Terroristi ed equilibrio internazionale, l’analisi

Dall’11 settembre del 2001 è esploso l’interesse generalizzato sul fenomeno terrorismo che presto si è trasformato in una curiosità talvolta ossessiva. Improvvisa per moltissimi la scoperta dell’esistenza di organizzazioni come Al Qaeda operative invece da tempo, di personaggi come Bin Laden noti fin dalla metà degli anni ’80 o come i fondamentalisti Ceceni, attivi clandestinamente già prima dalla caduta del muro di Berllino. Da quel momento, si sono accavallate quasi quotidianamente analisi ed ipotesi diverse, spesso contrastanti e fuorvianti. In taluni casi condivise anche da strutture ufficiali di Intellicence fino a quel momento troppo disattente ai segnali che vicende, anche lontane, potevano trasmettere. Questa convinzione ed altre personali valutazioni dettate da pregresse esperienze specifiche di natura professionale, spingono a pubblicare uno studio per proporre un tavolo di discussione sul fenomeno terrorismo e come esso potrebbe incidere nel futuro internazionale, anche alla luce dei recenti accadimenti sulle sponde del Mediterraneo. Il lavoro, per esigenze redazionali, verrà prodotto per steps successivi, con una cadenza non preordinata e cercando di cogliere ed approfondire aspetti dell’area mediterranea e del Golfo di Aden, essenziale per il futuro energetico occidentale. A lavoro ultimato di raccogliere i posts in un’unica pubblicazione, che sarà messa a disposizione di chiunque ne abbia interesse. Il vocabolo terrorismo ha un’origine moderna, derivata almeno inizialmente, dal comportamento di particolari regimi e/o governi impegnati ad esercitare il loro potere minacciando la popolazione attraverso l’esercizio di una violenza coercitiva. Fra le possibili forme di terrorismo, la matrice del fondamentalismo religioso è quella che nel tempo e fino ai giorni nostri si è concretizzata con maggiore frequenza attraverso atti cruenti, di vasta risonanza e tali da costringere le collettività a convivere con una continua ed estrema insicurezza. Nel tempo, le tecniche, le procedure e le modalità operative delle organizzazioni terroristiche sono evolute di pari passo alla crescita tecnologica, in particolare nel settore informatici e delle comunicazioni telematiche, consentendo ai gruppi eversivi di esercitare un costante ricatto del terrore sulla comunità internazionale. Sta ormai pressocchè scomparendo la classica automobile imbottita di esplosivo, sostituita da azioni meno cruente sul piano pratico, ma di fatto più devastanti. Sabotaggio degli investimenti finanziari, intrusioni informatiche, immissione di fondi sovrani sui mercati azionari per destabilizzare l’economica internazionale, fino ad arrivare alla gestione di massicci flussi migratori di clandestini tra cui celare cellule eversive. Il terrorismo nasce ed evolve in Asia Centrale negli anni ‘80, con la rivoluzione islamica in Iran e la jihad afgana contro l’invasore sovietico, questa ultima attivata ed ampiamente supportata dalle maggiori potenze occidentali che oggi maggiormente subiscono la minaccia terroristica. Una situazione successivamente evoluta con la radicalizzazione del fondamentalismo religioso dei Talebani che nei 5 anni successivi all’abbattimento del muro di Berlino si sono definitivamente insediati a Kabul. Dalla fine degli anni ’90 si è assistito ad un proliferare di diverse organizzazioni eversive, molto spesso collegate fra loro, con un incremento numerico quasi esponenziale. Quasi tutte di origine islamica, propugnatrici del più estremo fondamentalismo, in costante collegamento e coordinamento attraverso i diversi network con punti nodali rappresentati dai luoghi di aggregazione religiosa e culturale, come le moschee e/o pseudo centri culturali. L’emergente terrorismo non ha risparmiato nemmeno importanti democrazie occidentali di religione cattolica, con effetti anche in questo caso assolutamente estremistici. Molti i cristiani che si sono contrapposti nel tempo ai cattolici ortodossi e/o protestanti, come avvenuto ad esempio in Irlanda o nei multietnici Balcani dove l’intransigenza religiosa fra bosniaci musulmani, ortodossi serbi e croati cristiani, è stata protagonista di una pluriennale e feroce guerra civile, esasperata da forme di genocidio ed epurazione etnica. Ma è nel mondo islamico che si assiste al consolidarsi di un progetto più articolato e globale dell’eversione radicale consentendo alla jihad terroristica di consolidarsi, anche perché in quegli anni quasi ignorata dal mondo. Solo nel 1972, quando gli atti terroristici hanno iniziato a colpire e/o a minacciare concretamente gli interessi economici globali. Dirottamenti ed attentati con lo scopo di rendere insicuri i trasporti commerciali, fino ad arrivare all’assassinio degli atleti israeliani a Monaco di Baviera durante le Olimpiadi. L’Organizzazione delle Nazioni Unite attraverso l’Assemblea Generale iniziò ad elaborare l’ipotesi di Convenzione, che rappresentasse un impegno condiviso contro il terrorismo internazionale. La Convenzione promuoveva azioni comuni per la prevenzione e la repressione del terrorismo e per impedire che Stati sovrani potessero diventare basi e/o rifugi di terroristi. In questo contesto l’Onu individuò l’esigenza di dover definire il concetto di “terrorismo di Stato”, inteso come l’esercizio del terrore di un governo anche attraverso il finanziamento, l’addestramento o, solo, il fiancheggiamento dei terroristi. Dopo sette anni di lavori, UN presentò, però, solo un documento di mero contenuto “politichese”, non in grado di proporre una definizione universale del terrorismo né tantomeno individuare, a livello internazionale, le necessarie contromisure. Sulla scia di questo insuccesso il Consiglio d’Europa, autonomamente, avviò iniziative per tutelare i propri cittadini ed in pochi anni fu elaborata una Convenzione europea per la repressione del terrorismo, sottoscritta a Strasburgo il 27 Gennaio 1977. Dopo la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il tema del terrorismo ha iniziato a sollecitare un interesse globale sul piano politico e giuridico. Fra tutti i possibili settori, la distinzione tra reati di natura terroristica e quelli che poi sarebbero diventati i “processi di liberazione nazionale”, che, pur caratterizzati dal ricorso alla violenza, si proponevano di rovesciare regimi non garanti dei diritti umani. In sintesi, si concordò sul piano globale di riconoscere come terroristica qualsiasi azione compiuta da singoli o gruppi che con il ricorso alla violenza od ad atti subdoli minacciassero uno Stato sovrano o solo semplici cittadini, con lo scopo di creare e mantenere alta una situazione di paura e di continua insicurezza. Nel dicembre del 1999, attraverso un sempre più crescente e significativo impegno internazionale, le Nazioni Unite hanno ratificato la “The Convention for the Suppression of the Financing of Terrorism”, documento che prevedeva una serie di iniziative che, mutuando quanto già in essere per la lotta contro la criminalità organizzata, esercitavano un controllo sui flussi finanziari che potevano essere gestiti per finanziare atti di terrorismo internazionale. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers ed al Pentagono USA, le iniziative internazionali nello specifico sono evolute dalle semplici dichiarazioni politiche e giuridiche del passato, a veri e propri atti concreti. Primo fra tutti, fondamentale la dichiarazione degli alleati europei e canadesi degli Stati Uniti che invocando l’Articolo V della Carta della NATO, dichiararono di considerare l’aggressione terroristica a NY come “un’azione contro loro stessi”. Immediata la reazione militare di autodifesa con l’avvio delle operazioni militari contro il regime dei Talebani in Afghanistan e, poi, contro l’Iraq di Saddam Hussein che, però, hanno dimostrato fin dall’inizio di non essere in grado di ottenere i risultati sperati per abbassare incisivamente ed immediatamente la minaccia terroristica. Infatti, mentre si combatteva nel Centro Asia, gravissimi attacchi terroristici a Madrid e Londra seguirono quello dell’11 settembre, tali da costringere l’Unione Europea ad un impegno più concreto non solo politico, per lottare contro l’eversione. Alla fine del mese di marzo 2004, dunque, la Commissione Europea presentò un articolato progetto affinchè fosse garantito a livello globale uno scambio di informazioni e fosse avviata una concreta cooperazione per il contrasto del terrorismo. Nel Giugno 2004, prese corpo lo “European Plan of Action on Combating Terrorism” nel quale furono esattamente configurate le priorità da seguire per garantire le necessarie azioni di prevenzione e per gestire possibili attacchi terroristici. Nel febbraio 2007, il Consiglio Europeo ha, infine, introdotto un programma particolare per la valutazione del rischio delle infrastrutture di importanza strategica, per l’elaborazione di metodologie per la protezione delle stesse e per garantire la sicurezza dei rifornimenti internazionali nel settore energetico. Per contro a partire dal 2001, sono emersi diversi orientamenti politici e giuridici che hanno portato a considerare il fenomeno terroristico in maniera diversa ed anche discordante. Paradigmi giuridici e di pragmatismo politico che hanno generato sofismi interpretativi, attraverso i quali non sempre era ed è possibile distinguere il terrorista dal legittimo combattente impegnato a combattere per garantire i propri diritti minacciati da altri sul piano militare. Tutto questo, ha comportato che anche semplici manifestazioni di piazza o rivendicazioni di diritti, apparentemente leciti, potevano ricondursi a situazioni ed a forme di lotta che alla fine degli anni ’90 agevolarono le organizzazioni eversive. Oggi, in contrasto al terrorismo sta, di fatto, subendo un’inversione di tendenza in cui le azioni globali vengono sostituite da interventi mirati per cercare di annientare i capi storici e le figure carismatiche del terrorismo internazionale. Una “caccia all’uomo” simile a quella attuata in Iraq contro Saddam Hussein, senza, però, prevedere il “dopo Saddam” e che spesso non agevola la necessaria visione globale del problema. Un errore che in passato ha favorito il consolidamento di Al Qaeda su base internazionale e che, oggi, potrebbe portare a sottovalutare le ragione a monte della “rivolta araba” e le conseguenze di un post Mubarak piuttosto che di un Bel Alì. Interessi troppo focalizzati che, almeno apparentemente, potrebbero allontanare l’attenzione sul possibile ruolo dell’Iran sugli avvenimenti che stanno toccando le sponde de Golfo Persico e gli spazi marittimi del Golfo di Aden e che non è azzardato pensare che possano essere “in sistema” con quello che sta avvenendo dall’inizio dell’anno sulle sponde del Mediterraneo. Tutti segnali che non devono far dimenticare quanto avvenuto nel passato e che ha portato all’11 settembre.

Fernando Termentini