Riesumato il Patto Gentiloni nel purgatorio del Quirinale

Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Quel “matterellum” di Presidente della Repubblica ha voluto applicare la legge del contrappasso all’allegra brigata, affinché gli italiani del NO assistessero ad una sorta di espiazione-purificazione pubblica, facendo recitare la formula di giuramento sulla Costituzione, a quei ministri che 10 giorni prima avevano tentato di profanarla. Pensando che il giorno dopo ricorreva Santa Lucia, non ha voluto infierire: non li ha destinati all’Inferno, bensì al Purgatorio del Quirinale, per farli espiare in una sorta di catarsi collettiva nel nuovo anfiteatro post-moderno. Gli attori c’erano quasi tutti, mancava però l’eroe, il protagonista di questa ennesima Commedia degli equivoci all’italiana. Così il Capo dello Stato Sergio Mattarella, contravvenendo al copione del Santo Padre Pio IX che aveva imposto il non éxpedit, il “non conviene” (la formula apostolica con il quale nel 1874 vietava ai cattolici, di prendere parte alle elezioni sia come eletti che come elettori), ha invece imposto il suo expedit mondando i peccati dei penitenti nell’acqua lustrale del Quirinale.

Riesumato il vecchio Patto Gentiloni

Come per miracolo, viene riesumato il vecchio Patto Gentiloni (siglato in modo segreto con Pio X nel 1913, dall’allora Vincenzo Ottorino Gentiloni, conte marchigiano antenato dell’attuale Paolo Gentiloni, all’indomani della legge elettorale voluta da Vincenzo Giolitti per allargare la partecipazione democratica degli italiani). Adesso il carisma del nuovo accordo segreto, dopo oltre un secolo, è passato nelle mani di Mattarella. Anche il nostro Presidente della Repubblica, potenza della tradizione, prima ha confessato i peccatori e poi li ha emendati delle “P”, presumibilmente per  tollere ex oculis sordes, “togliere la viltà dagli occhi” come aveva decretato Marbodo  (1035 – 1123 ) nel Liber lapidum seu de gemmis, Libro delle pietre e delle gemme. Solo che nel Purgatorio della nuova Commedia le P sono seguiti dai numeri: P 1, P2, P3, P4, P5, P6 e il P7. La purificazione comunque si è consumata non più scalando il monte del Purgatorio, ma quello di Monte Citorio. Corsi e ricorsi storici. O ironia della sorte. O sortilegi del Quirinale dopo che l’ultimo dei Papi è stato confinato al Vaticano e il suo posto lo ha preso il Re Vittorio Emanuele II nell’unico  palazzo al mondo che dal 1583 è associato al concetto latino di Auctoritas. Solo che il Re sulla scacchiera questa volta ha operato un arroccamento per posizionarsi in difesa, dopo lo scacco delle urne referendarie, mentre la Regina ha scelto di operare un’altra ritirata strategica nelle selve dell’Appennino toscano per non rischiare lo stallo, e poi si è abbandonata al panismo nella pineta della Versilia ascoltando quei magici versi della pioggia che cadono  “su i freschi pensieri/ che l’anima schiude / novella / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude / Ermione! .

Le pedine intanto avanzano per cercare di aprire la strada alla prossima mossa del Re Giorgio e preparano l’Alfiere Alfano e il cavallo del Cavaliere inesistente e del Visconte dimezzato. Manca ancora il Barone rampante e la trilogia di Italo Calvino si sarà realizzata. Però sulla scacchiera ancora nessun scacco matto (solo Matteo), perché in campo è entrato il sacerdote SerGiorgio, che come uno psicagogo, evocando le anime dei defunti, predice il futuro del congelato Lorenzi il Magnificus, dopo aver cantato il ritornello della Canzona di Bacco: “Quant’è bella giovinezza,/che si fugge tuttavia!/chi vuol esser lieto, sia:/di doman non c’è certezza. L’incertezza, o meglio, la “sconcertezza” adesso abita indisturbata, da regina di quadri o di cuori, Palazzo Chigi, dove sembrano “echiggiare” alcuni versi di Baudelaire di una delle quattro liriche dedicate allo Spleen nei “Fiori del male”: “Son come il re di un paese piovoso / che ricco, ma impotente e, a un tempo/  giovane e tuttavia vecchissimo/ gli inchini dei maestri spregiando/ coi suoi cani si annoia come con ogni altra bestia. / Nulla può rallegrarlo, né la caccia, né il falcone,/ né il popolo morente davanti al suo balcone …” Ma sui quadrati tutti i pezzi si riposizionano affinché il Re – anche se adesso dovrà muoversi con molta cautela – possa sferrare un altro attacco alla sovranità popolare, in attesa che lo spleen si dissolva nei cieli grigi e gravidi dei sette regni del Purgatorio.  Intanto tutta la corte ha giurato e spergiurato, dopo la solenne promessa che avrebbe scelto la via dell’esilio o dell’ascesa al Monte Ventoso come ha fatto Petrarca, tra le plaghe ispirate della Provenza, mentre il pontefice e la sua corte scontavano la cattività avignonese, ascendeva per meditare e placare l’inquietudine generata dall’attaccamento ai beni mondani; e sfogliando le Confessioni di Sant’Agostino, si imbatte in quelle profetiche parole: “e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano sé stessi”.

Ma non trascuriamo – anzi – ci prendiamo molta cura del destino della seconda Repubblica e dei suoi paladini, con una domanda cruciale: “Ma anche il referendum è stato mondato?” Gioco delle parti… o solo un lazzo dentro il Palazzo.  Nell’era della post- verità i NO sono diventati SI. Virtù maieutica delle urne del Quirinale che hanno partorito il nuovo Patto Gentiloni, dopo quello del Nazzareno. Mentre la Costituzione è salva si ricostituisce il cerchio magico dei novelli Salvatori (dopo l’era Monti ) e man mano che si avvicina il giorno della nascita del Bambino, tanti pastori si recano nella stalla dopo lo stallo, a postulare genuflessi il perdono, con l’atto di omaggio, il giuramento di fedeltà e la concessione del beneficio da parte del Signore. Il Medioevo ritorna con i suoi postulati, le sue sacre rappresentazioni, i suoi riti e la sua rete a maglie sempre più ristrette per captare come un rabdomante l’origine dell’anima perduta del sentimento dei popoli nei solchi degli idiomi disseminati dal De vulgari eloquentia per fa crescere lo spirito immanente e fecondo del  genius loci.

In questo viaggio tra le segrete pagine del grande libro ispirato dai “patrii Numi”,  il Presidente  Sergio Matteralla avrà recitato più volte il primo verso de l’Infinito di Leopardi, “Sempre caro mi fu questo ermo colle”, mentre benediceva la copia-incolla del novello governo di Paolo Gentiloni; e in questo suo primo varo nel pelago del post-referendum, chissà se nelle stanze affrescate “di dolce color d’oriental zaffiro” risuonava l’esordio del primo canto del Purgatorio: “Per correr miglior acque alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro a sé mar sì crudele;/ e canterò di quel secondo regno/dove l’umano spirto si purga/ e di salire al ciel diventa degno…” con la successiva  invocatio alle Muse affinché anche la “morta poesì” della lingua del Sì “resurga”!, senza dimenticare i versi che raccontano l’episodio della  gara di canto tra Calliope e le Piche, narrata da Ovidio nelle Metamorfosi, in un’atmosfera misteriosa, esoterica  e leggendaria.  E, dulcis in fundo, anche quei versi che Dante esiliato, ha dedicato a Catone Uticense, suicida per la libertà. Siamo certi che la massima carica istituzionale del nostro Bel Paese, avrà pensato al buon Matteo, come disegno provvidenziale perché “libertà va cercando, ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta…”.  Ma ancora ci troviamo nel “mezzo del cammin”: perché ritorna come una sorta di profetica visione l’apostrofe del  sesto canto del Purgatorio, in cui il padre della favella italica, così vergava il suo codice: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello!”

Come in ogni apologo degno di questo nome, anche noi aggiungiamo la coda morale, e lo facciamo ripensando al filosofo illuminato Voltaire, il quale si è spinto a dire – udite udite! – che “Il dubbio è scomodo ma solo gli imbecilli non ne hanno”. In questa consacrazione al Quirinale del nuovo Patto Gentiloni, ai tanti dubbi si sono insinuati molti sospetti. E il popolo, anche se non è più sovrano, oltre a non essere imbecille, non vuole restare imbelle, e per non rassegnarsi alla mediocrità, continua a “coltivare  il coraggio di ribellarsi”, come aveva esortato Rita Levi Montalcini. E anche la bella favola che “ieri t’illuse” ma che oggi non ci illude più, cara Maria Elena, preferiamo restare poveri ma belli, oltre che ribelli, perché a noi, come prezioso dono di questo Natale, con la nostra Bella Costituzione, ci è stata donata anche “la ricchezza della povertà”; che tradotta nell’idioma del volgo calabro, recitava:  “Signuri, chi a lu poviru fa’ dunu di la ricchezza di la povertati”. Una canzone popolare “che un tempo cantavano le donne andando al lavoro nei campi”, scrive Giuseppe Berto, nell’incipit del noto articolo (Resto del Carlino, 1972), ammonendo che “La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo.” Noi invece, restiamo fedeli a quella “grandissima onestà e nobiltà dell’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa … povertà degli antenati che diventava ricchezza per i posteri”.  Per questo ci interroghiamo: “Fu vera gloria? Ai posteri/ l’ardua sentenza”, perché  “nui/ chiniam la fronte al Massimo/ fattor, che volle in lui/ del creator suo spirito/ più vasta orma stampar.” E infine imploriamo la Divina Provvidenza che “dalle stanche ceneri” sperda “ogni ria parola…” (A. Manzoni, Il cinque maggio).