Il Tribunale si pronuncia sulla delibera di fusione tra la Bcc di San Calogero e quella di Maierato

Maccarone

Attesa fiduciosa da parte dei componenti del nuovo comitato allargato che ha fatto ricorso, dopo il decreto di sospensione della delibera per la fusione tra la BCC di San Calogero e la BCC di Maierato, “ritenuta la sussistenza dei presupposti (di cui all’art. 2378, terzo comma del Codice di procedura civile, in ragione della non manifesta infondatezza prima facie delle ragioni azionate dagli istanti e dell’urgenza insita nella fissazione della data del 24/07/2014 per la stipula dell’atto di fusione.” Si tratta, fatto molto raro – come rileva Vincenzo Calabria, uno dei promotori che ha attaccato duramente il Consiglio di amministrazione – per un decreto di sospensiva senza sentire la controparte, in quanto il fumus giuridico è fondato per il pericolo imminente. Le motivazioni della sospensione della delibera sono state formalizzate e depositate dal Presidente del tribunale di Catanzaro (prima sezione civile) dott. Antonella E.Rizzo, il 23 luglio fissando l’udienza per il primo agosto. Il ricorso da parte di 117 soci della BCC di San Calogero contro la delibera dell’atto di fusione presa in seguito alla contestata assemblea del 22 giugno scorso, ha prodotto un primo importante risultato, per il nuovo comitato.  Il ricorso è stato inoltre notificato a tutte le parti interessate con l’atto di fusione (i componenti del futuro Consiglio di amministrazione, Collegio sindacale, Probiviri), ai notai Sapienza Comerci (San Calogero) e Giampiero Monteleone (Maierato) che hanno certificato la delibera di fusione, che alla Camera di Commercio.

Adesso bisogna attendere tra qualche giorno per capire l’esito e quali saranno le prossime mosse alla luce della decisione che verrà presa dal giudice del tribunale di Catanzaro. Il contrasto che si è generato all’interno della piccola realtà che abbraccia il territorio del Poro e che conta circa 1600 soci, potrebbe avere un valore emblematico nella dinamica o dialettica tra le differenti visioni strategiche e di metodo nel rapporto tra base sociale e rappresentanti istituzionali. Nel mezzo c’è il destino di questo istituto bancario nato nel 1977 con 120 soci fondatori, per dare risposte ad una comunità a prevalenza attività rurale e artigiana, che si è evoluto nel tempo prendendo una forma associativa più ampia e adesso rappresenta una delle poche realtà cooperative del territorio provinciale a resistere di fronte alla furia distruttiva  che si è ingenerata come un virus nel sangue delle diverse comunità locali e che ha prodotto la disgregazione sociale e civile, patologia che sembra incurabile per questa terra. Con gli ultimi risvolti dopo il duro scontro che si è consumato durante l’assemblea del 22 giugno, con una serie di questioni che sono rimaste irrisolte o senza risposte, si gioca il destino della BCC di San Calogero. La fiducia si è incrinata a distanza di un anno e mezzo dal rinnovo del Consiglio di amministrazione. Ora lo scontro si è trasferito sul tavolo dei giudici che dovranno decidere se quella assemblea deve essere annullata per le modalità con cui è stata condotta, oppure se il matrimonio tra le due consorelle può essere celebrato. In questo braccio di ferro tra il Consiglio di amministrazione che ha fortemente voluto il progetto di fusione e la parte dei soci che ha contestato e contrastato questa decisione, si incrociano e si intrecciano rapporti e relazioni che vanno a toccare sfere private. Spicca in particolare la posizione sia dell’ex presidente della BCC di San Calogero Pino Grillo e quella dell’ex vicepresidente Gaudenzio Stagno che si è opposto con grande determinazione al progetto di fusione e che nei suoi diversi interventi ha sottolineato “il salto nel buio” a cui si andava incontro, denunciando più volte l’avventatezza del progetto di fusione ma anche l’autoritarismo assunto da parte del Consiglio di Amministrazione, come si evince anche dalle sue ultime dichiarazioni a caldo. appena ricevuto la notizia del decreto di sospensione della delibera: “Ancora l’Italia non è diventata una repubblica delle banane. Per fortuna esiste ancora una dignità umana e “cooperativa” che non può essere calpestata da dittatori di turno che non hanno a cuore il territorio dove vivono e operano. L’ostentata sicurezza dei vertici aziendali più volte dichiarata alla stampa, è stata demolita dalla giustizia rapida ed efficace”. Ma c’è anche il caso del presidente del comitato “No fusione” Michele Maccarone, espulso da socio (stessa sorte alla sua azienda) per le sue posizioni “poco ortodosse” secondo il Cda, ma poi riammesso dopo il ricorso di quest’ultimo a maggio, partecipando attivamente all’assemblea per l’approvazione del bilancio e prendendo una posizione personale diversa dagli altri componenti del comitato che hanno deciso di astenersi. La sua riammissione è stato un primo segnale su cui il Consiglio di Amministrazione avrebbe dovuto riflettere per come stava improntando la propria linea nei confronti del dissenso; linea che poi è stata mantenuta nel giorno cruciale dell’assemblea per decidere la fusione con Maierato, come trapela nelle parole dello stesso Maccarone: “Questa presidenza non ha dialogato con i soci: ci ha sempre ignorati e continua a ignorarci. Arrivati a questo punto – afferma Maccarone – chiedo le dimissioni del Consiglio e del Presidente”.

 Come si evince dal documento stilato dai ricorrenti (si tratta di un gruppo allargato a soci che non facevano parte del precedente comitato, addirittura soci che non hanno partecipato al voto del 22 giugno) e formalizzato dall’avvocato Aldo Assisi (foro di Vibo Valentia), i punti su cui hanno chiesto l’annullamento sono relativi sia alla gestione dell’assemblea che alle modalità con cui sono state espletate le votazioni. In primo luogo l’assemblea convocata per le 9.00 inizia dopo le 14.00 per via della registrazione di circa 800 soci; mentre la sala in cui si è riunita l’assemblea poteva ospitare 400 persone; risultava quindi essere assolutamente inidonea. Altro punto contestato, le modalità della votazione. La presidenza imponeva la votazione palese per alzata di mano con la trascrizione dei soci che si sarebbero espressi per il NO, rigettando la richiesta di voto a scrutinio segreto o parzialmente segreto. Dopo una prima votazione in modo palese e per alzata di mano (constatato la consistenza inaspettata dei voti contrari) la Presidenza decideva di passare ad una seconda votazione tramite l’immissione in due distinte urne (una con foglio a4  con scritta SI e l’altra col NO) senza considerare che, nel frattempo, molti dei soci presenti alla prima votazione avevano abbandonato la sala assembleare pensando di aver completato ed espresso il loro diritto di voto. Ma anche gli stessi conteggi effettuati non possono essere considerati validi in quanto hanno depositato nell’urna del SI più deleghe di quanto previsto nello statuto. Altro punto controverso gli avvisi con date discordanti, salvo poi inviare qualche giorno prima un ulteriore avviso di errata corrige. Tuttavia lo stesso non è stato inviato a tutti e tanti sono i soci che non hanno ricevuta la lettera con la correzione della prima data (il 25 giugno). In sintesi i punti contestati nel ricorso contro la delibera dell’atto di fusione: a)     la seconda votazione è illegittima in quanto non ha tenuto conto della prima votazione, in ogni caso in modo difforme rispetto a quanto previsto dallo statuto (art. 28); b)     Il presidente dell’Assemblea, Dr. Barone Antonino, anche se più volte e da più parti ufficialmente invitato, s’è rifiutato di porre ai voti dell’Assemblea, comunque sovrana, le modalità alternative di voto (segreto, parzialmente segreto); c)     la stessa è avvenuta in un momento di concitazione in cui i lavori non erano più diretti dalla persona deputata (il Presidente) ma dal notaio (lo stesso non si è limitato a verbalizzare i lavori ma si è sostituito alla presidenza ed ai poteri dell’assemblea); d)     nella seconda votazione non vi è stata alcuna identificazione delle persone che immettevano i tesserini nelle urne (si precisa che all’inizio vi era la sola urna del “si”), né se gli stessi erano delegati; e)     dopo la prima votazione e i momenti di confusione, tantissimi soci, dichiarandolo fra l’altro alla dott.ssa Sapienza Comerci, abbandonavano i lavori in quanto era ormai venuta meno la conduzione democratica dell’assemblea (addirittura rischio per la propria incolumità);

f)      a seguito dell’abbandono dei lavori diverse tessere venivano lasciate incustodite, molti votavano con più tessere rispetto al massimo delle deleghe consentite.