Messina. Studiosi e docenti universitari hanno messo in luce l’opera di don Milani

Importante convegno sulla figura di don Lorenzo Milani, organizzato dai Lyons club di Messina. Studiosi e docenti universitari hanno messo in luce la straordinaria opera nel campo pedagogico-educativo ma anche il valore etico, sociale, culturale ed estetico dei suoi scritti e della sua azione.

L’opera e l’eredità di don Lorenzo Milani (scomparso 50 anni fa, il 26 giugno del 1967) rappresentano un humus culturale e spirituale, ma soprattutto pedagogico-educativa su cui coltivare il presente. Il Priore di Barbiana resta una figura di sacerdote considerata “scomoda” sia per la Chiesa che per il potere politico-economico, da ricondursi al suo messaggio radicale in rapporto con la scelta di vita e di missione nella Chiesa e nella società, nella politica e nella cultura. Di grande importanza sono alcuni scritti, come “Lettera ai giudici e “Lettera ad una professoressa”, frutto entrambi di un lungo, laborioso, faticoso e appassionante lavoro collettivo con i ragazzi di Barbiana.

Per far conoscere la sua storia e la sua eredità, è stato organizzato un interessante convegno (28 novembre, Messina, Palazzo dei Leoni, Salone degli Specchi) dal titolo “Conversazione su Don Milani. Le ore di Barbiana sulla scia di don Lorenzo a cinquanta anni dalla scomparsa. Hanno relazionato la prof.ssa Paola Radici Colace (docente di Filologia classica – Università di Messina), “La rivoluzione  della formazione”; il prof. Sergio Tanzarella (ordinario di Storia della Chiesa, Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, “Parrhesia e primato della coscienza in Lorenzo Milani” e Nicola Rombolà (docente di materie letterarie negli istituti superiori), “L’eredità culturale di don Lorenzo Milani: il peso delle parole”. ll convegno è stato presentato dalla presidente dei Lyons clubs (Distretto 108 YB – Sicilia) Rossella Moleti (docente), che ha illustrato l’azione dei Lyons e il significato sociale e culturale dell’iniziativa. Ad introdurre e coordinare gli interventi il prof. Antonio Pugliese (Ordinario di Clinica medica veterinaria, Università di Messina), il quale ha raccontato il suo giovanile “innamoramento” con don Lorenzo Milani all’indomani della pubblicazione di Lettera a una professoressa, il significato che ha avuto nella sua vocazione all’insegnamento e nella vita. Nel descrivere inoltre la biografia del Priore di Barbiana, Pugliese ha messo in luce la missione del suo apostolato, nonostante la forte contrarietà che ha incontrato nella sua famiglia, che apparteneva alla ricca borghesia fiorentina (tra l’altro atea), e dall’apparato ecclesiastico.

Con l’esilio di Barbiana don Milani è stato punito per essersi assunto la responsabilità di offrire gli strumenti culturali ai ceti meno abbienti ed esclusi dalla possibilità di potersi costruire un futuro, e difeso i più deboli e i più bisognosi, aver rinunciato a tutti i privilegi che la propria famiglia di origine gli avrebbe assicurato, e abbracciato in modo integrale il messaggio evangelico scegliendo i poveri e gli emarginati. Nella sua azione si è scontrato con una Chiesa che invece di accogliere i diseredati, si era schierata con chi incarnava il potere, venendo meno alla sua missione cristiana, e anche per questo è stato addirittura condannato post mortem per aver difeso dei ragazzi, che hanno scelto di fare obiezione di coscienza. Infatti don Lorenzo, insieme ai suoi ragazzi di Barbiana, si schiera con i 31 giovani che sono stati rinchiusi a Gaeta, sia con la lettera ai “Cappellani militari” e poi con la “Lettera ai giudici”, un documento di eccezionale valore culturale, filosofico, pedagogico, etico e politico, nonché testamento spirituale – e non solo memoria difensiva. Da questi scritti viene fuori una straordinaria figura che ha incarnato una visione della scuola capace di entrare in sintonia con il Vangelo e la Costituzione, la religione con la politica, perché ha scavato in profondità il campo su cui si coltiva la comprensione della storia e del presente, gettando una luce illuminante nei tempi che stiamo attraversando sotto il profilo politico-sociale e pedagogico-educativo.

Ed è per questo che assume un grande significato la “rivoluzione della formazione” illustrata dalla prof.ssa Paola Colace Radici, nel momento in cui il priore di Barbiana ha scelto di stare dalla parte degli ultimi. Come prima rivoluzione ha messo al centro l’allievo; aveva anticipato quello che oggi viene identificato come tutorato alla pari. La scuola di allora privilegiava i ceti abbienti e respingeva i figli delle classi più povere, come avevano denunziato nella “Lettera a una professoressa” con un noto paradosso: “Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. É un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Si trattava di una forte denuncia contro quel sistema che respingeva i ragazzi che provenivano delle classi più disagiate. E “Lettera a una professoressa” nasce proprio come reazione all’umiliazione che hanno subito i ragazzi che si erano presentati agli esami al Magistrale. Nella sua approfondita relazione la prof.ssa Colace inoltre, ha messo in luce la rivoluzione pedagogica del metodo applicato da don Lorenzo Milani. La “Lettera” è importante lavoro di scrittura collettiva che ha lasciato segni profondi nella cultura e nella società italiana, in cui è forte la rivendicazione del diritto allo studio di fronte a una realtà scolastica che riproduceva ferocemente le diseguaglianze sociali.

Per questo il libro assume il valore di un accorato appello morale e civile che si rivolge ancora alla classe docente e alla società, e ci consegna il rivoluzionario messaggio di un sacerdote convinto che un maestro amante del vero e del giusto può cambiare il mondo, ma è necessario leggerla senza essere strumentalizzata, come è accaduto dopo la sua pubblicazione. “Ma se all’epoca vi era poca attenzione alle esigenze di un mondo che rimaneva escluso dalla cultura -ha osservato la docente -oggi si assiste invece ad un abbassamento del livello della formazione, che non rende giustizia invece all’opera pedagogico-educativa messa in atto da don Lorenzo per dare risposte al bisogno di conoscenza e di cultura di allora da parte di quelle classi emarginate rappresentate emblematicamente da Barbiana”. Come testimoniano “Lettera ai giudici” e “Lettera a una professoressa”, la scuola per don Milani era un cantiere sempre aperto.

In merito si è soffermato, il prof. Sergio Tanzarella, presentando il suo recente lavoro, “Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici” Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017). Si tratta di una prima edizione critica su queste due lettere con l’intenzione di contestualizzare i testi e fornire un apparato di note esplicative per comprendere alcuni passaggi storico-sociali. La sua ricostruzione ha fatto luce sulla superficialità con la quale, un certa pubblicistica,ha presentato la figura del priore di Barbiana. Tanzarella ha spiegato che le due lettere non rappresentano solo una memoria difensiva, ma sono pagine di società e di letteratura, concepite come opere d’arte, sottolineando che è “straordinario che siano state scritte da un prete”. Lo studioso – che ha curato insieme ad altri, l’edizione dell’opera omnia di Don Milani, uscita di recente per la Mondadori – ha messo in rilievo che il messaggio dei suoi scritti molto spesso viene strumentalizzato e che invece, al centro dell’opera di don Milani, vi è“il primato della coscienza e il concetto di Parrhesia”, auspicando per i giovani la lettura e la comprensione di questi testi.“Spesso – ha osservato Tanzarella – questi documenti sono stati manipolati; per cui si è posta la questione di una edizione critica”. A tal proposito il docente ha sottolineato come molto spesso  don Milani ha scritto in situazioni di estremo disagio, sia per le sue condizioni di salute (la malattia negli ultimi quattro anni non gli ha dato tregua), sia perché la preoccupazione di don Milani, sempre costante, era per i ragazzi, per la scuola. Ma l’elaborazione testuale di questi documenti, è un fatto di straordinario valore sotto il profilo letterario e comunicativo. Si tratta infatti, in primo luogo, ha spiegato il curatore di “Lettera ai cappellani militari e Lettera ai giudici” (con una interessante e importante post-fazione che recita “Reato estinto per morte del reo. Don Milani e il suo insegnamento a processo”) che siamo di fronte ad un lavoro di scrittura collettiva, in cui venivano coinvolti i genitori dei ragazzi insieme ad altre persone di categorie sociali diverse, finché non aveva raggiunto la versione definitiva e “ci restituiscono un don Milani che ha mantenuto una straordinaria lucidità fino all’ultimo suo respiro”. A tal proposito ha riferito di una intuizione del priore di Barbiana: cioè che il passaggio“da bestie a santi”non può avvenire se non prima si diventa uomini attraverso il dominio della parola. Si tratta di una verità che ha illuminato in diversi momenti le sue conversioni, tra cui quella che vive a Barbiana: il mondo dei pastori, dei montanari, caratterizzato da analfabetismo. Per questo motivo, ha osservato Tanzarella, don Milani era un elemento di disturbo per i poteri e per il potere, perché ha vissuto concretamente la “parrhesia”: dire la verità e pagarne le conseguenze, così come spiega nella “Lettera ai giudici” quando afferma:

“In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona una obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell’imputato ed è scuola la testimonianza di quei trentuno giovani che sono a Gaeta”.

Il docente ha puntualizzato che don Milani si schiera in assoluto per la verità. In una lettera infatti spiega: “Non conoscere il male è una inferiorità che pesa, ma di cui si può anche essere orgogliosi. Ma non conoscere il Vero è una inferiorità morale e un cristiano non può provare che vergogna. Perché la sete di sapere appartiene alla parte più alta dell’uomo e Dio non le ha posto alcun limite positivo se non quello delle nostre possibilità umane”.

Egli era alla costante ricerca della verità oggettiva. In riferimento alle guerre che sono evocate nella “Lettera ai giudici” e alla propaganda bellicista esaltata anche dai cappellani militari che avevano accusato di viltà i giovani che avevano scelto l’obiezione di coscienza “un insulto alla patria”, “estraneo al comandamento cristiano dell’amore”,don Lorenzo documenta che non ha trovato una guerra giusta nella storia e che quindi il massacro di militari e civili poteva essere evitato, ma ha prevalso la retorica bellicista, gli interessi degli industriali che sulla guerra si sono arricchiti con commesse fasulle e fatture pagate due e tre volte. Contro queste menzogne don Milani si è battuto, e la sua lotta è stata coerente con la scelta di aderire al vangelo e ai poveri, con la consapevolezza che solo il dominio della parola, la conoscenza, la cultura, sono le uniche armi per un reale riscatto e una vera rivoluzione sociale e politica. Un messaggio di grande valore e importanza che deve essere conosciuto per combattere l’attuale crisi in cui versano la società e i giovani. Come ultimo documento – che testimonia questa sua ricerca fino alla fine dei suoi giorni – ha letto un passo tratto da lettera scritta a Diana Lovato (del 16 marzo del 1966), che lo studioso definisce come il testamento spirituale di don Lorenzo Milani: “Chiunque se vuole, può avere la grazia di misurare le parole, riordinarle, eliminare le ripetizioni, le contraddizioni, le cose inutili, scegliere il vocabolo più vero, più logico, più efficace, rifiutare ogni considerazione di tatto, di interesse, di educazione borghese, di convenienze, chieder consiglio a molta gente (sull’efficacia e no sulla convenienza). Alla fine la cosa diventa chiara per chi la scrive e per chi la legge. La Lettera ai giudici è un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose”.

Nel suo intervento Nicola Rombolà, ha cercato di far emergere il valore etico-culturale, sociale e pedagogico dell’opera di Don Lorenzo Milani nella realtà attuale, per la sua voce profetica in relazione alla questione della centralità della parola in un mondo mediatico dominato dall’immagine e dalla false notizie che hanno inquinato la conoscenza e la ricerca della verità, alla base del metodo adottato da don Milani, come è testimoniato nelle “Lettera ai giudici”. Rombolà ha fatto riferimento al libro di Michele Gesualdi, “Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana” (con una prefazione di Andrea Riccardi e postfazione di don Luigi Ciotti). L’autore di questo libro è stato uno dei primi sei allievi, che ha seguito don Milani fino alla fine della sua vita e ha raccontato l’esperienza del priore e il suo rapporto difficile con il mondo cattolico, sia preti che prelati. Hanno cercato in tutti i modi di emarginarlo e di punirlo per le sue idee e soprattutto per il suo apostolato accanto agli esclusi. Geusaldi ha ribadito che don Lorenzo dal “niente ha costruito Barbiana” attraverso la tecnica dell’amore costruttivo. Sulla base di questa testimonianza, Rombolà ha constatato che il Priore di Barbiana ha compiuto un autentico miracolo, non per virtù di un potere soprannaturale, ma attraverso la sua visione cristiana calata nella realtà sociale e culturale, quella dei poveri, degli esclusi, di chi lotta contro le ingiustizie. A tal proposito ha concluso il docente che “Lettera ai giudici” che “Lettera ad una professoressa”, siano il risultato di una esperienza vissuta con radicalità, che si è espressa anche nella scrittura e nelle sue posizioni in coerenza con la vita di sacerdote e di testimone del messaggio evangelico, mettendo insieme azione pedagogica e azione sociale, sacrificando – nel senso di rendere sacro – la sua vita, per dare ai suoi ragazzi gli strumenti culturali per leggere la realtà con coscienza e consapevolezza, per non cadere nelle trappole escogitate dai poteri mediatici. Un pericolo questo presente nella realtà contemporanea che adesso si è notevolmente potenziata con l’uso dei social, in cui le giovani generazioni sono ormai come chiusi in un labirinto, senza via di uscita, schiavizzati non solo con il corpo, ma anche nel pensiero. Rombolà, inoltre, ha affermato come le menzogne siano diffuse come verità assolute da parte di intellettuali, grandi firme del giornali, docenti universitari, ed ha fatto l’esempio sia delle parole inglesi che stanno colonizzando e contaminando la lingua italiana inquinando l’identità culturale e la capacità di formulare un pensiero libero, e sia per l’uso di determinate parole in un modo così superficiale e acritico, manipolando e impedendo la corretta riflessione su ciò che si nasconde dietro e dentro certe sigle o parole, come l’acrostico Pil, “il prodotto interno lordo” che viene spacciato come crescita e ricchezza, quando invece nasconde la distruzione dell’umanità, sia perché dentro ci sono i profitti delle industrie belliche che quelli della criminalità organizzata e di tutto ciò che produce inquinamento e malattie. Un grande paradosso che viene spacciato come unica verità da parte di una propaganda neoliberista che presenta come dati di carattere scientifico, un sistema economico-finanziario che ha prodotto e che produce, grandi ingiustizie e menzogne, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità. La fondamentale lezione che ci ha lasciato don Lorenzo Milani è proprio il dominio della parola, la sua centralità, a cui è necessario ritornare per non essere ingannati da un sistema mediatico sempre più narcotizzante e anestetizzante, asservito ai poteri dominanti, che nasconde dentro la mostruosità del Minotauro. Unica via di salvezza, richiamando l’esempio di don Milani, ha ribadito Rombolà, “è prendere consapevolezza di ciò che si nasconde, ma senza amore, nessun filo di Arianna si potrà dispiegare”, come le parole di Michele Gesusaldi, che sigillano l’opera e la testimonianza di don Milani:

“Come atto di amore lo abbiamo fatto rimanere per sempre Priore del niente di Barbiana. Quel niente che lui ha fatto fiorire e fruttificare, prendendosi cura degli altri. Ed è questo il vero segreto di Barbiana. La forza dell’AMORE che muove il mondo, prende tutto, ma per far rispuntare una nuova alba che ridona tutto”.

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