La poesia di Giorgio Caproni: l’ecologia tema fondamentale per il futuro

La poesia di Giorgio Caproni al centro dell’analisi del testo (tipologia A)nella prova di Italiano alla Maturità, che si è svolta il giorno del solstizio d’estate (21 giugno), ha suscitato un interessante dibattito sui media per il suo messaggio improntato alla sensibilità ecologica. Un filone letterario che da San Francesco arriva fino a Papa Bergoglio, passando per “L’articolo delle lucciole” di Pasolini.

Giorgio CaproniLa poesia di Giorgio Caproni “Versicoli quasi ecologici” tratto da “Opera in versi” inserita nella prima prova di maturità di Italiano che si è svolta ieri (tipologia A,analisi del testo), ha suscitato una appassionata discussione sui media, sia perché gli studenti non conoscevano questo poeta e sia per la sensibilità ecologica che il testo esprime. Il tema dell’ambiente e dell’amore verso il creato, ha caratterizzato un filone letterario importante nella nostra letteratura, a partire dal “Cantico delle creature” di San Francesco che ha ispirato l’enciclica di papa Francesco, “Laudato sì”. L’amore per la terra e le sue creature sono fondamentali per l’umanità del futuro, come emerge dall’incipit del testo: «Oggi la terra, nostra sorella, maltrattata e saccheggiata, si lamenta, e i suoi gemiti si uniscono a quelli di tutti i poveri e tutti gli ‘scartati’ del mondo. Proteggere la casa comune, controllando surriscaldamento climatico e altri danni ambientali, ma anche cambiare modello di sviluppo, per i poveri e per uno sviluppo sostenibile e integrale». È questa la conversione ecologica  invocata dal papa. Un richiamo forte alla visione cosmica alla visione di San Francesco d’Assisi, “per denunciare l’uso folle delle risorse ambientali e delle stesse creature umane, concepite come merce da immettere sul mercato per fare profitto, per far crescere il Pil che va a depositarsi nei forzieri di pochi plutocrati, lasciando a futura memoria, l’immonda materia della loro immondizia. La conversione auspicata implica un mutamento profondo dei comportamenti e della concezione che regola i nostri principi e i valori, che a loro volta ci permettono di leggere il mondo e le realtà che si presenta sulla mensa dove si nutrono i nostri pensieri e le nostre emozioni” (queste parole contrassegnano l’appendice “Solo i contadini potranno salvare il mondo” redatta da chi scrive, in Antonio Pugliese “La civiltà contadina in Calabria. Il recupero della memoria”, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 2016, pag. 265).

L’anima ecologica del testo di Caproni ha aperto una ventata di aria pulita tra i Palazzi oscuri e reclusi dei poteri in cui lo spirito soffoca, creando un dibattito tra letterati, scienziati e ambientalisti. Ma nell’era in cui tutto viaggia con estrema rapidità nel ventre del virtuale, si prevede che questo dibattito, su un problema cruciale per il futuro dell’umanità, sia destinato a scomparire, in un battito.  È destinato a svanire sulle pagine dei quotidiani perché gli interessi di pochi soggetti sono prioritari rispetto alla vita dell’intera umanità, attraverso una serie di scelte irresponsabili e suicide da parte dei governi, passati e attuali (basti pensare alla folle decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di tirarsi fuori dagli accordi di Parigi per ridurre le emissioni inquinanti, a cui si era impegnato l’ex presidente Barak Obama, ma anche con le industrie belliche che continuano a sfornare armi e profitti, non certo pane per garantire la pace nel mondo o per creare giustizia e armonia tra i popoli; e l’Italia, è necessario ribadirlo, brilla per essere uno dei principali produttori di armi, come denuncia Curzio Maltese, su Venerdì di Repubblica, del 7 aprile del 2017, dal titolo “La follia del riarmo che ormai indigna solo il Papa”).

L’amore/ finisce dove finisce l’erba/ e l’acqua muore. Dove sparendo la foresta/e l’aria verde, chi resta/ sospira nel sempre più vasto/ paese guasto: «Come/ potrebbe tornare a esser bella, / scomparso l’uomo, la terra». Questi versi finali sono apocalittici perché profetizzano la follia che attraversa l’azione distruttiva e catastrofica dell’homo necans (così come è stato profetico Erasmo da Rotterdam con “L’elogio della follia” a cinque secoli di distanza).

La poesia di Caproni sembra una sintesi perfetta delle parole che sono presenti in un passo straordinario dei Fratelli Karamazov, declinate nella preghiera del monaco Zosima: “Amate tutte le creature divine, l’intera creazione come ciascun granello di sabbia. Amate ogni fogliolina, ogni raggio divino. Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa. Se amerete ogni cosa, in ogni cosa coglierete il mistero di Dio. E una volta che lo avrete colto, lo comprenderete ogni giorno di più, giorno dopo giorno. Arriverete, finalmente, ad amare tutto il mondo di un amore onnicomprensivo, universale. Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te – purtroppo questo è vero per quasi tutti noi! Amate in special modo i bambini, giacché anch’essi sono senza peccato, come gli angeli; essi vivono per commuovere e purificare i nostri cuori e rappresentano una sorta di indicazione per noi. Guai a chi offende un bambino! Padre Anfimmi insegnò ad amare i bambini: quell’uomo dolce e taciturno, durante i nostri pellegrinaggi, amava comprare, con i soldini che ci avevano donato, dolcetti e caramelle da distribuire ai bimbi; passando accanto ai bambini egli non poteva fare a meno di provare emozione: ecco la natura di quell’uomo”.

Pier Paolo Pasolini

Ma è stato Pier Paolo Pasolini a denunciare in modo forte come il modello consumistico abbia causato “la scomparsa delle lucciole” nell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera, il primo febbraio del 1975, in cui ha prefigurato la tutela dell’ambiente e le implicazioni di carattere ecologico e bio-politico (pubblicato sul Corriere della sera, dal titolo “Il vuoto del potere in Italia”, passato alla storia come “L’articolo delle lucciole” e riportato dallo stesso Pasolini ne “Gli scritti corsari”, l’articolo ha ispirato il volume “C’erano una volta le lucciole. La profezia di Pasolini”, di Antonio Pugliese e Nicola Rombolà, Calabria Letteraria editrice, Soveria Mannelli, 2016).

L’inquinamento come causa della scomparsa delle lucciole, attualmente declinato nelle sue diverse forme, da quello ambientale (aria, acqua, terra) a quello acustico e luminoso, per il potere inarrestabile dei consumi e di una società industrializzata che pone come “dimensione unica” il profitto (è stato il filosofo H. Marcuse,  nell’opera “L’uomo a una dimensione” ha identificato il destino dell’uomo come una sorta di prodotto da vendere sul mercato). Un allarme che lo scrittore e regista aveva vissuto come un trauma, per l’impatto nei comportamenti, nei sentimenti, nelle relazioni emotive, e con la cancellazione della grande civiltà contadina e di tutte quelle esperienze che portavano nel proprio Dna una tradizione e un linguaggio – antico, evocativo, mitico, carico di risonanze e di corrispondenze poetiche – che richiamava la memoria della grande civiltà classica greca. La distruzione di questa memoria e di questa immensa eredità -considerate come “mutazione antropologica” e “genocidio culturale” – non era solo un problema sentimentale o nostalgico. Si prefigurava una sorta di catastrofe che Pasolini viveva come una rappresentazione della tragedia antica, presentita nel suo corpo e nella sua anima. Questa scomparsa portava in sé un mutamento repentino delle strutture antropologiche ed economiche della società italiana di quel particolare frangente storico (dalla fine dagli anni ‘60 fino al momento della sua tragica scomparsa, nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975)e si proiettava come tanti fotogrammi di un film che si stava recitando sotto il suo sguardo sgomento, raccontato e analizzato sia negli “Scritti corsari”che in “Lettere luterane”.

Non si trattava soltanto di un inquinamento ambientale. Si stava manifestando una patologia che colpiva le coscienze e i sentimenti, e che modificava “l’ambiente dell’anima” assumendo un carattere apocalittico, trasferendosi nelle case, sulle strade, nelle menti, nei rapporti umani, nei pensieri, nei desideri. Le lucciole erano diventate le vittime predestinate – che ha prefigurato l’esortazione di Caproni – “Non uccidete il mare,/ la libellula, il vento. Non soffocate il lamento / (il canto) del lamentino …” – e diventano il simbolo dell’ultimo possibile “lume” nella “selva oscura” della società dominata da un nuovo e più devastante potere, quello dell’ideologia dei consumi.

La scomparsa delle lucciole preannunciava quello che oggi noi tocchiamo con mano. Gli interessi astronomici delle multinazionali hanno reso il potere cieco di fronte all’emergenza planetaria rappresentata dal mutamento climatico, dalla desertificazione, dal rischio della scomparsa della biodiversità, dalla cancellazione delle colture e della cultura, dalle profonde ingiustizie che si sono generate nel corpo dell’umanità globale: vale a dire un impatto irreversibile nello stile di vita della società che pregiudica l’ambiente e il futuro delle nuove generazioni che si ritrovano una terra invasa dalla spazzatura, dall’inquinamento e da un forte terremoto sociale. L’inquinamento interiore e quello esteriore si intrecciano e si rispecchiano. Gli effetti sulla salute del pianeta e su quella dell’umanità sono inimmaginabili. Ogni principio di precauzione (preconizzato dal filosofo ecologista Hans Jonas) sembra non preoccupare i nuovi gerarchi del totalitarismo del profitto (secondo il rapporto Oxfan 2017 sulle disuguaglianze nel mondo, otto persone hanno la stessa disponibilità economica e finanziaria di metà dell’umanità. E non stupisce visto che l’1% ha accumulato nel 2016 quanto si ritrova in tasca il restante 99%).

Non vi è alcuna responsabilità etica sulle conseguenze delle proprie azioni: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana” aveva ammonito sempre Jonas (H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica). Il rapporto cibo, ambiente, salute è indissolubile. Diversi sono gli studi che attestano il legame tra stili di vita e salute. In questi ultimi anni si sta diffondendo una maggiore consapevolezza che la salute dell’uomo non può essere affrontata considerando il corpo separato dal suo contesto, sia interiore che esteriore. Già negli anni ‘70 un famoso fisico, Fritjof Capra, aveva evocato questa unione tra mente e corpo, tra materia e spirito, tra visione occidentale e orientale, ne “Il Tao della fisica” e ribadito ne “La rete della vita”. Le sensibilità scientifiche più disposte ad auscultare i “segnali di fumo” che si alzavano nell’etere metropolitano delle città, avevano compreso che cosa stava accadendo e i pericoli a cui andava incontro il modello di sviluppo industriale e post industriale il cui valore assoluto era rappresentato dal dio denaro (profetico il discorso di Capo Seattle del 1856). Nella prima conferenza sul clima da parte dell’Onu, che si è svolta a Rio nel 1991, una ragazzina di 12 anni, Severn Suzuki, aveva gridato il suo monito ai grandi della terra; ma come al solito non si sono minimamente preoccupati dell’avvenire dei propri figli. Sono rimasti completamente sordi perché gli interessi di pochi prevalgono sul bene collettivo più importante, la salute della terra e dell’umanità. Già nei primi anni Settanta a Roma, un gruppo di studiosi, avevano lanciato l’allarme sui limiti dello sviluppo (nel 1972 uscì un libro considerato da alcuni profetico, da altri catastrofista. Il titolo italiano era “I limiti dello sviluppo”, traduzione del volume “The limits to growth”, un rapporto promosso dal “Club di Roma”, un’associazione di industriali, scienziati e giornalisti che commissionò il libro agli autori – i coniugi Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III. Quarant’anni dopo si può dire che gran parte delle idee del profetico volume siano ancora vive. L’ultima analisi su questo tema, che guarda avanti di altri quarant’anni, si intitola 2052, scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente – In Focus, “I limiti dello sviluppo”, http://www.focus.it/ambiente/natura/i-limiti-dello-sviluppo-quarant-anni-dopo-591573).

Nonostante una maggiore informazione e consapevolezza dei gravi pericoli che il modello di sviluppo non può sostenere a causa degli effetti dell’entropia, sembra che la società sia stata talmente narcotizzata o anestetizzata dal potere dei consumi, e che non sia più in grado di guardare oltre, di reagire per cercare di scorgere un diverso orizzonte (come dimostra “il principio della rana bollita” formulato dal linguista e filosofo americano NoamChomsky). Lo sguardo miope, se non addirittura cieco, dei plutocrati magnati o delle multinazionali del crimine che continuano ad inquinare tutto, per quel delirio di onnipotenza che sembra dominare incontrastato, a tal punto che la maggior parte degli individui credono che il proprio io sia simile a dio, incarnando la mostruosità del nazismo alla Eichmann (la categoria della mostruosità è stata codificata in modo lucido dal filosofo Gunther Anders in un’opera dal titolo “Noi figli di Eichmann” del 1964), proprio perché non si ha la capacità di immaginare gli effetti che provocano le proprie azioni.

L’ecologia dovrebbe ispirare ogni azione (presente e futura), a partire dal cibo con il quale ci nutriamo (viene in mente a tal proposito l’aforisma di Ippocrate, “Fai del cibo la tua medicina e fai che sia il cibo la tua medicina”), e dai pensieri che elaboriamo mentre guardiamo il mondo, e dagli interrogativi che formuliamo quando ci fermiamo a contemplare un tramonto o un magnifico ulivo, per farci intuire che abbiamo superato abbondantemente quei limiti che i greci avevano identificato con la hubrys, un concetto che declina la smisuratezza, la prepotenza e la tracotanza dei comportamenti umani che non hanno alcun rispetto della sacralità della natura e dell’uomo. Già Plinio il Vecchio (naturalista romano morto nel 79 d.C.) aveva spiegato che “i leoni non lottano fra di loro; i serpenti non attaccano serpenti; né i mostri selvaggi delle profondità infuriano contro i loro simili. Ma la maggior parte delle calamità per l’uomo sono causati dai loro simili”. Lo stesso filosofo Aristotele lo aveva codificato nel concetto di misura: “Chi conosce i propri limiti ha in mano il proprio destino”.

Se scorriamo le pagine di un libro sull’ambiente, tra i tanti, come quello dello storico Piero Bevilacqua, dal titolo apocalittico, La terra è finita, Breve storia sull’ambiente (2006) emerge l’homo faber o artifex, non ha frenato la sua corsa, che diventa sempre più aggressiva, e non si accorge di quello che sta accadendo sotto i suoi occhi o nei suoi pensieri, trascinato da un vortice che lo risucchia sempre più nell’abisso infernale del totalitarismo della tecnica e a furia di emulare la macchina, diventa esso stesso un ingranaggio di questo grande meccanismo che lo porterà ad auto annientare la propria umanità (il tema della robotica e del rapporto uomo-ambiente-macchina è al centro della tipologia B, il saggio breve nella stessa prova di Italiano).

Siamo entrati nell’era che i geologi chiamano Olocene, ma sarebbe più opportuno definirlo Antropocene, per l’aggressione che l’uomo ha compiuto e continua a compiere sull’ecosistema, mettendo a rischio la sua sopravvivenza. I processi naturali sono sempre di più scanditi dalle attività umane. E l’uomo invece di essere consapevole dei propri atti agisce, non più avendo una chiara visione e una coscienza, ma in virtù della propria alienazione, della propria malattia. Per cui i processi di selezione e di adattamento si sono invertiti: è la malattia che crea inevitabilmente una involuzione. L’equilibrio e l’armonia tra uomo e natura che abbiamo ereditato dalla cultura greca, sembra essere soltanto un miraggio. Il modello o il paradigma che informa la contemporaneità riconosce soltanto una condizione patologica come normalità (basti pensare alla follia dei produttori di armi e di conseguenza dei governi che sono asserviti a questi interessi stratosferici che hanno come fine la distruzione degli esseri umani). “La vita è inquinata alle radici” si legge nell’ultima pagina de “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, diventato una sorta di postulato dell’era globale dei post: l’inquinamento ha la stessa capacità di condizionare il risultato di ogni nostra riflessione come il principio di indeterminazione del fisico Heisemberg.

La salvezza dell’uomo e quindi la sua salute, non possono prescindere dall’ecologia anche delle parole. Spiega il latinista Ivano Dionigi in merito: “Noi oggi abbiamo bisogno, non meno che dell’ecologia ambientale, di una ecologia linguistica, che ci faccia scoprire la differenza tra ‘vocaboli’ e ‘parole’. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente diceva Platone, oltre ad essere una cosa brutta in sé ‘fa male anche all’anima (Fedone 115)”; tutto questo accade perché “non scegliamo con cura le parole migliori (optima), ma sono loro che scelgono noi e che ‘ci vengono incontro per via’: sono le parole ‘ovvie’ (obvia)”, rileva ancora Dionigi citando Frontone (I. Dionigi, Il presente non basta, Milano, Mondadori, 2016, pag. 39). È necessario rimettere in discussione le categorie con cui siamo abituati a pensare il nostro ambiente di vita e ogni parola che utilizziamo per comunicare, per leggere e interpretare. Un esempio emblematico è l’acronimo Pil, prodotto interno lordo. Se ci fermassimo a riflettere su quello che significa questo cosiddetto “misuratore delle ricchezze” imposto dai nuovi “mostri” che dominano il sistema plutocratico neocapitalistico, allora emergerebbe che dietro quelle tre lettere si cela il peggio che l’umanità abbia mai partorito. Risuonano, a tal proposito, a quasi 50 anni dalla sua uccisione (in un discorso tenuto il 8 marzo del 1968 , tre mesi prima di essere vittima in un attentato a Los Angeles) le parole di Bob Kennedy che aveva profetizzato che dietro il famigerato e tanto osannato Pil si nasconde la morte, la disperazione, la guerra, la strage: “Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari …” (forse a causa di quelle parole è stato ucciso, come è stato fatto scomparire dai servizi segreti americani e francesi nel 1987 Tomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, tre mesi dopo l’altrettanto famigerato “Discorso sul debito”). Ecco perché nei nostri distratti sguardi dai nuovi social media della post verità, la scomparsa delle lucciole denunciata da Pasolini, in quel lontano-vicino primo febbraio 1975, apre scenari inquietanti e oscuri, e quella sua sofferta, appassionata e drammatica “liturgia” sui nuovi poteri demoniaci che dominavano le società del boom economico, dobbiamo rileggerla alla luce di tutto ciò che sta accadendo nel presente, in corrispondenza perfetta con la poesia di Caproni. “È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità” ha spiegato Albert Einstein. Il cosiddetto “benessere” adesso presenta il suo conto molto salato perché ha “inquinato alla radice la vita”. Il compito di ogni coscienza sensibile e che ha cura e amore per la vita e per l’uomo, è quello di lottare affinché una simile “catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni” non si avveri affinché nel mondo possa ritornare “alla salute” (Svevo, “La coscienza di Zeno”).  È certo che lo spirito di sopravvivenza dell’umanità reagisce di fronte ai pericoli. L’auspicio è che possa essere illuminato da una nuova coscienza: la natura ci rispetta se noi la rispettiamo, altrimenti se continuiamo ad aggredirla in modo dissennato, prima o poi la sua risposta sarà inesorabile: e le colpe dei padri ricadranno sui figli. “Tutte le cose sono legate tra loro. Dovrete insegnare ai vostri figli che il suolo che essi calpestano è fatto delle ceneri dei nostri padri. Affinché i vostri figli rispettino questa terra, dite loro che essa è arricchita dalle vite della nostra gente. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: la terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra…” (queste “pericolosissime parole” sono state pronunciate da uno dei cosiddetti selvaggi, Capo Seattle, che il grande capo bianco aveva deciso di sterminare).

Avere una visione ecologica significa ridare senso al mondo e alla nostra stessa vita. Il risveglio su questi aspetti fondamentali per l’esistenza, è un imperativo da cui non ci si può sottrarre nessuno. Diventa imprescindibile inoltre guardare il presente e il futuro alzando gli occhi (non come oggi invece si tende ad abbassare perché sono presi nel vortice della spirale dei piccoli monitor degli smartphone), per aprire la mente e l’anima alla bellezza e all’amore verso il creato e le sue creature. E ciò può avvenire se si comincia un’opera di disintossicazione da tutti i metalli pesanti che il consumismo ha immesso dentro il nostro sangue, dallo scoprire gli inganni, le falsità e le mistificazioni che si annidano in un sistema corrotto e pieno di ingiustizie. Il sentimento della bellezza in assoluto è la medicina più potente per guarire prima i pensieri e poi il corpo. Quella bellezza che Pasolini scorgeva nel miracolo della luminescenza della lucciole (“Io darei l’intera Montedison per una lucciola!” è stato l’urlo disperato e potente che ha contrassegnato l’epilogo del suo articolo). Forse è arrivato il momento di unire la scienza alla poesia, come è stato prefigurato nell’interessante libro di Prigogyne e Stengers, “La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza”(La nuova alleanza. La metamorfosi della scienza.): ritornare cioè a riscoprire la meraviglia, di memoria aristotelica (“La meraviglia è il principio della conoscenza”) o quella di Einstein (“La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Essa è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare e rimanere rapito in timorosa ammirazione, è come morto: i suoi occhi sono chiusi.”). E questa meraviglia ha rapito i tanti occhi che hanno potuto scoprire la “danza della lucciole” in un “bosco magico” a Milano (raccontata su la Repubblica del 10 giugno da Luca De Vito). E’ fondamentale ritornare a sperimentare con i propri occhi e con le proprie mani, come aveva fatto il genio di Leonardo, attraverso la sua “sperienzia”, l’esperienza (“Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienzia, che d’altrui parola; la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutti i casi allegherò”).

La civiltà contadina in Calabria

In fondo la ricerca è la tensione che scaturisce per scoprire il misterioso mondo che suscita meraviglia e bellezza. Farmaci questi, che non possono essere prodotti in un qualsiasi laboratorio, ma sono il frutto di un’elaborazione che mette insieme esperienza, amore, sentimento, ricerca, passione e indefesso lavoro per ritrovare la via del bene, del bello e della salute. Le lucciole di Pasolini hanno avuto il dono della profezia.  Come profetiche sono state le parole di Giorgio Caproni nei “Versicoli quasi ecologici”, e quelle di Giuseppe Berto, il quale aveva compreso che “la conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità dei mezzi rende più potente il disonesto ….”(Giuseppe Berto, La ricchezza della povertà, “Resto del Carlino” – 1972).