Limbadi. La Resistenza civile e la rifondazione della civiltà

Coltivare le parole per farci coltivare dalle parole di Rosaria Scarpulla. Nella sua mitezza evangelica, ha tradotto la tragedia della terribile esperienza della morte del figlio Matteo, in una nuova Resistenza civile, umana e culturale. Le sue parole dovrebbero essere scolpite nelle scuole, nelle istituzioni, all’entrata di ogni paese, nella mente e nel cuore di ognuno di noi, affinché diventino il nostro pane quotidiano.

Esse sono il parto di un dolore immenso, che sentono e provano tutte le madri a cui viene sottratto in modo così brutale l’unico figlio, ma rappresentano una risposta che traduce il più alto valore umano, etico, politico, spirituale per cui l’uomo si trova nel mondo, e riassumono il senso stesso dell’Esistere e del Resistere.

“Noi in quella terra non ci stavamo bene perché i nostri vicini non sono persone a cui si può parlare, non sono persone civili, assolutamente. Siamo stati sempre minacciati. Volevano che ce ne andassimo da là, volevano a tutti i costi i nostri terreni. Abbiamo subito angherie di ogni genere, soprusi di ogni genere, ma non abbiamo mai ceduto e non cederemo mai per onorare la memoria di mio figlio, che era innamorato di questo terreno.

Non so se è coraggio, il mio non è coraggio, ma difesa dei propri diritti. Non ho paura, assolutamente. Non l’abbiamo avuta fino ad oggi. Abbiamo fatto i nomi senza paura”.

(Rosaria Scarpulla, TGR Rai della Calabria, martedì 10 aprile)

L’autobomba di lunedì pomeriggio esplosa intorno alle 15,30,ha dilaniato il corpo di Matteo Vinci e ferito gravemente quello del padre Francesco, in una stradina di campagna, doveanche la natura stava esplodendo di fiori, colori, profumi e canti. Ma la deflagrazione della bomba, amplifica il forte, terribile contrasto tra la promessa del paradiso e la dannazione infernale, e sembra annientare qualsiasi speranza nel riscatto e nella redenzione di questa terra, che si ritrova macchiata di sangue innocente e di terrore.

Il territorio di Limbadi non era mai stato teatro di una brutalità così efferata. Quel boato ancora ci rincorre e ci scuote, nei pensieri, nei sentimenti, nelle emozioni, nelle nostre coscienze, nella responsabilità etica, culturale, civile, politica, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni e per tutti coloro che desiderano vivere la propria vita e la propria storia senza condizionamenti da parte di un potere criminale spregiudicato. Con questo atto mostruoso non è stata distrutta la vita di Matteo ma dei tanti Matteo che hanno lottato – e che lottano – con coraggio, con dignità, con amore, attraverso la cultura, per costruire il proprio futuro su questa terra. Lo ha testimoniato la fidanzata di Matteo, Laura Sorbara, italo-argentina, ritornata nella terra dei suoi avi per amore di Matteo, e che insieme avevano progettato di sposarsi. Ancora una volta l’umanità è preda della barbarie; è stata offesa mortalmente la civiltà, la bellezza che si dona in modo spontaneo,sia nella natura che nelle creature, di quel sogno dove i principi che sono presenti nella Costituzione e nei Vangeli, possano essere la carne viva delle persone, delle comunità, delle istituzioni. Non è ancora così. Ma se si toglie questo sogno, significa che la luce che illumina le menti e le coscienze, verrà oscurata, così come ogni forma di convivenza civile e democratica.In particolar modo per chi vuole vivere onestamente, come aveva profetizzato Corrado Alvaro prima di congedarsi da questa vita: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile” (da Ultimo diario).

Quel terribile scoppio sconfina, va oltre Limbadi e la Calabria. Coloro che dovessero relegarlo a questo territorio non fanno altro che uccidere ancora, non solo Matteo. Chi ha concepito un simile atto ha voluto creare terrore, non solo eliminare con modalità vili delle vite umane innocenti, perché in quella macchina ci potevano essere anche la madre e la fidanzata di Matteo. C’è un attacco a tutta la comunità cristiana e laica, alla civiltà democratica dell’Italia, dell’Europa e di tutto il mondo.

Per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili e non possiamo pensare di restare a guardare ed essere indifferenti o lasciarci annichilire, perché vivremmo la morte ogni momento della nostra vita. La brutalità e la violenza appartengono solo a chi compie questi gesti. Per questo si impone la necessità di un profondo lavoro culturale, di riflessione che va a toccare i modelli e il sistema sia mediatico che produttivo dominanti, che generano fenomeni di assurda violenza e gravissima violazione dei diritti umani, di intollerabile ingiustizia sociale e di negazione dei valori più importanti, come il diritto intangibile alla vita (basti pensare a quello che sta accadendo sui fronti di guerra dove gli esseri umani sono considerati al pari delle bestie, della spazzatura, perché al primo posto vi sono i profitti, gli spietati interessi di pochi contro il resto dell’umanità, e si usa il potere e le istituzioni per distruggere l’altro e non certo per incontrarlo, per far fiorire il bene e il dono della vita). Le organizzazioni criminali mirano al potere con il terrore e la violenza, sono asservita al demonio presente nel denaro per poterlo esibire e comprare la dignità e l’onestà degli esseri umani, corrompere gli uomini che sono dentro le istituzioni, come le industrie belliche che producono morte e distruzione (e l’Italia, la civile e democratica Italia, è uno dei Paesi all’avanguardia nella produzione di micidiali ordigni, giustificata con la maschera della presunta e ipocrita legittimità; si ricorda in merito le dichiarazioni del ministro della Difesa Roberta Pinotti, dopo la denuncia del New York Times a ottobre, delle bombe prodotte in Sardegna usate per sterminare esseri umani nello Yemen, e l’assenso-silenzio di tutte le più alte cariche istituzionali). Il modello che ispira e che nutre tale malvagità è identico.

I cittadini, le comunità, devono pretendere delle risposte chiare da parte dei responsabili istituzionali, per farli uscire da queste ambiguità e ipocrisie, perché sono chiamati a dare l’esempio con atti concreti, anche perché hanno gli strumenti che i cittadini non possono avere, non solo per l’accertamento della verità e di coloro che si sono macchiati di questo crimine, ma anche in interventi sul piano sociale, educativo e culturale. Non si può pensare di combattere queste forme di criminalità così devastanti, quando poi si abbandonano i territori e i cittadini a se stessi e si lascia campo libero ai barbari che inquinano le istituzioni, l’ambiente e le coscienze; non si può relegare e tacitare la di chi ci rappresenta nei diversi governi, pensando di risolvere il problema con i tanti – e a volte demagogici – scioglimenti delle amministrazioni comunali per infiltrazioni mafiose.

Dopo lo shock, la comunità tenta di reagire, per far sentire la sua vicinanza alla famiglia di Matteo e per illuminare il disorientamento in cui si ritrova quella collettività che non si vuole arrendere ad un destino di morte e di disperazione.Una prima risposta è la fiaccolata che si terrà in serata (sabato 14, ore 20,30) organizzata dal neo-comitato cittadino “Io sono Matteo” a cui aderiscono tante associazioni ed organizzazioni locali,regionali e nazionali. Domenica alle ore 17.00 l’Amministrazione comunale, guidata dal sindaco Giuseppe Morello, ha indetto un consiglio straordinario invitando le massime cariche istituzionali sia nazionali che regionali, dal ministro dell’Interno Marco Minniti al governatore della Regione Calabria Mario Oliverio, insieme a tutti i sindaci e alle organizzazioni sindacali e alle diverse associazioni, perché – come si afferma nella motivazione – “di fronte a tanta efferatezza non si può rimanere insensibili ma è necessario reagire energicamente”.

È in questi frangenti così tragici che bisogna ripartire dalle parole, dal loro cuore, dal loro battito, dalla vita che sanno generare, contro un messaggio e un linguaggio di brutale violenza e di morte. Le parole sono all’origine delle nostre idee, dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri e muovono i nostri comportamenti.Come le parole pronunciate da Rosaria Scarpulla, la madre di Matteo. Partorite nelle ore successive l’attentato che ha straziato il corpo del figlio, quelle sillabe devono essere scolpite all’entrata di ogni scuola, di ogni istituzione, di ogni paese, affinché diventino pane quotidiano. L’empietà che l’uomo compie quando la natura è in festa, tradisce la tragica storia dell’umanità e ci riporta molto indietro, all’Antico Testamento, a quel mitico racconto che mette in scena l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Sembra che quell’atto così crudele abbia profetizzato un’onda impetuosa che si scaglia ovunque, come è accaduto nelle rigogliose campagne delle colline dominati da maestosi ulivi, simbolo di pace e di spiritualità, che corteggiano il territorio in cui sorge Limbadi. Al cospetto della primavera che esprime con meravigliosa vitalità la sua bellezza, la brutalità che toglie la vita ancora in fiore, che annienta il respiro, lo sguardo, ci fa precipitare dentro l’inferno che popola l’anima e i sentimenti degli esseri umani, nell’oscurità della mente di coloro che hanno progettato il terribile disegno di annientare la vita di Matteo e dei suoi familiari.Ritornano forti potenti le parole della filosofa francese Simone Weil: “È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie” (in Il bene è dare realtà agli altri. Dialogando sull’etica con Dante e Simone Weil, di Filippo La Porta). Il male nega la realtà agli altri, il bene invece la riconosce la realtà altrui e l’incontra. È in questo contrasto profondo che dobbiamo interrogare la nostra coscienza per trovare una risposta di fronte a tanta malvagità che il progresso rende più potente, perché ha messo in“mani disumane” un telecomando, così come le armi, la droga e ogni altro micidiale e terribile ordigno di morte.

E’ fondamentale coltivare le parole per farci coltivare dalle parole di Rosaria Scarpulla, che ha saputo richiamare il sacro valore della “cultura”, che risiede nella tesa lotta per la difesa della terra come genius loci, come “zolla”, “humus” in cui si avverte il respiro e la memoria dei Padri e in cui “coltivare” il proprio destino. Quell’anima antica che abbiamo ereditato dalla civiltà classica ritorna con tutta la forza dell’archetipo. Quelle sue parole espresse in un momento così drammatico, distrutta dal dolore per la fine orribile del proprio unico figlio, con la vita del marito appesa ad un filo, pronunciate con mitezza, grazia, semplicità, umiltà, ma con ferma determinazione nell’intervista andata in onda sul TGR Rai Calabria, (martedì 10, ore 14) sono una pietra miliare che deve guidare il nostro cammino. Questa donna angosciata, straziata, ci ha donato l’espressione più alta dell’umanità: per parafrasare Pico della Mirandola, una vera e propria “orazione” su cosa sia la dignità della creatura umana, vissuta e rivissuta sulla sua pelle, sentita e conficcata nella sua carne, penetrata nel battito del suo cuore di madre e di essere umano. Alla efferata brutalità Rosaria Scarpulla ha dato una risposta che traduce il più alto valore umano, etico, politico, spirituale per cui l’uomo si trova nel mondo, e che riassume il senso stesso dell’Esistere e del Resistere. In quelle parole si scolpisce l’impronta più profonda della verità dell’umanità tesa alla ricreazione della vita contro chi invece la vorrebbe annientare.Quelle parole, parto di una tragicità assoluta, devono essere scolpite come ammonisce Primo Levi di in “Se questo è un uomo”: Meditate che questo è stato: /vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando per via,/ coricandovi, alzandovi./Ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa,/la malattia vi impedisca,/ i vostri nati torcano il viso da voi.

La voce di Rosaria Scarpulla vive per tutti noi, perché è riuscita a squarciare ogni muro, ogni silenzio, ogni paura, ogni oscurità, ogni infima ed empia azione di cui è capace l’uomo. Le sue parole fondano ancora una volta la civiltà, la stessa umanità.  Quella sua mitezza evangelica che ha fatto vibrare le corde dell’anima, ha rivelato la straordinaria potenza tragica della sua voce quasi esile, flebile, che portava dentro il parto di un dolore immenso, che sentono e provano tutte le madri a cui viene sottratto in modo così brutale l’unico figlio. Lo ha constatato anche Matteo Luzza (Referente per Libera Calabria della Memoria dei familiari delle vittime innocenti delle mafie) in una lettera indirizzata al direttore di Avvenire Marco Tarquinio, pubblicata ieri, (venerdì 13 aprile). È importante riascoltare queste sue riflessioni dopo l’incontro che ha avuto con la donna,perché richiamano la forte risonanza delle parole di Rosaria Scarpulla e si coglie una significativa corrispondenza con i pensieri enunciati prima:

Caro direttore, sono gravi i fatti che stanno toccando il territorio di Vibo Valentia: il danneggiamento alla stele di Filippo Ceravolo, giovane vittima innocente della criminalità organizzata, ucciso “per sbaglio” a Soriano Calabro nel 2012; gli arresti nella zona delle Preserre vibonesi di alcune donne (mamme e mogli) che stavano assumendo un ruolo di primo piano all’interno del “locale”, quasi diventando esse stesse il braccio armato delle cosche; e l’autobomba nel cuore del feudo criminale della famiglia Mancuso, a Limbadi, hanno inevitabilmente scosso l’opinione pubblica, in terra di Calabria e oltre i confini regionali. E proprio in queste ore alcuni commenti – del tipo “Mi vergogno di essere calabrese…” – condivisi anche attraverso i canali digitali dei social network spingono a rivendicare la nostra calabresità e a ristabilire i confini dell’azione che il movimento antimafia, Libera, i familiari delle vittime innocenti e importanti settori della Chiesa calabrese, stanno sviluppando nella nostra terra. Bisogna partire dall’evidenza dei fatti. Di “altri” fatti.

E io voglio riprendere le parole che la mamma del giovane, Matteo Vinci, che ha perso la vita nella deflagrazione di Limbadi, ha consegnato alle tv nelle ore successive al drammatico fatto. Vedo e rivedo quell’intervista, e dico a me stesso e a noi tutti, che dobbiamo amplificare l’orgoglio di sentirci e dirci calabresi, anche con le parole, miti, umili e semplici e con gli occhi e con il dolore di quella madre. Parole pronunziate a voce bassa e persino flebile, ma che vanno oltre la deflagrazione, oltre la bomba, oltre il botto… . Non conoscevo quella mamma. L’ho vista per la prima volta in tv e poi, mercoledì scorso, l’ho incontrata di persona. Sono stato assieme ad altri amici di “Libera Vibo Valentia” a casa sua. Dove ho trovato una donna forte, determinata. «Non ci arrenderemo mai… ». «Continueremo a lottare per la memoria di Matteo… ».

In mente mi sono venuti i volti, di tutte le altre mamme, mogli e figlie, che ho incontrato in questi anni. Volti di donna, familiari di vittime innocenti della criminalità organizzata, che rispetto a quelle “altre” donne, ora arrestate, che incitano alla violenza all’odio, alla vendetta, incitano invece alla vita, a un sano orgoglio, a una memoria viva. Assieme alla mamma di Matteo, ho incontrato anche la ragazza con la quale il giovane si doveva sposare tra qualche mese, una ragazza argentina. Due donne sole. In mente mi sono tornate le immagini di casa mia. La casa dalla quale mio fratello, Pino, anche lui vittima innocente della criminalità organizzata, sparì il 15 gennaio del 1994, sequestrato e ucciso dalla ’ndrangheta in quello stesso giorno, anche se i suoi resti furono ritrovati solo il 21 marzo. Ricordo casa mia piena di gente. Un via vai di amici, parenti, conoscenti, e anche di persone che non conoscevamo. Ieri, invece, a Limbadi la casa della mamma di Matteo era vuota, perché nessuno è andato offrire le proprie condoglianze alle due donne. Ecco il “peso” della bomba, la forza intimidatrice del botto.

E davanti a quella casa vuota le domande non danno pace… . Ma io so che la mamma di Limbadi ci insegna ancora di più, ancora una volta che cosa significano resistenza, resilienza e speranza. E ci dice che si possono comunicare e, in concreto, vivere. Nella memoria forte e fedele di chi è stato ucciso, in un impegno che deve continuare tracciando solchi di giustizia e di civiltà, seminando partecipazione e responsabilità. Quella bomba ha voluto essere un “messaggio”, anche alle dodicimila persone che lo scorso 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della criminalità organizzata, hanno camminato per le strade di Vibo Valentia. «A casa loro», come qualcuno mi disse. E io replicai: «No, a casa nostra!». Casa nostra, sì, casa nostra. Terra nostra. Non loro. Quelle dodicimila persone hanno camminato, letto il lungo elenco di vittime innocenti (più di 950 nomi), incrociato lo sguardo di tanti familiari e hanno mandato, tutte insieme, un messaggio di giusto e vero orgoglio calabrese. Proprio come le donne che ci danno l’esempio: la mamma di Matteo, le mamme, le mogli, le figlie di tutte le vittime innocenti delle mafie. Sentiamo il valore di questo dono. Il loro dolore e la loro speranza sono primavera, quella primavera che ricomincia ogni anno il 21 marzo, e che deve abitare ogni giorno della nostra vita.

Matteo Luzza