A New York e Princeton con L’Aquila nel cuore
C’è un antico rapporto d’affezione, quasi d’amore, tra New York e l’Italia. Gli italiani, sebbene comunità più recente rispetto ad altre che l’originaria città costituirono, principalmente olandesi e inglesi che furono i primi colonizzatori, hanno sempre avuto un ruolo importante. Ne hanno connotato il carattere, il gusto, insomma quell’italian way of life che tanto intriga gli americani. E si nota. Senza ulteriormente parlare del Columbus Day, quando l’italianità si manifesta in tutta la sua luminosità scenica, talvolta pure con qualche caduta kitsch, ma nel complesso la manifestazione è davvero gradevole e significativa nell’esprimere l’orgoglio italiano. Peraltro, con tutto il corollario d’attenzione verso la nostra cultura che si manifesta con un mese di ottobre denso d’eventi dedicati all’Italia, quest’anno estesosi lungo l’intero 2013 per via della celebrazione dell’Anno della Cultura italiana negli Stati Uniti. Si diceva delle origini di quella che sarebbe poi diventata New York e il suo cuore pulsante, Manhattan. Un’isola dove vivevano gli indiani nativi, cacciatori e pescatori, delimitata dal corso del fiume che avrebbe poi preso il nome di chi per primo nel 1609 lo risalì, l’esploratore inglese Henry Hudson, e dall’altro lato dall’East River. Ma già dal 1524 il navigatore fiorentino Giovanni da Verrazzano era approdato a quello che sarebbe diventato il porto della città, mettendo un’impronta italiana sulla nuova terra, dove novant’anni dopo si sarebbero insediati gli olandesi al comando del navigatore Adraien Block, fondandovi il forte e un primo nucleo abitato, più o meno nell’attuale Battery Park, dandogli il nome di New Amsterdam. Lì impiantarono un mercato sempre più fiorente di pelli di castoro, nel senso che le acquistavano dagli indiani per inviarle in Olanda dove venivano usate per produrre ottimi cappelli di feltro.
Lì, a New Amsterdam, nel 1635 andò anche a risiedere il marinaio veneziano Pietro Cesare Alberti, il primo italiano. La città andò avanti quasi in tranquillità, fin quando il governatore Peter Stuyvesant nel 1657 fece sapere ai quaccheri inglesi, nel frattempo arrivati, che non erano molto graditi. Tuttavia, la temuta invasione inglese arrivò nel 1664, dal mare, quando il colonnello Richard Nicolls, per conto del duca di York, approdò nell’odierna Brooklyn, dislocando le sue navi attorno all’isola di Manhattan, costringendo Stuyvesant, che pure tentò una fiera resistenza, alla resa. Nicolls divenne governatore della città, cambiandone il nome in New York, in omaggio al duca James di York, fratello del re d’Inghilterra, che aveva promosso e finanziato la spedizione. Da quel momento il nome della città resterà l’attuale, quantunque alterne sarebbero state le vicende storiche successive che, in epoche diverse, dettero vita a quel melting pot di popoli che avrebbe avuto il suo apice nella seconda metà dell’Ottocento con le grandi migrazioni. Un forte rilievo, nell’immigrazione dal vecchio mondo, avrebbe avuto il fenomeno migratorio italiano su New York, sul quale esiste attualmente una documentata letteratura che ha potuto attingere copiosamente dagli archivi di Ellis Island, ora diventato un importante Museo e luogo della memoria.
Dunque, quella italiana, una presenza di sicuro rilievo, con tante figure di spicco nella città che in diversi campi hanno segnato la storia. Mi limito qui a ricordare solo i sindaci di New York, d’origine italiana, che hanno lasciato una forte impronta: come Fiorello La Guardia, sindaco dal 1933 al 1945, Vincent Impillitteri (1950-1953) e Rudolph Giuliani (1994-2001). Una nobile tradizione che ora può essere rinverdita, se il candidato democratico alle prossime elezioni, Bill De Blasio, conquisterà lo scranno più alto della Grande Mela. Ma a costoro andrebbero aggiunti i Governatori dello Stato di New York e i parlamentari eletti al Senato e al Congresso. New York è oggi una città di quasi 8.400.000 abitanti, la più popolosa degli Stati Uniti, uno dei centri economici e culturali più rilevanti ed influenti del continente americano e dell’intero pianeta. Sorge su un’area di circa 785 kmq, sulla baia omonima, parte sulla terraferma e in parte su isole. E’ divisa in cinque distretti amministrativi (boroughs): Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn e Staten Island. L’area metropolitana di New York si trova al confine di tre Stati della Confederazione: New York, Connecticut e New Jersey. L’intero agglomerato urbano conta oltre 18 milioni d’abitanti, mentre quello metropolitano supera di poco i 23 milioni. Secondo le stime, New York si compete con Città del Messico e San Paolo del Brasile il primato del continente americano, mentre è tra le prime sei aree più popolate del mondo.
Questa in pillole è New York, città di grandi suggestioni, con una vita culturale straordinaria che non trova pari al mondo. Una città che nel suo cuore pulsante, Manhattan, t’intriga minuto per minuto, rivelando un’infinità di stimoli cui si fatica a star dietro, se non si pianificano razionalmente priorità e tempi. Aiutano, e molto, le condizioni del tempo, come in queste stupende giornate di metà ottobre, assolate o appena velate di nuvole poco insidiose o di leggera foschia. Una giornata di sole, infatti, è martedì 15 ottobre, giorno successivo al Columbus Day. Inviterebbe a passeggiare in Central Park, paradiso di verde e frescura per quasi 340 ettari, interpuntato di laghetti e d’una grande oasi d’acqua intitolata a Jacqueline Kennedy. Venti milioni di persone l’anno, si dice, lo frequentino facendo varie attività sportive, dallo jogging alla bici, o anche semplicemente prendendo il sole sui prati che, rasati con cura, espongono il verde smeraldo che, specialmente dall’alto, s’ammira in tutto il suo splendore. Ma ora non è più tempo di divagare, il nostro impegno ci porta nel Village, a Casa Zerilli Marimò, la sede del dipartimento di Studi italiani della New York University, la più grande università privata d’America. Con Mario Fratti vi andiamo in metropolitana, mezzo efficiente per muoversi a New York, al pari dei taxi. Si scende fino a Union Square, di lì ci sono solo due isolati per raggiungere la nostra meta. Il fine settimana festivo, prolungato dal Columbus Day, non ci ha consentito di programmare un incontro con il direttore di Casa Zerilli Marimò, il prof. Stefano Albertini, persona di grande affabilità che conobbi due anni, in ottobre, fa quando Letizia Airos e Mario Fratti presentarono il mio libro “L’Aquila nel mondo” nella Biblioteca della Casa.
Porto con me il documento di candidatura dell’Aquila a Capitale europea della Cultura 2019. Di questo vorrei parlare con Albertini e di un altro importante evento, già fissato per il 25 aprile 2014, festa della Liberazione, un colloquio sulla Resistenza con le spigolature suggerite dal romanzo di Laudomia Bonanni “La Rappresaglia”, recentemente tradotto in inglese da Susan Stewart e Sara Teardo, docenti all’Università di Princeton. L’evento è stato richiesto e promosso da Lucilla Sergiacomo, studiosa dell’opera della Bonanni, e da Gianfranco Giustizieri, curatore insigne degli archivi bonanniani e uno dei massimi studiosi della grande scrittrice aquilana. Mario Fratti, che a New York è un punto di riferimento imprescindibile, è ben lieto di mettere in campo tutto il suo prestigio e il mondo delle sue relazioni per contribuire al miglior esito dell’evento. Troviamo i collaboratori del prof. Albertini, egli impegnato fuori New York per qualche giorno. Ho preparato un appunto dettagliato, per chiedere adesioni e plauso alla candidatura dell’Aquila a Capitale della Cultura, che unitamente al mio ultimo libro “L’Altra Italia” – un capitolo rendiconta la presentazione del volume di due anni fa – lascio in plico alle cure dei collaboratori. Contatterò il direttore al suo rientro. Mario, per parte sua, concorderà con il prof. Albertini un incontro per definire al meglio l’evento sull’opera bonanniana, cui parteciperanno dall’Abruzzo anche studiosi dell’Associazione internazionale “Laudomia Bonanni”. E’ ora di pranzo. La sorte ci regala l’impatto con un ristorante italiano “Vapiano”, specialità pasta e pizza. Sembra un punto d’una catena. Ma la pasta ci titilla: spaghetti alla carbonara per me, penne al pomodoro e basilico per Mario. Piatti cucinatici sotto i nostri occhi da un ragazzo cui chiedo la nazionalità, magari è oriundo italiano, penso. Irlandese, invece. E tuttavia la pasta è buona.
Nel pomeriggio siamo a casa Fratti, alle cinque in punto è programmata un’intervista per Radio ICN, partner di America Oggi, molto seguita nell’East Coast. La condurrà Daniela Celella, brillante giornalista di quella testata radiofonica. In attesa del collegamento, contatto un caro amico aquilano, Corrado Iovenitti, che vive a Larchmont, nel Westchester. Purtroppo questa volta gli impegni non conciliano qualche ora da passare insieme, ci resta di sentirci solo per telefono e almeno così facciamo una rimpatriata. Una bella intervista di un quarto d’ora rilascio a Daniela Celella, interessata a conoscere lo stato della ricostruzione dell’Aquila, la mia missione a New York, le mie impressioni sul Columbus Day, le attività dell’ANFE negli Stati Uniti, come nascono i miei libri ed altro ancora. L’intervista andrà in onda venerdì sera, anche in streaming. Daniela l’annuncia quasi immediatamente su Facebook, ai suoi contatti. Ne sembra soddisfatta, dal tenore dell’invito all’ascolto. Mi ringrazia coram populo, almeno quello del social network. Siamo a sera. Mario Fratti ha un grande interesse anche per il cinema. Dei film segue le recensioni, è davvero un fenomeno per i suoi poliedrici interessi culturali. Andiamo sulla Broadway, seguendo il suo consiglio, insieme alla drammaturga Argia Coppola, dottoranda alla Columbia University, in una multisala vicino al Lincoln Center. Danno un bel film arabo, “La bicicletta verde” – questo il titolo italiano – presentato al festival di Venezia. Lo vediamo in lingua originale, sottotitoli in inglese. E’ la storia di una ragazza che rompe un tabù, quello che vieta alle ragazze arabe di montare una bicicletta. Un vero evento, non solo per il bel film, ma perché ambientato e girato in Arabia, a Riyad, scritto e diretto da una donna saudita e interpretato da attrici saudite, Reem Abdullah, nel ruolo della madre, e l’esordiente Waad Mohammed in quella della figlia Wadjda. Davvero una bella pellicola, anche per il valore sociale e culturale della narrazione. Il drammaturgo aquilano ha colto ancora nel segno e non finisce mai di sorprendere.
Il 16 ottobre è giornata d’escursione, per una visita all’Università di Princeton. Avevo promesso a Sara Teardo, docente a contratto dal 2004 in quel prestigioso ateneo, che sarei andato a trovarla a Princeton, allorché venne a Pescara, nel giugno scorso, per presentare, insieme a Lucilla Sergiacomo, Gianfranco Giustizieri, Maria Rosaria La Morgia, Nicola Mattoscio, il volume “The Reprisal” di Laudomia Bonanni, da lei tradotto con Susan Stewart e pubblicato dall’University Chicago Press. Partiamo alle 10 da Port Authority, autobus Coach Usa, Mario Fratti ed io. Il lungo autobus suburbano scende dal terminal verso l’Hudson, imboccando il Lincoln Tunnel che rapidamente porta sull’altra riva del fiume, nel New Jersey. Scorre rapido sull’highway, supera l’aeroporto di Newark inoltrandosi con velocità costante fino a New Brunswick. Qui lascia l’autostrada per un’arteria di rango minore, facendo servizio locale mentre prende e lascia scendere passeggeri. Così fino a Princeton, cittadina immersa nel verde, alberi ad alto fusto – olmi, aceri, platani, querce e qualche abete – che quasi nascondono le case linde e graziose in fila lungo la via che conduce in centro. Ci fermiamo in Palmer Square, nei pressi dell’ateneo. Sono le 11 e mezza, conviene desinare, prima dell’incontro fissato per l’una e mezza del pomeriggio, nella piazza antistante la Library Firestone. Fino a quell’ora Sara è impegnata nell’insegnamento. Si sceglie un ristorantino proprio nei pressi del cancello d’ingresso all’università. E’ greco, indubbiamente, dal nome “Zorba’s”. Pulito ed ordinato, rivela una cucina di buon livello e di costo contenuto.
Entriamo nel magnifico parco dell’ateneo. Alberi imponenti raccontano la loro storia secolare. L’università, una delle più prestigiose del mondo, è anche una delle più antiche degli States, datando la sua nascita nel 1746, come documenta un’iscrizione circolare a pavimento, posata nel 1996 nel 250° anniversario dalla fondazione. Magnifici gli edifici, tutti stile gotico, old America. Alcuni sono in pietra rosa, massimo due piani, con magnifiche finestre a bovindo. Altri fabbricati sono in pietra bianca. Uno mi colpisce, in lontananza, mi sembra una chiesa. Tale infatti è. Sul portale l’iscrizione “Dei sub numine viget”, interno austero quale lo stile delle chiese protestanti, belle vetrate con intense tonalità giallo, rosso e blu. Accanto alla chiesa la magnifica costruzione della Library, ampia facciata in pietra bianca finemente lavorata, con torre a destra. Aspettiamo l’orario dell’appuntamento, sui sedili in granito che cerchiano l’agorà. Di fronte alla compatta palazzina in pietra rosa, con archivolto ogivale, il monumento bronzeo dedicato a John Witherspoon (1724-1794), sesto rettore dell’università, uno dei firmatari della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. Mentre curiosiamo sulle magnifiche architetture del Campus, arriva Sara Teardo. Un forte abbraccio tra noi e la presentazione di Mario Fratti, preceduta dalla sua fama. Sara si scusa per l’assenza di Susan Stewart, fuori per un anno sabbatico, ora in California, a Stanford, altro ateneo prestigiosissimo dove sta conducendo delle ricerche.
Dice Sara che suo tramite Susan ci fa pervenire il suo saluto. Sara Teardo è veneziana. Giunse negli States per il suo dottorato, conseguito nel New Jersey. Assunta come Lecturer a contratto dalla Princeton University, vi continua ad insegnare sentendosi molto a suo agio in un ateneo dove gli studenti trovano un ambiente sereno ed efficiente, di grande tradizione e che invoglia allo studio. Princeton è un’isola di tranquillità, la cittadina non arriva a 15 mila abitanti, un piccolo borgo ridente che però offre tutti i servizi alla popolazione studentesca. Andiamo a prendere un caffè. Sara ci porta in un bel locale italiano, D’Angelo, che oltre al bar offre prodotti di qualità della gastronomia italiana. Salutiamo la proprietaria, di origine siciliana, molto interessata al teatro. Fratti trova quanto di meglio possa occuparlo. Con Sara parliamo dell’evento di aprile a New York, a Casa Zerilli Marimò. Le suggerisco un’opportunità, in parallelo all’evento newyorkese. Un paio di giorni dopo, sarebbe opportuna una presentazione proprio nella sua università, dovendosi proprio all’impegno di due docenti dell’Università del Princeton la traduzione del romanzo della Bonanni. E’ una scrittrice che l’ha molto conquistata, anche emotivamente, rivela Sara, specie quando è venuta per un mese in Abruzzo e all’Aquila per conoscere direttamente luoghi, ambienti e contesti della narrativa bonanniana, in particolare quelli del romanzo “La Rappresaglia”. Una visita che le ha consentito di meglio conoscere la Bonanni, ma sopra tutto la terra d’Abruzzo e L’Aquila, di cui si è innamorata.
L’evento potrebbe essere patrocinato dalla Dorothea House, sede del dipartimento di Studi italiani. Si occuperà Mario Fratti d’interessare il prof. Pietro Frassica, già direttore del dipartimento ed insigne docente di letteratura italiana. Parliamo poi della candidatura dell’Aquila a Capitale della Cultura. Sara esprime immediatamente il suo interesse e la sua adesione, che presto comunicherà al Comitato promotore ed al Sindaco dell’Aquila. Poi parliamo di altri argomenti culturali. Sara ha una vivacità intellettuale notevole, ma sopra tutto dimostra un feeling straordinario per fatti ed eventi che riguardano L’Aquila. E’ una donna di forte sensibilità, con la quale è piacevole conversare, anche per l’ironia, che sa apprezzare e usare con garbo. La sua grazia conquista, è davvero una bella persona. Stiamo insieme a colloquio solo per un’ora e mezza, ma l’incontro è assai fruttuoso di prospettive e ricco di umanità. Alle tre del pomeriggio dobbiamo riprendere la via del ritorno, alle sei c’è un appuntamento culturale in Consolato, con la presentazione di un volume sull’emigrazione italiana in America. Ci salutiamo, Sara resta con il braccio alzato fin quando l’autobus non resta fuori dalla sua vista. Ci lasciamo Princeton alle spalle. Si guadagna l’arrivo a New York passando sotto l’Hudson attraverso il tunnel Holland. E’ l’ora di punta, l’autobus sfila nei pressi di Ground Zero, dove il nuovo grattacielo è completato, almeno così sembra: un segno della rinascita sulle macerie della tragedia delle Torri Gemelle. West Street è uno stillicidio di soste, per il traffico.
Più di mezz’ora di ritardo, quando il bus arriva a Port Authority. Subito un taxi verso Park Avenue, dove arriviamo giusto in orario. Il prof. Mario Mignone coordina, con Ralph Eubanks, la presentazione di un bel volume sull’emigrazione italiana in America, da Colombo al Novecento, “Explorers Emigrants Citizens”, curato da Paolo Battaglia e Linda Barrett Osborne. Il Console generale, Natalia Quintavalle, apre l’incontro con il suo saluto, mentre la sua vice Lucia Pasqualini introduce i lavori. Il prof. Mignone, direttore del Centro Studi italiani alla Stony Brook University, è un perfetto anfitrione della serata. Sala piena, posti in piedi. L’incontro si chiude alle otto e mezza. A fine presentazione saluto Marzia Bortolin, dinamica p.r. dell’Enit a New York, e Salvatore Cottone, infaticabile promotore di eventi, siciliano di travolgente simpatia con il quale ho condiviso un buon tratto della Parata del Columbus Day, alla sequela del Governatore di New York, Andrew Cuomo. Non mancherà occasione per rivederci.
Infine l’incontro con il prof. Mignone. Posso finalmente consegnargli il progetto di candidatura dell’Aquila a Capitale della Cultura. Promette che lo leggerà con attenzione, per esprimere una solidale iniziativa di sostegno. Mi rivolge anche un invito, Mario Fratti garante, perché vada a parlare dell’Aquila nella sua università, portando il mio nuovo libro, in corso di pubblicazione. E’ già quasi un impegno da osservare. La parola data andrà rispettata. Anche questa, dunque, una giornata piena. Giovedì 17 è l’ultimo giorno. Si scrivono alcune email di saluto, si chiama a telefono per ringraziare, si preparano i bagagli. A pranzo con Fratti. Dieci giorni abbiamo passato insieme senza avvertire differenze d’età. Mario ti fa sentire un ragazzo come egli lo è, benché ottuagenario. Un camminatore impenitente, per le vie di New York. Alle tre del pomeriggio un lungo abbraccio tra noi, con l’impegno di rivederci l’anno prossimo. Mentre l’America tira un sospiro di sollievo esorcizzando il leviatano dello shutdown evitato in extremis, facendo così tornare il respiro ad paese paralizzato e all’economia mondiale, riprendo la via del ritorno andando incontro al volo DL 082 Delta, in partenza alle 19:38 dal Kennedy Airport per Nizza, e da lì per Roma. Rientrerò all’Aquila nella serata di venerdì, a Dio piacendo.
Goffredo Palmerini