Poesia per l’estate, Ofelia Giudicissi e i Momenti di un profilo meridionale

 

    Rileggo una raccolta di poesie arricchite da una serie di fotografie, proprio un album di famiglia, pubblicato nel 1996 dall’Editore Parretti di Firenze e fortemente voluto dal marito e dai figli per ricordarla a quindici anni dalla scomparsa.. Sono le poesie che racchiudono i “Momenti di un profilo meridionale” di Ofelia Giudicissi di Pallagorio dove è nata nel 1934 e scomparsa il 13 settembre del 1981. Si può definire questo libro un romanzo d’amore intrecciato in un paese del Sud, Pallagorio appunto, al quale già alcuni anni prima aveva dedicato la sua prima raccolta di poesie, un paese che fa da sfondo ad una storia romantica dove i personaggi vivono giorni sereni in un mondo che non è quello deplorato e segnalato da tanta stampa. Qui si incontrano due mondi: quello strettamente paesano genuino e passionale e quello degli adulti in mezzo alla città tra ombre che tradiscono sempre.  Non manca nell’attraversare queste due realtà una sorta di tensione sensoriale e la folla delle emozioni, i ricordi, le sensazioni, anche i perplessi momenti dell’angoscia, che nel flusso instabile del sentire e del registrare sull’essenza dell’anima, vengono come trascritti quali elementi di una poetica del nostro tempo. Sono poesie che assieme alle fotografie costituiscono un bel romanzo che Ofelia Giudicissi ci ha lasciato con quella semplicità che caratterizza la sua scrittura e che testimonia la vocazione di una pagina semplice, non fortemente forbita, capace di penetrare nel cuore di chi legge. Leggiamo ne I dieci fratelli laddove “…Dieci in cerchio / e la piccola madre in mezzo / braccia incrociate / e teste chine per sorreggere / la fame…Penetrava / da ogni fessura del nostro / corpo freddo; non gelava / la chitarra però le sue corde / né la dolce ironia/ companatico di speranza./Noi dieci in fila /mano nella mano /…Noi dieci, come armoniosa / carovana d’amore con i figli / dietro dall’alba al tramonto / senza lamento;/ ‘segreto’ per chi / non sa quante solette / di cartone nelle scarpe / lucide, quando arrivammo in città / per prepararci a vivere / dal ridente paese del Sud.” E di contro? Ecco in Firenze 1947dove la tenera Ofelia mestamente osserva e scrive: “Molto mi è consentito / in tanta musica./ …In un angolo / del terrazzo assolato / ascolto e penso a lei./ ‘Barcarola’, ‘Serenata araba’./ Suonano ‘Per Elisa’,/ Ma io desidero lei./ Cosa ha lei, /la mia piccola terra / lontana?”. Ed ancora, leggendo altre liriche, quali Estate 1979, Ballata del recuperare un senso, Ballata di novembre, Il dolore del sud, Cona ed altre, ci si imbatte in una pagina con sospiri, incisivi come fendenti, colate di sogno e abnegazione, sincere ricognizioni dell’anima: versi che tracciano intimi percorsi, spogli e ricchi nella loro mirabile sobrietà di forte valenze affettive. Non c’è enfasi, non ci sono affettivazioni superflue, ed il candore dell’amore filiale, materno e di premurosa sposa emerge con una espressa senza richiami. Ed Ofelia Giudicissi canta: “Vedi amore / un cielo assaporato / di neve /…Amore / è un disperato ricordo/ le nostre bocche / impregnate di pioggia;/ i baci scivolavano / nella morbidezza dell’addio./…Amami gravemente / amami: / seppure la stella di Venere / foraverunt manus mea / conficcata all’ultima foglia /di limone /langue /ed pedus mea / seppure i  treni al quarto d’ora / dolcemente passano / enumeraverunt omnia ossa mea / amami. Beh ci troviamo, di sicuro, davanti ad una poesia con un prodigio di compiuta volontà  e sincera vocazione ad un’arte non facile. Come l’amore che canta e sublima con un linguaggio suadente e velato, incognita di sorrisi nello spazio ineluttabile dei sentimenti. E poi, c’è nella Giudicissi rabbia, delicata rabbia per un mondo a lei familiare, a lei molto intimo, quello arbreshe, che va scomparendo, abbandonato dal dileggio e dalla cupidigia dell’effimero modernismo, rabbia che manifesta in Sinfonia di un popolo morente laddove la sofferenza è forte perché “ Dire dashhiuria / che significa amore/ e dire meme / che sta per madre/ che senso ha ora che / nessuno intende più la mia lingua? /…Poiché le parole rimbalzano / a noi stessi e nessuno ha mostrato / rispetto per esse…” Ed ancora rabbia e dolcezza ed affettuosa memoria in Mio padre e il socialismo laddove ricorda che “Mio padre/ non ha mai detto: ‘quello è rosso, è nero è bianco’; / ha solo detto / ‘quello è mio fratello’/…Quando è morto mio padre / c’erano a salutarlo i rossi / i neri e i bianchi.” Sono arrivato alla fine del mio viaggio, e sì perché tutto l’itinerario poetico di Ofelia Giudicissi è la cronaca di un viaggio. È la testimonianza di una vita, una breve vita, speso al servizio dell’umanità, attraverso una sorta di volontariato raro ad incontrarsi, ma tenacemente volto a tendere le mani verso chi ha bisogno di sostegni materiali e spirituali. Insomma un viaggio accompagnato da visioni di una tenera donna prima, di una poetessa poi, che attraverso la sua voce confida sensazioni ed emozioni di un’anima assetata di giustizia, di luce e di bene.