancora la sua disperata fede: “Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”. 2 febbraio, ore 10.50. Il sole non splende, il paesaggio è immerso nella bruma e gli ulivi meditano. Oggi si festeggia la Candelora. La festa della Presentazione al tempio di Gesù. In questa celebrazione si benedicono le candele, simbolo di Cristo, luce che illumina le genti. In questo giorno di domenica, Kronos apre il suo tempio a Kairos, il tempo opportuno. L’auspicio è che l’epifania delle lucciole possa illuminare le genti di Calabria, perché ancora i figli di Pitagora, di Zaleuco, di Cassiodoro, di Gioacchino da Fiore, di Telesio e di Tommaso Campanella, vagano attratti dai buchi neri e dai bucanieri, dopo essersi lasciati indurre in tentazione dagli incantatori di serpenti: “Dove sei”. Rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”. Fabula docet: Qui habet aures audiendi, audiat: Chi ha orecchie per intendere, intenda, perché “il popolo gode nell’affidare il potere al turpe” (tradere turpi fasces populus / gaudet).  

L’intelligenza non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da uno dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – alzare la mia sola puerile voce – non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce gli altri, nella più strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce. (Pier Paolo Pasolini, Gli Italiani)