Gioia Tauro, il giorno della strage del Sole

Era il 22 luglio 1970. Erano le ore 17:00 circa quando il Treno del Sole Palermo-Torino, formato da ben 17 carrozze, poco prima di arrivare presso la stazione di Gioia Tauro (RC) deragliò provocando sei morti e 66 feriti, di questi circa 10 erano in condizioni gravissime. Un fatto che rimane scolpito nella storia di Gioia Tauro anche perché inserito in un contesto storico particolare. Era il periodo della strategia della tensione, della fase più cupa della Repubblica. La tesi che andò subito per la maggiore fu quella dell’attentato dinamitardo, e le prime indagini ipotizzarono proprio l’esplosivo. Ma poi diversi rapporti di Polizia si spostarono verso una responsabilità del personale di servizio della stazione per questioni tecniche. Venne presa in considerazione anche l’ipotesi di un cedimento strutturale del binario o dei veicoli. La storia successiva dell’inchiesta è un susseguirsi di colpi di scena, clamorosi retroscena, indagini chiuse e riaperte, relazioni parlamentari: la Procura di Palmi affidò nel 1971 un incarico a diversi periti che esclusero l’ipotesi dell’errore umano; per i tecnici a far deragliare parte del convoglio ferroviario fu un esplosivo. Ma un diverso rapporto capovolse di nuovo questa tesi. Tuttavia una prima sentenza stabilì che i dipendenti delle Ferrovie dello Stato dovevano essere prosciolti “per non aver commesso il fatto”. L’unica pista che poteva rimanere in piedi era quella dell’attentato esplosivo, ma mai nessun fascicolo fu aperto sul caso e la strage di Gioia Tauro era destinata a morire nell’indifferenza più totale senza esecutori né mandanti. Secondo i giudici le prove dell’attentato dinamitardo erano le più probabili, ma difficilmente dimostrabili. Dietro i fatti, oscure e velate ipotesi di tenere sotto banco le indagini. Tutto si mise a tacere, fin quando nei primi anni ’90 – in seguito ad una maxi operazione Olimpia 1 contro la criminalità organizzata – un collaboratore di giustizia, Giacomo Ubaldo Lauro, levò un primo velo sull’esatta dinamica dei fatti. Vi erano dei movimenti estremistici di destra dietro quel terribile attentato, il tutto collocato nell’infiammato luglio della rivolta di Reggio Calabria. Lauro dichiarò il 16 giugno 1993 di avere avuto rapporti con Vito Silverini, un fascista esaltato vicino ai vertici del Comitato d’Azione che in quel periodo stava infiammando i moti di Reggio, nonostante fosse analalfabeta. Lauro aveva assunto Silverini (noto come “Ciccio il biondo”) come operaio tra il 1969 e il 1970 e lo aveva reincontrato in carcere dopo essere stato arrestato per un furto alla Cassa di Risparmio di Reggio. Silverini non era nuovo all’esperienza carceraria, avendo già scontato alcuni mesi per violenze legate all’insurrezione cittadina. Nel carcere reggino Silverini e Lauro avevano condiviso la cella numero 10. Silverini aveva confessato a Lauro di possedere una somma presso la Banca Nazionale de Lavoro pagatagli dal Comitato proprio per la bomba messa sulla tratta Bagnara – Gioia Tauro, che aveva causato il deragliamento del treno. Silverini aveva portato una carica di dinamite da miniera sul luogo insieme a Giovanni Moro  Vincenzo Caracciolo, nascondendola sull’Ape Piaggio di quest’ultimo, e l’aveva posizionata con un innesco a miccia a lenta combustione. Silverini si vantò con Lauro di essere sul posto sia al momento dell’esplosione (“mi disse che l’attentato era avvenuto in ore diurne e cioè nel pomeriggio, tra le 16 o le 18, e questo aveva consentito a lui e a Caracciolo di osservare senza difficoltà dall’alto la scena”) che all’arrivo del questore Santillo, e di aver assistito alle prime fasi dell’inchiesta sul campo: inoltre affermò di aver provocato con quella bomba la distruzione di 70 metri di ferrovia, fatto questo non corrispondente al vero. Lauro in seguito ripeté la sua deposizione a Milano, al giudice istruttore Guido Salvini che stava indagando sull’attività eversiva di Avanguardia Nazionale. Giacomo Ubaldo Lauro in un interrogatorio dell’11 novembre 1994 confessò di aver avuto parte nella vicenda, e di essere stato lui stesso a consegnare l’esplosivo a Silverini, Moro e Caracciolo. In cambio aveva ricevuto alcuni milioni di lire, provenienti dal Comitato d’azione per Reggio Capoluogo. La testimonianza di Lauro venne confermata il 30 novembre 1993 da un altro pentito, Carmine Dominici, esponente di punta di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria fra il 1967 ed il 1976. Dominici era anche stato uno degli uomini di fiducia del marchese Felice Genoese Zerbi, proprietario di numerose terre, ma soprattutto il dirigente massimo di Avanguardia Nazionale. Malavitoso comune, oltreché attivista politico, Dominici era stato condannato ad una lunga pena detentiva ed aveva deciso di collaborare con la magistratura. Il 30 novembre 1993 confermò le parole di Giacomo Lauro. Anche Dominici, come Lauro, si era trovato nella cella numero 10 del carcere di Reggio Calabria, in compagnia di Vito Silverini. Dalle deposizioni appariva chiaro il quadro dei mandanti. Tra questi vi erano: Avanguardia nazionale e il Comitato d’azione per Reggio capoluogo, ispiratori della strage. Giuseppe Scarcella, Renato Marino, Carmine Dominici, Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giovanni Moro, esecutori materiali, definiti “il braccio armato che metteva le bombe e faceva azioni di guerriglia” per conto del Comitato. Ciccio Franco, consigliere comunale missino e sindacalista Cisnal dei ferrovieri, che era emerso come ispiratore della rivolta. Il senatore Renato Meduri e l’ex consigliere provinciale Angelo Calafiore, entrambi missini. Paolo Romeo, all’epoca in Avanguardia nazionale e deputato del Psdi. Il parlamentare missino Fortunato Aloi. benito Sembianza e Felice Genoese Zerbi, dirigenti del Comitato. Il commendatore Mauro, quello del caffè, ovvero Demetrio Mauro proprietario dell’onomimo stabilimento e l’imprenditore Amedeo Matacena, “quello dei traghetti”, finanziatori che “Davano i soldi per le azioni criminali, per la ricerca delle armi e dell’esplosivo”. L’istruttoria iniziata nel luglio 1995 si concluse con il proscioglimento per i presunti finanziatori e i mandanti politici, che sostennero la (ormai esclusa) tesi dell’incidente ferroviario, conducendo un’intensa campagna denigratoria nei confronti dei “magistrati di sinistra”.  Un susseguirsi di eventi che aveva portato anche altri fatti dinamitardi simili su rotaie e tralicci. I problemi stavano nell’individuare i mandanti e gli esecutori. Nel 2001 La Corte di Assise di Palmi emise una sentenza di condanna per i presunti esecutori della strage (tutti già deceduti al momento della decisione del Tribunale), chiamati in causa dal pentito. Il processo definitivo si chiuse nel 2006 nei confronti dell’unico imputato vivo, proprio il collaboratore Lauro che avrebbe fornito l’esplosivo. La sentenza portò alla dichiarazione di prescrizione del reato. Insomma mai nessuno ha pagato per una strage che ha costituito per Gioia Tauro uno dei lati più bui e ancora oggi non del tutto chiariti. Le indagini non condotte al meglio, un contesto storico convulso fanno da contorno ad uno dei fatti che ancora oggi è annoverato tra i “misteri d’Italia”.