Dan Fante torna all’Aquila per una forte testimonianza d’amore

di Goffredo Palmerini

Fermi ai Quattro Cantoni, a mezzogiorno, mentre il sole d’un cielo azzurro e terso picchiava forte sull’Aquila. Là, dove il cardo e il decumano marcano da secoli il principale incrocio della città ma anche il consueto punto d’incontro degli aquilani. Non è mancato all’appuntamento il testimonial d’eccezione delle numerose iniziative che l’Associazione “Jemo ‘nnanzi” da quel tragico 6 aprile 2009 porta avanti nella città devastata dal terremoto. Questa volta si tratta d’un murale nel cuore della città, al quale Dan Fante, figlio del mitico scrittore italo-americano John Fante e scrittore di successo egli stesso, darà il primo spruzzo di colore. Dan è arrivato da Torricella Peligna, il magnifico borgo sotto la Majella che diede i natali a suo nonno Nicola (Nick) e dove ogni anno d’agosto si tiene il Festival letterario “Il Dio di mio padre” dedicato a John Fante, giunto alla sesta edizione. Un evento sempre più prestigioso, come si dirà. Più volte Dan, che ama profondamente l’Abruzzo, la terra degli avi, vi ha partecipato come ospite d’onore. Quest’anno è venuto al Festival insieme a Victoria, sua sorella, terza dei quattro figli di John e Joyce Smart: Nick, il primogenito, morto investito da una macchina, Dan, appunto Victoria e infine James. Cesare Ianni, presidente del Gruppo d’azione civica “Jemo ‘nnanzi”, nei giorni scorsi aveva così annunciato la visita dello scrittore: “Abbiamo invitato Dan Fante perché possa rendersi conto di persona della situazione del centro storico della città dell’Aquila, l’acropoli della nostra identità”. Corso Vittorio Emanuele è pieno di turisti, nonostante tutto. Quello che resta dell’Aquila, almeno lungo l’asse che dalla grande fontana dello scultore Nicola D’Antino scende fino alla Villa comunale, è un pullulare di persone, in questi giorni. Si fa fatica a riconoscere qualcuno, tra tanta gente. Ma la grande scritta verde “Jemo ‘nnanzi” sulla polo nera, quella sì che si nota in mezzo alla folla. Se ne vedono un bel numero, in gruppo, venir giù verso i Quattro Cantoni.  A predisporre il tutto Stefano Ianni, pittore che ha dato forma d’arte al motto aquilano dell’associazione. E’ anche questo uno dei gesti fortemente simbolici – l’associazione ne ha realizzati diversi, di grande impatto, come il tricolore di 25 metri “Jemo ‘nnanzi” appeso alla Torre civica per i 150 anni d’Unità d’Italia, la riattivazione della storica fontana di Santa Maria Paganica, e altri ancora – che manifestano il desiderio degli aquilani di riconquistare la propria città, i luoghi della memoria e i luoghi del nostro futuro che vorremmo già presente. Lo si legge nei volti dei componenti dell’associazione, ciascuno con la sua maglietta, personalizzata sul dorso. Lo esprimono gli occhi degli aquilani che sono venuti a presenziare a questo evento, austero nella sua semplicità eppure così denso di profondità emotiva. La straordinaria sensibilità dello scrittore coglie appieno queste sensazioni, per quanto intime, segrete, composte. Non è per niente rituale e mondana la sua presenza. Persino fisicamente Dan vive questa intensità, quantunque distratto dai pressanti inviti a posare per una foto ricordo, a dare volto e voce alle riprese delle televisioni, a rispondere a domande e interviste. E’ tutto pronto, ormai, per realizzare l’opera. Tocca allo scrittore, sotto la scrupolosa guida di Stefano Ianni, dare al murale i primi colpi di colore. Dapprima il nero. Lo spray avanza velocemente sull’impronta in plexiglas del murale, Dan segue con cura le indicazioni dell’artista. Poi si passa al verde, altre parti del murale ricevono il colore. Faccio osservare allo scrittore, con l’aiuto di Cristina che traduce, come il nero e il verde siano i colori della città da quel disgraziato 2 febbraio 1703, quando L’Aquila conobbe un altro dei suoi disastrosi terremoti. Quella volta fece migliaia di vittime, oltre a distruggere gran parte della città e dei borghi del circondario. Il nero e il verde sostituirono il bianco e il rosso che erano gli antichi colori civici. Dopo quella tragedia il nero segnò il lutto e il verde simboleggiò la speranza della rinascita. Come in effetti poi avvenne, quando la città venne ricostruita più bella di prima. Ed è anche oggi questa la speranza, questa la determinazione degli aquilani. Stefano dà all’opera gli ultimi ritocchi di colore. Dan chiede un’altra bomboletta di spray nero. Si dispone accanto al murale e muove lo spray scrivendo sul tavolato “From my heart to L’Aquila. Dan Fante”. Più che una firma, è una bella e intensa testimonianza d’amore per la nostra città. Dan Fante è nato a Los Angeles, nel 1944, e lì è cresciuto. A vent’anni, lasciata la scuola, inizia il turbolento viaggio della sua vita, andando dapprima a risiedere a New York, per dodici anni, poi in giro per gli States. Nella Grande Mela Dan fece tutti i mestieri per sostenersi, talvolta in condizioni molto precarie. Decine di esperienze di lavoro, talvolta scadente, come venditore porta a porta, tassista, lavavetri, telemarketing, investigatore privato, hotel manager notturno, autista occasionale, postino, lavapiatti, parcheggiatore, venditore di mobili ed altre più umili occupazioni. Ogni esperienza della sua vita giovanile è tuttavia trapuntata dagli eccessi, sopra tutto da un uso smodato dell’alcool che è stato per anni il suo demone più assiduo. Vita complicata che ha ispirato la sua scrittura “di strada”, una prosa forte ed avvincente, che nelle diverse modulazioni alimenta, come già il padre John ad un livello eccelso, quel filone della letteratura americana che con Steinbeck, Faulkner, Fitzgerald, Kerouac, Miller, Bukowski e Selby Jr ha tracciato un solco profondo, facendo conoscere l’America, la società americana e le sue ossessioni meglio d’ogni altra corrente letteraria. Dan Fante va dunque da anni affermando una sua dimensione di rilievo nel mondo letterario, come poeta, commediografo e sopra tutto romanziere. La sua scrittura è corrosiva e geniale. Certamente un talento della letteratura contemporanea. Invitato nel 1999 al Festival delle Letterature di Mantova, fu quello il suo primo viaggio in Italia. Poi è tornato più volte, sopra tutto alla ricerca della proprie radici. Così Dan Fante disse in quella occasione: “Per me essere qui, in Italia, è anche come fare una specie di pellegrinaggio sulle tracce di mio padre. Ho pensato molto a lui, stando qui. Mi è tornato in mente il suo amore per l’Italia, per i suoi avi, per il paesello. In Svizzera, a Mendrisio, ho sentito i mandolini e ho pensato molto a lui. A quando raccontava di Napoli, per esempio. Sarà stato tra il ’59 e il ’60, mio padre era in Italia a fare cinema, e ci scriveva dall’Italia, di quanto amasse essere lì, quei posti, quella gente. Ora sono in contatto anche con dei parenti. Pare che a Torricella Peligna, il paese in Abruzzo da cui sono venuti i nostri avi, ci siano ancora dei cugini…”.  E in effetti, da allora, Dan Fante è tornato diverse volte in Italia, in particolare a Torricella Peligna, per partecipare al Festival letterario dedicato a John Fante “Il Dio di mio padre”. L’evento di anno in anno cresce in prestigio, sotto la sapiente direzione artistica di Giovanna Di Lello, che ne è l’anima e il motore sin dalla prima edizione. Anche quest’anno il Festival, insignito della medaglia di riconoscimento del Presidente della Repubblica, si è concluso con uno straordinario successo di pubblico e di critica. Questa sesta edizione – Dan e Victoria Fante ospiti d’onore – iniziata il 19 agosto, è stata particolarmente ricca di appuntamenti e di incontri prestigiosi, a partire dal Premio Letterario “John Fante Opera Prima”, presentato da Giulia Alberico, Masolino d’Amico e Francesco Durante, vinto da Federica Tuzi con il romanzo “Non ci lasceremo mai”, edito da Lantana. Altro appuntamento molto seguito ed apprezzato dal pubblico è stata la lectio magistralis sull’arte del racconto tenuta dal filosofo Gianni Vattimo, introdotto da Giulio Lucchetta, docente di Storia della Filosofia antica ed estetica all’Università di Chieti. Vattimo, che ha conversato con una platea da record per il Festival, ha espresso tutta la sua passione ed ammirazione per John Fante, affermando come lo scrittore fosse in grado di aprire le porte di un mondo, cui il lettore era invitato ad abitare. La serata del 20 agosto è proseguita nella pineta di Torricella Peligna, dove il jazzista Enrico Rava ha duettato con Giovanni Guidi in un concerto omaggio a John Fante, cui hanno presenziato con commozione anche i figli del grande scrittore, Victoria e Dan. Il Festival si è concluso domenica 21 agosto con una serie di appuntamenti legati al mondo dell’editoria e della scrittura. Ma l’altro prestigioso appuntamento nella giornata conclusiva della sesta edizione è stato l’incontro con il critico letterario Antonio D’Orrico, che nel presentare il suo libro “Come vendere un milione di copie e vivere felici” edito da Mondadori, ha conversato con il pubblico di letteratura, critica ed editoria. L’autore, presentato ironicamente da Francesco Durante come il critico letterario più amato e più odiato d’Italia e che per questo ha “subito” la congiura del silenzio sul suo primo romanzo, ha confessato quanto sia rimasto affascinato vedendo da vicino la macchina da scrivere con la quale John Fante ha “partorito” i suoi migliori racconti. Quella stessa macchina da scrivere che nel 2007 Dan ha donato al MediaMuseum di Pescara, sulla quale il grande John scrisse il suo ultimo romanzo “The Brotherhood of the Grape” (La confraternita dell’uva). D’Orrico ha poi sottolineato come il ponte ideale fra Italia e Stati Uniti sia proprio il borgo di Torricella Peligna, infine rispondendo alle domande di Dan Fante, curioso di sapere cosa avesse spinto un critico ad avventurarsi sul terreno impervio della scrittura. “Io non ho studiato da critico – ha risposto D’Orrico – mi ci sono ritrovato, portando avanti la mia passione per la lettura”. Infine un emozionato, commosso e grato Dan Fante ha letto un brano tratto dal memoir “A Family’s Legacy of Writing, Drinking and Surviving” in uscita a settembre negli Usa. Il giorno dopo Dan è venuto all’Aquila. Terremo nel cuore la sua testimonianza d’amore verso la città ferita come uno dei gesti più autentici e preziosi da conservare nella nostra memoria.