Il testamento profetico di Pasolini: le lucciole salveranno il Sud!

Dai Cenacoli di Monterosso Calabro un viaggio interrogativo ed escatologico che approda nella meraviglia e nella bellezza delle “lamparidi”, punti esclamativi tra le colline e le vie che costeggiano il lago dell’Angitola  

Vola, o lucciola, sopra i fossi tremanti

di canti insonni sulla polvere dei borghi!

Poi nuda si stende la luna sui campi stupiti

ed echeggiando sugli intonachi e sul fogliame

la sua musica candida assorda l’aria di luce.

Tu, Italia, troppo inquieta o tranquilla?,

non senti dormendo l’usignolo della pazzia…

(Pier Paolo Pasolini, L’Italia, capitolo IV, 1949)

  Si salverà il Sud? Nel suggestivo borgo di Monterosso, sulle colline che sormontano il lago dell’Angitola, con il mare che fa sentire la sua presenza a pochi chilometri e i rilievi delle Serre non lontani, l’interrogativo escatologico, con una connotazione epica, ha catturato l’attenzione di tanti cittadini e ha avuto tante risposte esclamative. Ad ascoltare gli ospiti invitati ai Cenacoli Monterossini sono accorsi in molti nel Piccolo teatro. Sullo sfondo di uno scenario conteso tra “apocalittici e integrati” (secondo la nota definizione di Umberto Eco negli anni Sessanta),  con il nuovo mondo “digital e social”, si è stagliato l’enigma amletico che interroga il Sud e i Sud radicati nella nostra coscienza, con l’inquietante dilemma se “essere o non essere”, e se “la riflessine ci rende tutti codardi, e così la tinta naturale della risolutezza è resa malsana dal pallido raggio del pensiero…”(Shakespeare, Amleto). Il raggio del pensiero potrà risplendere se lo sguardo intesse la propria visione con il filo di amore di Arianna, altrimenti resterà recluso nella rete del dedalo labirintico ad ordire con il minotauro, come sta accadendo, perché “il sonno della ragione genera mostri” (Francisco Goya). Dimentichiamo spesso che siamo figli della “Città del sole” di Tommaso Campanella, anche se nelle “Città invisibili” (1972) di Italo Calvino, Marco Polo, ci riporta nell’oscurità del mondo attuale: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Monterosso “Attenzione e apprendimento continui”, o per re-citare Socrate, “il più grande dei beni, è vivere ragionando ogni giorno sulla virtù e sugli argomenti di cui mi sentite discutere, esaminando me stesso e gli altri” (Apologia di Socrate), non solo per conoscere ma per riconoscere “ciò che non è inferno e dargli spazio”. Ma nello sguardo di Monterosso Calabro neanche la parvenza di un ombra della “perduta gente”: forse l’attesa di un’ascesa verso l’alto per poter contemplare i paesaggi e i linguaggi che sono custoditi nella sacra dimora dell’anima. E in quello spazio-tempo ne è nato un confronto tra visioni opposte: da una parte gli ottimisti, in primis Pino Aprile , Pippo Calllipo (imprenditore) e Pino Cinquegrana (docente); dall’altra i pessimisti, come Gilberto Floriani (direttore Sistema bibliotecario Vibonese) e Cristina Iannuzzi (giornalista), che hanno ricordato i primati negativi della provincia di Vibo. Tra questi due sguardi, la posizione “meridiana” di Giacinto Namia (classicista), che ha avanzato una riserva e una attenta riflessione . L’incontro, caratterizzato anche dagli interventi del sindaco del Comune di Monterosso Antonio Lampasi, del presidente provinciale Unpli Giuseppe Maiuli e dai diversi contributi da parte del pubblico,  si è svolto sabato 15, organizzato dalla Pro Loco, grazie all’impegno del suo presidente Domenico Capomolla (in collaborazione con l’Unpli regionale e l’Amministrazione comunale). Il dibattito ha coinvolto anche un altro ospite illustre non atteso, lo scrittore Mimmo Gangemi, venuto a Monterosso per incontrare Pino Aprile con il quale hanno scritto nel 2017 “Attenti al Sud” (insieme a Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro). Anche Gangemi ha espresso le sue perplessità sul futuro riscatto della Calabria raccontando il destino dei paesi sempre di più lasciati a se stessi e svuotati di memoria. E sull’adagio popolare rievocato da Callipo, “Tonno di Pizzo e olio di Santa Cristina”, lo scrittore ha osservato l’abbandono degli uliveti che vestono le suggestive colline del suo paese natale, Santa Cristina d’Aspromonte. Ad introdurre ed animare il “Cenacolo” Soccorso Capomolla, che ha guidato gli interventi su un tema che presuppone, prima di ogni altra cosa – con un gioco retorico – un interrogare l’interrogazione.  A catalizzare la discussione l’ospite d’onore, Pino Aprile, il giornalista e scrittore che con il libro “Terroni”, ha aperto un dibattito a livello nazionale sulla narrazione storica del Sud e della questione meridionale. Il testo, diventato un caso letterario, ha gettato una luce nuova su come la storia è stata raccontata. Aprile ha rimesso in discussione le modalità con cui è stata fatta l’Unità d’Italia e del ruolo del Mezzogiorno, mostrando che dentro scorre un’altra storia. Una traccia che è stata perseguita in altri testi fino all’ultimo lavoro, questa volta non un saggio storico, ma un romanzo, “Il potere dei vinti”, impregnato anche da una visione utopica, perché “solo ai vinti è dato ricominciare”, come recita il sottotitolo. Monterosso Sulla scia di Aprile – ma molto prima di lui questa linea era stata tracciata dallo storico e scrittore Nicola Zitara, ingiustamente dimenticato, come lo scrittore ha riconosciuto nel corso dei suoi interventi – si è aperto un filone per tentare di tessere una contro narrazione. Nonostante Copernico, Einstein, Pirandello, ancora resistono certi retaggi che vengono spacciati come verità assolute, ma senza alcuna assoluzione per i predestinati “sudditi”, che si ritrovano “senza colpa e senza redenzione”, come racconta Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”: “… in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.” Per i contadini lucani Cristo si era fermato a Eboli, ma a Monterosso, nel borgo dove c’è la sede di uno dei più interessanti e importanti musei della civiltà contadina dell’intera regione, con l’arte maieutica di un medico cardiologo, Soccorso Capomolla, le umane corde del messaggio simbolico e spirituale dei Cenacoli Monterossini, hanno risuonato e si sono propagate gli accordi. Quando si scava con le callose mani dei contadini che aprono i solchi per seminare i semi dell’incontro e dell’accoglienza, per nutrire in modo sano e onesto il corpo e lo spirito, attraverso la corrispondenza della terra con il cielo, in un rapporto di reciprocità, le spighe della cultura germinano e maturano. È dall’humus della terra, fecondato e illuminato,  che  scaturisce la vera autentica conoscenza: dalla sua anima è sbocciata la meraviglia e la luce della coscienza. Il compito che ci è stato affidato dai contadini è quello della cura: coltivare la terra con onestà e sacralità, per far scaturire la coscienza etica, estetica e il sentimento ecologico. Il resto non è cultura, è solo spazzatura. Lo aveva compreso e testimoniato Pier Paolo Pasolini, ma anche Giuseppe Berto, dalla sua dimora esistenziale eretta sul tempio di Capo Vaticano che si affaccia nell’incanto del “Mare da dove nascono i miti”. Da quella luminosa visione lo scrittore del “Male oscuro” ha dato alla luce “La ricchezza della povertà”, un articolo profetico pubblicato sul “Resto del Carlino” nel 1972, in cui ci svela dove cercare il prezioso humus che nutre la cultura e la civiltà dei popoli: «La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo”. E se la civiltà contadina “era sì miseria, denutrizione, malattie, analfabetismo, esuberanza sia di nascite che di morti (premature), era anche grandissima onestà e nobiltà dell’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile, in una terra che di materie prime scarseggia. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali». In questo solco profondo anche lo scrittore Alessandro D’Avenia, in L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita (2016), ci ricorda la fonte autentica della cultura: “I latini per “curare” usavano la parola colere, da cui cultum, da cui il termine “cultura” (l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo). La cultura non ha nulla a che fare con il consumare oggetti culturali: ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri, si acquisterà cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché dia frutto e tempo opportuno. Nella cultura ci sono il realismo del passato e del futuro e la lentezza del presente, cosa che il consumo non conosce: esso vuole la rapidità e immediatezza, non contempla la passione e la pazienza.”. Lo vediamo che cosa stia accadendo al creato e all’umanità con la grande menzogna che il Pil rappresenti e misuri la ricchezza di un Paese. Lo possiamo toccare con mano il prodotto interno lordo che si è depositato in grande quantità nella mente demente dei potenti che investono nella distruzione dei beni più preziosi che ci sono, producendo armi e inquinamento materiale, ambientale, politico e spirituale, compiendo immani e atroci crimini contro l’umanità, nell’indifferenza, nel cinismo. La sola crescita a cui aspirano questi cultori e “scienziati” del profitto spietato, disumano, è la narcotizzazione delle coscienze con il potente anestetico che adesso circola con rapidità fulminea nei social. E il popolo del web è felice e si esalta quando si sprigionano le endorfine dell’odio, della disumanità, dell’indifferenza, della xenofobia, dell’aggressività, della violenza, della cecità, condite dall’autocompiacimento. Se viene meno la sensibilità umana; se non si dedica tempo per l’elaborazione di una riflessione critica, a volte sofferta, lavorando con sacrificio e con cura i propri campi incolti; se non si cerca di aprire le dure zolle di una parola o di un pensiero; se non si semina luce, conoscenza e coscienza, per essere humus fertile per l’incontro con l’altro e l’altrove; se non si contempla e non si accoglie l’altrui dono, frutto di esperienza e di testimonianza, è molto difficile che possa attecchire la radice della condivisione, della convivenza civile, della fratellanza, della cultura. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione, di coscienza e devono agire gli uni versi gli altri in spirito di fratellanza, recita il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani Onu. Senza questi fondamentali principi e valori, con tutto quello che ha determinato la cosiddetta “disintermediazione” e il mito dell’agorà digitale, si costruisce semplicemente una inarrestabile e incontrollabile immane bufala. E’ tutto una mascherata, una grottesca e drammatica buffonata! Eppure come ci si compiace – con il fumo tossico dei like – far parte di questa “enorme pupazzata” come aveva profetizzato Pirandello, e prima di lui Shakespeare.  Siamo passati così dall’homo sapiens all’homo deficiens, prefigurato da Socrate, ma con un avvertimento: che l’uomo deve essere consapevole di non sapere, e quindi deve imparare la sacra virtù dell’umiltà. Ciò che fa crescere la consapevolezza, la responsabilità civile, l’intelligenza critica, il confronto, il dialogo, la dialettica, è il saper mediare e fermarsi a meditare, lavorare con lentezza per diventare umile come l’humus. Non bisogna dimenticarlo, la disintermediazione era già praticata dai regimi totalitari, che aveva eliminato ogni forma di mediazione e di rappresentazione intermedia. È stato messo in luce da Stefano Rodotà in uno dei suoi testi del 2014 “Il mondo nella rete” (calabrese di nascita scomparso nel 2017, il 23 giugno, professore emerito di Diritto all’Università “La Sapienza” di Roma, è stato presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali): “Dietro si profila un nuovo potere, quello dell’algoritmo”. L’algoritmo è diventato l’emblema di una società della spersonalizzazione. Scompare la persona trasformata da soggetto in oggetto di poteri incontrollabili. Infatti, spiega sempre Stefano Rodotà  “decisioni importanti, scelte rilevanti per l’economia e per la stessa vita quotidiana, sono sempre più intensamente affidate a procedure automatizzate, a software messi a punto grazie a modelli matematici che, riducendo o eliminando del tutto l’intervento umano, dovrebbero rendere più rapide e affidabili molteplici operazioni e ridurre i loro rischi”; e questo confidare negli algoritmi non conoscere confini: “L’algoritmo disegna le modalità di funzionamento di larghe aree delle nostre organizzazioni sociali, e così redistribuisce poteri”. Tutto questo,  nella vita quotidiana, inietta il germe di nuove discriminazioni e “nasce il cittadino non più libero, ma ‘profilato’ prigioniero di meccanismi che non sa e non può controllare”.  E ancora “alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, è stata attribuita una virtù, quella di rendere la società più trasparente proprio per quanto riguarda la possibilità di controlli diffusi sul potere, su qualsiasi potere”; ma quando l’algoritmo diviene “il fondamento stesso del potere esercitato da un soggetto, come nel caso assai enfatizzato di Google, e tutto ciò che lo riguarda è avvolto dalla massima segretezza, allora siamo davvero di fronte alla nuova versione degli arcani imperii, che non tutelano soltanto l’attività d’impresa, ma si impadroniscono, direttamente o indirettamente, della vita stessa delle persone”. libro Pino Aprile Questa analisi la ritroviamo anche in un libro più recente di Roberto Calasso: “Un giorno, all’alba del mondo digitale, si profilò un termine fascinoso: disintermediazione… Se questa valeva per un viaggio o una prenotazione di albergo, perché non doveva valere anche in politica? È una domanda che ha obnubilato non pochi – e continua a farlo, quanto più la digitalità è pervasiva e la disintermediazione offre a ogni passo una facile ebbrezza. La quale, se osservata da vicino, si rivela fondata sull’odio per la mediazione. Che è fatale per il pensiero. Non c’è bisogno di rifarsi a Hegel per sapere che non solo il pensiero, ma la percezione sussistono grazie alla mediazione. Anche il vagheggiamento della democrazia diretta non discende ormai da una riflessione politica, ma dall’infatuazione informatica, che deprezzando la mediazione, finisce anche per deprezzare l’immediatezza, raggiungibile soltanto dopo aver attraversato il reticolo delle mediazioni”.  (“L’innominabile attuale” 2017). Lo ribadisce ancora Rodotà: “È evidente che sull’orizzonte originario di Internet si staglia nitido, il mito fondativo della democrazia: l’agorà di Atene. Infatti si è pensato che nel villaggio globale, nell’immensa piazza virtuale, sarebbe stato possibile ricostruire le condizioni della democrazia diretta”. La vera democrazia è nell’agorà che si è svolta a Monterosso, nel confronto dialettico, scrutando gli sguardi, sentendo i respiri, gli odori, i profumi, la corrispondenza umana, intellettuale, emotiva, praticando il controcanto del  festina lente, un “affrettarsi con lentezza” tra le pagine dei sentimenti. Dietro un monitor ci si nasconde e ad essere liberata senza misura  è la frustrazione, la barbarie e l’odio. Questo è il risultato più eccelso della disintermediazione: tirare fuori gli umori neri, non l’inchiostro come le seppie, ma i rigurgiti che hanno albergato le zone più oscure, i depositi imputriditi. Questa “materia prima”  così preziosa per i poteri malefici, viene trasformata in petrolio da quelle mani occulte che stanno lucrando con le nefandezze dell’essere umano, con le sue fragilità, con le sue paure, e la immettono nel grande inceneritore dei populismi, che viene alimentato dalla dissennatezza del consenso. Di fronte al potere taumaturgico delle menzogne e delle immondizie, gli utenti social sono felici di consegnare la propria libertà, i propri diritti, la sacralità della vita, ai nuovi predatori e imperatori dei fumi infestanti prodotti dagli invisibili totalitarismi. Lo sottolinea, da un’altra specula, un umanista come Ivano Dionigi: “Come mai nell’era del web planetario e del maximun di mezzi di comunicazione, minima è la comprensione? Evidente il divorzio delle parole  (verba) dalle cose (res): le une e le altre perseguono una sciagurata autonomia. Costruttori di una quotidiana Babele linguistica, nella quale una stessa parola rinvia a significati diversi e parole diverse vengono indirizzate verso un senso unico, viviamo nel bisogno e nell’attesa di una pentecoste laica che ci consente di leggere il mondo e di capirci. A fronte della doxa rumorosa, della chiacchera imperante e di una vera e propria anoressia del pensiero, urge imboccare la strada del rigore, abbassare il volume e dare il nome alle cose: illusi e urticati da troppe risposte e da troppe poche domande, da troppi perché casuali e troppi pochi perché interrogativi. L’ars interrogandi è più rara e più difficile dell’ars rispondendi, ma più risolutiva” (“Il presente non basta, 2016).  Per tali motivi “di fronte a questi scenari il pensiero sembra segnare il passo e soffrire di anoressia: come se stessimo smarrendo alcuni fondamentali. E’ come se all’improvviso scontassimo tutta la complessità e drammaticità della parola latina finis, il vero nome dell’uomo: ‘la fine’ da patire, ‘il fine’ da raggiungere, ‘il confine’ da oltrepassare. Nel contempo avvertiamo l’assenza di un télos, un disegno, che, riattivando la spina della storia, tiri un filo fra passato e futuro, fra memoria e progetto, fra trapassati e nascituri; e avvertiamo, altresì, la mancanza di un dialogo, un’intesa fra i diversi mondi, linguaggi, saperi: un orizzonte e uno sguardo panoramico da affidare a un nuovo umanesimo (…). I tempi spiegano la mutazione in atto: ma chi spiega i tempi?” (Ivano Dionigi, Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio. Seneca e noi, 2018). Le lucciole che salveranno il Sud!  Nel simposio dei Cenacoli che si è svolto nel Piccolo teatro di Monterosso è maturata l’idea che sia necessario avere un battito cardiaco robusto per sopportare il grande sforzo che deve compiere chi decide di restare ad abitare questa terra, per riprendere lo slogan di Callipo, “Io resto in Calabria”, e lanciare il cuore oltre l’ostacolo, lottare con passione e responsabilità, restituire alla propria storia dignità per non lasciarsi travolgere dalla rassegnazione. E in questa diagnosi, in una visione escatologica, Callipo non ha avuto dubbi: l’interrogativo va sostituito con il punto esclamativo: Il Sud si salverà! Dopo oltre tre ore di confronto, animato soprattutto dagli interventi appassionati e accorati di Pino Aprile che ha messo insieme i diversi segni positivi che danno speranza al Sud, nell’inquieto agitarsi di pensieri e sentimenti, lungo la strada che dal borgo conduce al lago dell’Angitola, con i compagni di viaggio, don Peppino Fiorillo e Giacinto Namia, si è rivelata una meravigliosa epifania: dalle dense ombre della sera si sono stagliati tanti punti esclamativi. A scandirli le lucciole! Questi meravigliosi coleotteri hanno trapuntato il nostro tragitto fino allo svincolo autostradale di Pizzo con uno sciame di faville intermittenti. La loro visione ha avuto la potenza di squarciare l’oscurità e di tessere la meraviglia, che Buddha, Aristotele ed Einstein, hanno concepito come il principio della conoscenza che scaturisce dal mistero della creazione. “Quel giorno, il discorso del Buddha fu molto particolare. Attese che i bambini si fossero messi a sedere tranquilli, poi lentamente si alzò, prese un fiore di loto e lo tenne alzato di fronte alla comunità senza dire una parola. Tutti sedevano immobili. A lungo il Buddha tenne in alto il fiore in silenzio. Gli astanti erano perplessi e si chiedevano cosa volesse comunicare. Infine il Buddha abbracciò con lo sguardo l’assemblea, sorrise e disse: “Io ho l’occhio del vero Dharma, il tesoro della visione meravigliosa, e in questo momento l’ho trasmesso a Mahakassapa”. Tutti si voltarono verso il venerabile Kassapa, e lo videro sorridere. I suoi occhi non si erano staccati dal Buddha e dal loto che teneva in mano. Quando gli sguardi ritornarono al Buddha, videro che anche lui guardava il fiore e sorrideva. Svasti, benché perplesso, sapeva che la cosa principale era mantenere la presenza mentale. Ritornò al respiro mentre nel contempo guardava il Buddha. Il bianco fiore di loto era appena dischiuso. Il Buddha lo reggeva con dolcezza e solennità. Teneva il gambo tra il pollice e l’indice, e il fiore ripeteva la forma della sua mano. La mano del Buddha era bella come il fiore, pura e meravigliosa. Allora, improvvisamente, Svasti vide la pura e nobile bellezza del fiore. Non occorreva ricamare pensieri. Spontaneamente, il sorriso gli fiorì sul volto. “Amici” incominciò il Buddha, “questo fiore è una meravigliosa realtà. Tenendolo qui davanti a voi, tutti potete sperimentarla. Entrare in contatto con un fiore è entrare in contatto con una realtà meravigliosa, entrare in contatto con la vita stessa. “Mahakassapa ha sorriso per primo, perché è entrato immediatamente in contatto con il fiore. Sin tanto che gli ostacoli ostruiscono la vostra mente, non potete entrare in contatto con un fiore. Molti di voi si sono chiesti: ‘Perché mai Gautama tiene alto quel fiore? Che senso avrà il suo gesto?’ Ma, se la vostra mente è intasata da tali pensieri, non potete sperimentare realmente il fiore. “Amici, perdervi nei pensieri vi impedisce di entrare in contatto con la vita. Se vi lasciate dominare dalla preoccupazione, la frustrazione, l’ansia, l’ira o l’invidia, perdete la possibilità di entrare in contatto con le meraviglie della vita. “Amici, il loto nella mia mano è reale solo per quelli di voi che dimorano in consapevolezza nel momento presente. Finché non sarete ritornati al momento presente, il fiore non esisterà davvero. Vi sono persone che attraversano una foresta di alberi di sandalo senza vederne neppure uno. La vita è colma di sofferenza, ma racchiude anche molte meraviglie. Siate consapevoli, e vedrete sia la sua sofferenza sia la sua meraviglia. “Essere in contatto con la sofferenza non significa perdersi in essa. Essere in contatto con la meraviglia non significa perdersi in essa. Essere in contatto significa incontrare la vita, vederla in profondità. Incontrandola direttamente, ne comprendiamo la natura interdipendente e impermanente. Grazie a ciò, non ci perdiamo più nel desiderio, nell’ira e nella brama. Dimoriamo invece nella libertà e nella liberazione”. (Vita di Buddha) Dalla contemplazione si staglia la meraviglia, la conoscenza e l’intuizione: “Chi si pone problemi e si meraviglia, ritiene di essere ignorante (perciò l’amante del sapere è anche in qualche modo amante del mito, poiché il mito è composto di cose che destano meraviglia); di conseguenza se gli esseri umani ricercarono il sapere per fuggire l’ignoranza, è chiaro che perseguirono la scienza a causa del sapere e non in vista di qualche utilità” (Aristotele, Metafisica). “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Esso è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare e rimanere rapito in timorosa ammirazione, è come morto: i suoi occhi sono chiusi”. (Albert Einstein, Pensieri) La luce che trasumana dalla luminescenza delle lucciole attraversa il tempo e lo spazio, riesce a penetrare gli enigmi che attanagliano chi vive nei paesi desolati del Sud. Le lucciole riescono a tessere un dialogo con il mistero della natura e farci sentire tesi al riscatto da una visione che non ha orizzonti. Questi affascinanti “lamparidi”, aprono con la loro apparizione, una mappa nuova da percorrere alla ricerca della kalokagathia, della bellezza che deve essere coniugata al bene e al buono. Quei piccoli “lampi” che hanno  intessuta l’oscurità, sono dei segni che portano dentro un disegno e dissipano il dubbio di Corrado Alvaro, espresso nel suo “Ultimo diario”, che “la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. Lo scrittore di San Luca è stato evocato da Pino Aprile, che ha ricordato una citazione tratta dal romanzo “L’uomo è forte”: “Il male sono le cose che si fanno di nascosto”. Queste parole richiamano quanto aveva lasciato scritto nei suoi “Quaderni” una donna che ha tracciato dei segni profondi e luminosi nel suo breve passaggio su questa terra, Simone Weil: “E’ bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”. Il male si nasconde, agisce nell’oscurità; e i social sono i “non luoghi” (Marc Augé) ideali dove potersi occultare. Gli uomini che operano per il bene non hanno alcun bisogno di celarsi, non amano riunirsi in luoghi oscuri come fanno i topi, i corrotti e i criminali, ma operano alla luce del sole incontrando gli occhi delle persone e scrutando in profondità le sorgenti dello Spirito. Solo nei regimi totalitari, il bene è costretto ad operare in segreto, per non lasciarsi risucchiare nell’oscurità del male. Ma la luce si espande sempre, per tutti gli esseri umani: “Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero gli animali e gli uccelli, – la primavera era primavera anche in città. Il sole scaldava, l’erba riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietre e betulle, pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano i nidi e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole. Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini – i grandi, gli adulti – non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all’amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi l’un l’altro.” (Lev Nikolaevic Tolstoj, Resurrezione, incipit del romanzo). Quando si è dominati dall’incertezza, dal dubbio, dallo scoramento, dalla mancanza di entusiasmo, si cede alla rassegnazione e poi all’indifferenza. Quando invece si ha la forza di testimoniare, di credere e portare avanti con passione i principi, ma anche i sogni, ecco che l’apparizione delle lucciole ha una corrispondenza simbolica e spirituale e assume un potere escatologico. Le lucciole sono i punti esclamativi di tanti interrogativi, i segni luminosi che squarciano le tenebre, perché il male impera quando il bene è assente, e l’oscurità domina quando non vi è traccia di luce.  Quella scia di piccole stelle, quel tessuto di luci scintillanti , hanno rivelato che il Sud potrà salvarsi, finché ci sarà qualcuno che prova meraviglia contemplando la loro magica apparizione, e con il Sud si potrà salvare anche chi non si estasierà della loro sacra bellezza. L’epifania delle lucciole ci riporta al primo febbraio del 1975, quando Pier Paolo Pasolini ha identificato la “mutazione antropologica” della società italiana di allora con la loro scomparsa. Un denuncia radicale, contro l’omologazione e la manipolazione operata dal potere dei consumi, che si sostituiva al potere politico. Quello che stava accadendo lo ha annunciato come “genocidio culturale”, perché penetrava le coscienze e le inquinava, le anestetizzava, le manipolava in profondità. Per Pasolini l’inquinamento dell’ambiente e la scomparsa delle lucciole significavano la perdita e la fine di un mondo poetico, aurorale, mitico, capace di ispirare la meraviglia e la bellezza, di creare una corrispondenza armoniosa con la luce del mondo classico greco. In quella sua disperata denuncia, c’era la consapevolezza che si stava distruggendo repentinamente la millenaria civiltà contadina: “Quando il mondo classico sarà esaurito, quando non ci saranno più le lucciole, le api, le farfalle, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita”.  (Queste parole sono pronunciate nel film-documentario “La rabbia” girato nel 1963 e diretto da Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi).  Quella di Pasolini era una titanica lotta contro i mulini a vento, perché la tempesta dell’ideologia imperante stava sradicando ogni resistenza attraverso il nuovo canto seduttivo delle sirene: la persuasione occulta e il linguaggio subliminale della televisione che inneggiava al prodotto da consumare, alla mercificazione dell’essere umano. Lo scrittore e regista aveva scattato di fatto dei negativi sulla società attuale, ammaliata e narcotizzata dai social. Se prima il potere usava la violenza e imprigionava fisicamente chi si ribellava, ora ha trovato uno straordinario strumento per addomesticare e ipnotizzare il corpo e la mente, senza alcuna violenza visibile, iniettando un veleno micidiale che è una potente droga nelle vene e nel cervello globale e locale, portando i “navigatori” social a scegliere liberamente di essere chiusi nelle patrie galere della rete, perché il grande narcotico è l’esibizionismo, il narcisismo, l’egocentrismo, cioè esaltando le fragilità che l’essere umano si porta dentro, rendendolo senza più difese immunitarie, mutando il codice genetico. E’ sul potere dell’immaginario collettivo attraverso la propaganda, il culto della personalità, sui simboli e miti decrepiti della potenza, della grandezza, della superiorità e della violenza, che i regimi totalitari hanno costruito il proprio dominio. Ricordiamo quanto aveva testimoniato anche Leonardo Sciascia, a 30 anni dalla scomparsa: “Quando tra imbecilli e i furbi si stabilisce una alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte” (“La Sicilia come metafora”, 1989). Questo monito riecheggia il “tweet” orale di Umberto Eco: “I social danno diritto di parola ad una legione di imbecilli” (2015). Pasolini dà alle lucciole un valore storico, politico, ecologico e antropologico nell’articolo del primo febbraio del 1975, pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera, con il titolo “Il vuoto del potere” ovvero “l’articolo delle lucciole” e simbolicamente rappresentano l’illuminazione della coscienza. Nella parte iniziale, poeticamente giustifica la sua analisi: “Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio). Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta)”. Ed ecco il sigillo finale, in cui scolpisce il destino dell’umanità con un folgorante testamento:  “… darei l’intera Montedison per una lucciola”.  “E’ notte ormai, mi affaccio dalla finestra e sotto il ciliegio, nel tepore di maggio, sono apparse le lucciole. E’ gioia dell’occhio e dell’anima, e il ricordo va agli eroi della gioventù e a Pasolini che, con l’occhio del poeta, aveva visto possibili disastri. Prendo una lucciola e, come facevo da bambino, la metto sotto un bicchiere, che mi regali domattina almeno una monetina di speranza!” Questa evocazione è opera del neuroscienziato Lamberto Maffei, che si trova nel suo Elogio della ribellione (2016). Anche Leonardo Sciascia incontrando una lucciola, rievoca Pasolini: “Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Ne ebbi gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato -. L’infanzia, i ricordi, questo stesso luogo ora silenzioso pieno di voci e di giuochi – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini”(“L’Affaire Moro”, 1994). (Un viaggio nella civiltà della lucciole di Pasolini è stato ricostruito, unendo la ricerca scientifica con quella storico-letteraria, nel libro scritto a quattro mani da Antonio Pugliese e dal sottoscritto, “C’erano una volta le lucciole. La profezia di Pasolini”, 2016) Le lucciole creano corrispondenze remote, magie, emozioni e profezie, come testimonia Tiziano Terzani: “Mi piacerebbe vedere che i miei nipoti vivono in un mondo di cui si sorprendono, in cui c’è qualcosa di meraviglioso da osservare. Ho visto ieri sera la prima lucciola e sono stato lì, a guardarla. Nel buio della notte la vedevo fare ti, ti, ti… una gioia ti piglia! Folco: dov’era? Tiziano: Lì, su quella pietra, sai dove c’è quel brutto arbusto che dobbiamo tagliare. Mi ricordo di quante storie i miei mi raccontavano sulle lucciole di quando ero piccolo. Dicevano che se ne acchiappavi una e la mettevi sotto il bicchiere, la mattina dopo ci trovavi una monetina. Loro ce la mettevano la monetina e il mio mondo si arricchiva. Allora, perché ai miei nipoti non far vedere le lucciole, perché si stupiscano della meraviglia del mondo? Nell’Himalaya c’erano dei bruchi luminosi. Sai quei bruchi che nella notte fanno una luce verde come quella di un lampione. Sono incredibili! Non sarebbe bello ad un bambino raccontagli delle favole su questo bruco? Il mondo gli si anima, no? La natura gli si anima, la vita gli si arricchisce, vive in più dimensioni. Altro che la televisione e andiamo a mangiare la pizzettina! È da lì che partono tutti i discorsi sulla violenza. Ogni giorno la violenza ce la facciamo da noi. Basterebbe dire “Basta”! Pigli il bambino e lo porti a vedere le lucciole! Folco: “Dov’è che sbagliamo? è difficile dirlo. Facciamo una cosa molto semplice, viviamo vite sempre di corsa, troppo piene di stimoli, continuamente distratti dal lavoro, dal telefono, dalla televisione, dal giornale, da quelli che ci vengono a trovare. Siamo sempre di corsa, sempre di corsa, non ci fermiamo. Chi si prende più degli spazi vuoti, del tempo per il silenzio? La sera al bambino gli danno da mangiare, lo mettono davanti alla televisione, e poi al letto, perché questi vogliono vedere un film, quelli vogliono andare dagli amici. Sarebbe così semplice dire: “Fermi tutti. Stasera si va a vedere le lucciole”. Non è così complicato, non è una congiura. Siamo noi a metterci nei guai. Capisco la congiura del consumismo, che è una macchina che ti fagocita; ma qui non c’è nessuna congiura. Sei tu, tu che puoi scegliere se andare in pizzeria o se portare il bambino a vedere le lucciole. Onestamente Folco, questo mondo è una meraviglia. Non ce niente da fare, è una meraviglia. E se riesci a sentirti parte di questa meraviglia – ma non tu, con i tuoi due occhi, e i tuoi due piedi; se tu questa essenza di te, sente di essere parte di questa meraviglia – ma che vuoi di più, che vuoi di più, una macchina nuova?” (Questo dialogo è tratto dal libro La fine è il mio inizio, da cui è stato realizzato l’omonimo lungometraggio sceneggiato dal figlio Folco Terzani e Ulrich Limmer è diretto da Jo Baier,  girato nella stessa casa di Terzani all’Orsigna, sulla montagna pistoiese). Lucciole