Usa2024. Agli sgoccioli la sfida tra Trump e Harris: quando avremo i risultati?
Ci siamo. Le elezioni presidenziali Usa di martedì 5 novembre sono alle porte. La sfida tra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris è agli sgoccioli. Il Congresso ha stabilito nel 1845 che si votasse sempre il primo martedì del mese di novembre quattro anni dopo l’ultima elezione del presidente. La scelta del mese è dettata dalle radici agricole degli Stati Uniti: a novembre si era concluso il raccolto e le strade non erano ancora bloccate dalla neve. Calcolando che la domenica era dedicata alla chiesa, molti degli elettori che vivevano nelle zone più remote non sarebbero riusciti a raggiungere i centri dove si votava in tempo il lunedì. Secondo la Costituzione i requisiti per diventare presidente sono tre: un’età superiore ai 35 anni, essere nati negli Stati Uniti e risiedervi da almeno 14 anni.
Il risultato si basa sul collegio. Il voto popolare è il totale dei voti espressi dai cittadini americani durante le elezioni presidenziali. Ciascun elettore vota per un candidato presidente e un candidato vice presidente. Ma il voto non determina direttamente chi va alla Casa Bianca. Per riequilibrare la questione demografico-elettorale, infatti, il sistema statunintense prevede il voto di collegio. Gli Stati Uniti sono suddivisi in 50 Stati e ciascuno ha un certo numero di Grandi Elettori, basato sulla sua rappresentanza al Congresso, cioè numero di senatori più il numero di rappresentanti. In totale ci sono 538 Grandi Elettori, una cifra che si ricava sommando i 435 rappresentanti della Camera, i 100 del Senato e i tre in rappresentanza della capitale, Washington DC. Quando gli elettori votano, stanno in realtà scegliendo i Grandi Elettori, che poi voteranno il candidato presidente che ha vinto il voto popolare nello Stato di cui sono rappresentanti. Il candidato che riceve almeno 270 voti dei Grandi Elettori vince le elezioni.
I voti elettorali vengono aggiudicati all’interno di ciascuno Stato con un sistema maggioritario secco, che viene definito il winner takes all. Fanno eccezione Nebraska e Maine, gli unici due Stati che hanno scelto di assegnare i loro voti elettorali, rispettivamente 5 e 4, con il sistema proporzionale. In tutti gli altri Stati, quindi, il vincitore prende tutto anche se per uno scarto minimo di voti.
Gli Swing state, cioè gli Stati che oscillano, sono gli Stati il cui risultato è in bilico e quindi decisivo per le presidenziali. Il riferimento è al fatto che sono Stati in bilico tra Repubblicani e Democratici, diversi da quelli che tradizionalmente eleggono sempre il candidato di un partito. Il Texas è considerato storicamente repubblicano, New York e la California democratici. Gli swing state considerati fondamentali per assegnare la vittoria il 5 novembre, giorno del voto, sono sette: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Nevada, North Carolina, Georgia e Arizona.
Harris nei sondaggi risulta avanti, anche se di poco, nei primi tre, che rappresentano il cosiddetto “blue wall”, il muro blu, dal colore dei democratici, più il Nevada. Il rosso è, invece, il colore che contraddistingue i repubblicani. Secondo le recenti medie dei sondaggi, Trump è avanti in North Carolina, Georgia e Arizona. La notte elettorale saranno da seguire soprattutto questi Stati. Se Harris conquisterà gli Stati tradizionali assegnati ai democratici, avrà bisogno di vincere in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Nevada per avere la certezza di andare alla Casa Bianca. Al contrario, per la candidata democratica il percorso verso la vittoria sarà molto difficile.
L’orario di chiusura dei seggi si differenzia nei 50 Stati perché gli Usa hanno 6 fusi orari dalla costa Est sull’Atlantico alle Hawaii nel Pacifico. I primi a chiudere a mezzanotte (ora italiana) saranno Indiana e Kentucky, a seguire all’1 di notte del 6 novembre chiuderanno Florida, Georgia, South Carolina, Vermont e Virginia. Alle 2, tra gli altri, arriverà la chiusura, e le prime proiezioni, di altri due Stati in bilico, Pennsylvania e del Michigan. L’ultimo Stato a chiudere i seggi sarà l’Alaska alle 6 di mercoledì 6 novembre ora italiana.
Nel 2020 il 43% degli elettori votarono per posta, contro il 20-25% dei precedenti cicli elettorali, sulla base di misure che, nella maggioranza degli Stati, vietava di aprire e controllare la validità di questi voti prima dell’Election Day. Da qui gli enormi ritardi nello spoglio di questi voti, ritardi che alimentarono teorie del complotto. Anche quest’anno è prevista una percentuale alta di voto per posta, per questo sono state cambiate le regole e quasi tutti gli Stati ora permettono di aprire e controllare la validità dei voti per posta prima dell’Election Day. Tra gli stati chiave, Michigan, Nevada (dove la maggioranza degli elettori vota per posta) Arizona, Georgia e North Carolina permettono di processare prima dell’election day il voto per posta. Questo però non avverrà in Wisconsin e, cosa ancora più importante, in Pennsylvania, considerato il più cruciale degli stati chiave. In questi due stati non sarà possibile aprire le buste che contengono i voti per posta prima del 5 novembre.
In caso di parità tra i due candidati all’interno del Collegio elettorale, la decisione viene demandata alla Camera dei rappresentanti, che sceglie il presidente tra i tre candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti elettorali. La delegazione di ciascuno Stato alla Camera deve esprimere un solo voto, e se non riesce ad avere una maggioranza al suo interno, il suo voto non verrà conteggiato. Diventa presidente chi ottiene la maggioranza dei voti degli stati, che è 26. Le elezioni presidenziali sono state decise due volte dalla Camera: nel 1800, quando Thomas Jefferson e Aaron Burr ottennero ciascuno 73 voti del Collegio Elettorale e Jefferson vinse solo al 36esimo ballottaggio; nel 1824, invece, Andrew Jackson ottenne 99 voti elettorali, John Quincy Adams 84, William Crawford 41 e Henry Clay 37. Dal momento che nessuno aveva raggiunto la maggioranza, decise la Camera e vinse Jackson al primo ballottaggio.
Nella storia americana, anche più recente, non sono mancati questi “tradimenti”. Nel 1988, per esempio, Margaret Leach, grande elettrice del candidato democratico Michael Dukakis – che fu nettamente sconfitto da Ronald Reagan – votò invece per il candidato alla vice presidenza, il senatore Lloyd Bentsen. Nel 1976 un grande elettore repubblicano dello stato di Washington invece di votare per lo sconfitto Gerald Ford votò, anticipando i tempi, per Reagan. Anche nel 2000 ci fu una sorpresa, ininfluente ai fini dei risultati. In segno di protesta per il modo in cui era stata condotta l’elezione un grande elettore di Al Gore votò scheda bianca.