Ventinove marzo del Settantatre del cutrese Salvatore Dattilo. È poesia essenziale ed educativa che non vuol far dimenticare chi si è stati

  Breve silloge stampata in proprio per pochi intimi, amanti della poesia e “meritevoli di tal dono” come lo stesso poeta di Cutro mi ha confidato. Una raccolta di brevi riflessioni in versi, quartine e sestina, che prende il titolo di “Ventinove marzo del Settantatre” di Salvatore Dattilo e che meriterebbe maggior fortuna editoriale una volta integrata da altre liriche e raccolte che pur sono custodite gelosamente nel cassetto. Il poeta dà il titolo e l’incipt alle sue confessioni con una data, timbro e sigillo di tutto il percorso poetico. Da questo 29 marzo 1973, quando “si spense il focolar quella mattina”, si avvia e riavvia la pellicola della vita dell’amico Salvatore, della sua famiglia, del suo antico borgo, Cutro, ormai svuotato da continuo ed inarrestabile esodo verso lidi più benigni, ricchi e laboriosi. Cominciamo a leggere insieme. “Ventinove marzo del settantantre/ quanto tempo è passato! Sembra ieri/ che ci dicesti ‘nulla vi ho lasciato,/ ma solo Dio sa quanto vi ho amato’.// Nella piccola casa contadina/ tutti stretti a te eravamo intorno;/ nell’ambiente freddo e disadorno/ si spense il focolar quella mattina.” Già da queste due prime quartine si ricava una poesia alta perché pregna di dolore e sofferenza; poesia coinvolgente, aldilà della semplicità espressiva senza contorsioni letterarie. Meglio così! Il poeta  vuole e deve esprimersi; vuole e deve comunicare; ci sia consentito: deve sfogarsi. E la poesia, quella vera, quella che emana dalla nostalgia e dal dolore per i custodi della gioia e semplicità familiare che non ci sono più, non ha bisogno di ottemperare a regole letterarie. Non sarebbe poesia. E Dattilo scrive come in un “suo” diario di bordo che come scrigno vuole conservare memoria, tempo, spazio, emozioni, cose, fatti, persone, strade e vicoli che un tempo son stati croce e delizia. Continuando a leggere, le emozioni son forti nel ricordare a sé stesso e agli altri. “E la pioggia batteva sulla gronda/ con ritmo grave, lento, persistente,/ e batteva pure il cuore, e nella mente/ già si sentiva tumultuare l’onda// della vita che avanza e non si arresta,/ della vita che talora manifesta/ l’inganno amaro di chi crede e spera,/ di viver sicuro e tardi fino a sera…// Ecco, da queste altre due quartine, e da altre ancora che andremo a leggere, scaturisce, se pur velatamente una certa opposizione ad una realtà che non si vorrebbe mai aver di fronte; sembra un pessimismo accennato per l’amara realtà che ti ruba qualcosa e qualcuno, che ti priva della sua essenza., una certa insoddisfazione che si risolve in inviti concreti per ritrovare i valori della vita e dello spirito. Come quando scrive: “Perché mettere amore e tanta cura/ per chi viene al mondo, se sol dolore/ accompagna poi l’uomo, e nel suo cuore/ altra strada non c’è se non la dura/ salita che volge al vago, incerta?”. Quindi modi poetici non declamatori, moraleggianti e sottilmente malinconici che investono il nostro tempo, per riflessioni  segrete e governate da commossa intelligenza che fa scrivere versi secchi e versi comunicanti e comunque sinceri, chiari e mai contorti e che insieme sono pudore  e ricerca. Ecco: “ Ventinove marzo del settantatre,/ stavamo tutti uniti quella sera,/ e muta recitava una preghiera/ nostra madre, nostra madre ch’or non c’è.” Più avanti leggiamo versi che si confermano semplici ed essenziali e nel contempo di sconcertante profondità. C’è dentro l’anima del pittore che coglie particolari da acquarello in uno spazio, il paese natio, che è cambiato e tanto ed “ha perduto quel volto contadino,/ e le cantine con l’odor di vino/ sono un vecchio ricordo del passato.// Penso agli inverni di molti anni addietro,/ seduti accanto al fuoco: il suo tepore,/ si spandea per casa […] Pina, con l’ago al suo ricamo intenta […] La mamma seduta al tavolo vicino/ rammendava…//. Espressioni di profondità disarmante del poeta cutrese, ma che tal non ama definirsi, che costituiscono poesia e basta, senza attributi di sorta, con la sua semplicità e grande forza di penetrazione dell’animo umano. È poesia grande perché educativa che non vuol far dimenticare chi si è stati. C’è il non tanto velato rimprovero sull’indifferenza che proviene dal nostro strano quotidiano; c’è calda interiorità di un animo ricchissimo che trova nell’immediatezza dell’espressione un mezzo naturale per traboccare spontaneo un radicale bisogno di amore e di non dimenticare “i luoghi amati e le persone care” perché l’amico Dattilo scrive di sé “vivo qui solo, tra collina e mare,/ e pieno ho il cuor di nostalgia…Cutrese”. È nostalgia pura, nostalgia per un tempo che fu e che traduce i moti dell’anima con testimonianze positive finalizzate alla realizzazione di una realtà migliore e più pulita, di un mondo poggiato su saldi principi morali, perché, conclude Dattilo, “il tempo passa e…cambiano le forme,/ i desideri e le malinconie./ Solo i ricordi aleggiano si l’orme/ del passato, percorrono le vie// dimenticate, per rifar la storia,/ per poter rivivere nella memoria/ gioie e dolori, e custodir nei petti,/ della Madre e del Padre i sacri affetti”.