Galeotto fu il libro e chi lo scrisse

La questione della lingua e il suo destino tra le mura della sezione carceraria della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Protagonisti sei studenti della III classe del dell’Istituto “Enrico Gagliardi” (indirizzo Servizi per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale) nell’a.s 2021-22, che hanno messo “sotto processo” il padre della lingua italiana, Dante. La storia di questa disputa è raccontata in un libro, “Detenuti in lingua” pubblicato ad aprile. A maggio è stato presentato al Festival del Sud Valentia e poi portato al Salone internazionale del Libro di Torino nello stand della Calabria, suscitando sorpresa per il modo con il quale è stato affrontato un argomento cruciale nella storia del nostro Paese a partire dal Medioevo, con la nascita dei volgari.     

 

Anche le parole vivono la loro prigionia. E con loro anche la storia dell’uomo che nasce con la scrittura: il cui fine è la tensione verso la libertà che molto spesso passa attraverso la reclusione. Le parole vivono questo passaggio nella loro doppia condizione: orale e scritta. La scrittura elabora, controlla e conserva, mentre la parola orale può viaggiare nelle temperie o intemperie della storia e perdersi nel tempo. È il destino di tante parole che si sono smarrite lungo la via dei secoli. Ma poi ritornano e bussano alle porte chiedendo udienza. Ed è questa anche la condizione esistenziale e culturale dei detenuti, esposti, per le varie vicissitudini della vita e della storia, alle intemperie del mondo, e poi si ritrovano reclusi e chiedono di essere ascoltati attraverso le parole. Lo hanno fatto Andrea, Clemente, Calogero, Alessandro e Simone, studenti che hanno frequentato il III anno dell’Istituto “Enrico Gagliardi” (indirizzo Servizi per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale) nel penitenziario della Casa circondariale di Vibo Valentia. Questi sei speciali studenti sono protagonisti di un libro che ha fatto il giro d’Italia, da Vibo a Torino, al Salone internazionale del Libro (18-22 maggio): “Detenuti in Lingua”, con un sottotitolo che pone un interrogativo sul destino delle cosiddette lingue madri, chiamando in causa, o meglio, sotto processo, sua maestà, il Sommo Poeta Dante, padre nostro della lingua italiana: “E se tutti avessimo parlato il latino?”

Fresco di stampa (edizioni “Libritalia”, aprile 2023) il libro è stato presentato al festival del Sud “Valentia” l’8 maggio scorso (Palazzo Gagliardi) a cui hanno partecipato i curatori i prof. Gianluca Rubino e Caterina Brasca, insieme alla dirigente scolastica dell’Ipseoa “E. Gagliardi”, prof.ssa Eleonora Rombolà.

Affrontare la questione della lingua tra detenuti – e a maggior ragione in un indirizzo che ha a che fare con le attività rurali – appare quantomeno inatteso, singolare. Ma la risposta la possiamo trovare in uno dei primi documenti volgari di origine medievali, il cosiddetto “indovinello veronese” (VIII-IX sec.), anzi considerato il primo testo in volgare che istituisce un’analogia tra l’azione del contadino con l’aratro in un campo e quella dell’amanuense con la scrittura sulla carta: «se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba» (Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati e aveva un bianco aratro e un nero seme seminava).

La scrittura in fondo è la metafora dell’uomo che ad un certo punto della sua storia, si ritrova come le parole che vengono ristrette nei segni d’inchiostro del libro. E il libro del mondo, immaginato nella concezione medievale, era frutto della mente divina, per cui tutto andava interpretato allegoricamente e simbolicamente, come ha fatto Dante nella sua Commedia. Ed è stato proprio l’autore del “poema sacro” a diventare “galeotto” nella discussione affrontata dagli studenti. Non solo Paolo e Francesca (V canto dell’Inferno) hanno sperimentato sulla propria pelle l’amore galeotto, ma anche i detenuti nella scuola con la loro “reclusione” hanno decodificato con ironia, teatralità e umorismo, non solo la questione della nascita dei volgari dal latino, delle lingue romanze e dei dialetti, ma anche i loro linguaggi esistenziali fatti di celle e anche di particelle sia elementari che complementari. Così, a loro volta, hanno imprigionato tante parole che sono diventate un testo degno di passare alla storia della letteratura sulla scia del “De vulgari eloquentia” di Dante o le “Prose della volgar lingua” del veneziano Pietro Bembo.

Il libro è nato in modo spontaneo: “I personaggi che animano questo dialogo sono sei carcerati, pur definiti ‘avanzi di galera’ o gente illuminata dalla luce sporca della maleducazione culturale che li vuole emarginati dal punto di vista intellettuale…”. Così questi “galeotti” hanno vissuto l’esperienza “come una specie di volo interiore che li ha portati fuori da queste quattro mura, in modo da vivere una libertà di pensiero che sorge dal basso ma si staglia nella loro voglia di essere qualcosa di altro che essere carcerati; sospesi tra il tutto della loro fantasia  ed il nulla della banalità del conformismo che li soffoca… “

Questo lo spirito e il corpo che sostanzia il contenuto del libro, “una chiacchierata tra sei amici detenuti che hanno frequentato il III anno” nel corso dell’A.S. 2020-21. Il tutto nasce durante le ore di pausa, tra una lezione e l’altra:  “Giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, l’entusiasmo per la questione della lingua prendeva sempre più piede in aula” con la scoperta “che gli studenti si trovavano a discuterne anche nei momenti di pausa, il desiderio di conoscenza e approfondimento ormai albergavano in loro”.

A far partorire questa esperienza da una parte Gianluca Rubino come docente di Storia, e dall’altra Caterina Brasca, docente di Italiano  e fiduciaria dal 2009 della sezione dell’Ipseoa Gagliardi nel Complesso penitenziario di Vibo Valentia, autori rispettivamente della presentazione e della postfazione.

La pubblicazione del libro ha un valore che va oltre lo stesso contenuto. Lo sottolinea la prof.ssa Brasca raccontando l’iter editoriale e il clima che si è venuto a creare: “Ciò che sembra un passaggio semplice è in realtà frutto di un laborioso lavoro di squadra tra l’IPSEOA E. Gagliardi e la Casa circondariale di Vibo Valentia, infatti la dott.ssa Angela Marcello riesce ad ottenere dal DAP l’autorizzazione alla pubblicazione. Da quel momento un susseguirsi di impegni, in primis la partecipazione al Valentia in festa. Infatti Detenuti in lingua viene presentato ad ospiti e scolaresche proprio nella giornata iniziale. Successivamente il libro è presente anche al Salone del libro di Torino nello stand Calabria, come gli altri testi editi dalla stessa casa editrice. Soddisfatti e increduli gli alunni che per una volta sono riusciti a far sentire la loro voce oltre le “mura dell’inganno”, le mura del carcere, così come loro sono soliti chiamarle. Orgogliosi i docenti tutti della sede carceraria e la dirigente, prof.ssa Eleonora Rombolà, per l’importante traguardo raggiunto che non deve essere assolutamente un punto di arrivo, ma sprone per lavorare sempre meglio.”

La questione della lingua su cui hanno disputato in libertà gli studenti detenuti interroga non solo le origini della lingua italiana, quando cominciano ad affiorare i volgari, ma il loro destino e quello dell’identità culturale dell’Italiano e dell’Italia, minacciata dai nuovi barbarismi (con l’uso ormai insopportabile degli anglicismi, soprattutto sui media).  L’esperienza che Dante sperimenta attraversando l’inferno e il purgatorio per raggiungere la vetta del paradiso, si riflette nel viaggio che ognuno compie per riconoscere ciò che non è inferno. Lo declina ad es. Italo Calvino ne “Le città invisibili”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Il destino della parola tra oralità e scrittura nella storia del nostro Paese

Ha suscitato sorpresa il modo con il quale è stato affrontato un argomento cruciale nella storia del nostro Paese, con la nascita dei volgari. A finire “sotto processo” il padre della lingua italiana Dante. Gli studenti  hanno dibattuto e scoperto come le lingue romanze si siano emancipate dal latino  e come il Sommo Poeta abbia avuto l’ardire di prevedere il futuro codificando il volgare. Ma la questione riguarda anche il rapporto tra il potere e sapere, che tende sempre a dominare per detenere, soprattutto con il controllo della parola, e la parola che invece ama spazi di libertà, ama viaggiare come il vento e non sopporta le anguste leggi della sua carcerazione tipografica. Il rapporto oralità/scrittura, già posto da Platone nel “Fedro”, si ripropone con inquietante interrogativo nell’era del digitale e di quella che definiscono come “intelligenza artificiale”. In estrema sintesi, si può ipotizzare che ciò che appartiene all’artificio sia un campo alieno dalla cultura che ama invece percorrere mondi in cui il legame uomo/natura non sia stato completamente reciso da una macchina che sia intelligente o deficiente, espropriando le facoltà intellettive e creative la laboriosità manuale insite alla scienza evolutiva della natura umana.

Nel destino quindi della parola si identifica quella dell’umanità. I libri sono sempre un “pretesto” affinché il logos ritorni alla casa madre, cioè, al mithos, all’origine del racconto, all’oralità, parto dell’inconscio collettivo e del mistero che lo circonda. E qui il parallelismo con il tentativo dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi, della scrittura digitale, di imprigionare nel virtuale le emozioni, i sentimenti, i pensieri, apre la questione delle questioni, in quanto non possiamo prevedere quali potrebbero essere gli effetti di questa nuova “schiavitù” sociale delle parole e dell’umanità, costretto a vivere lontano dal linguaggio in cui si è evoluto per milioni di anni, Madre Terra, per trasferirsi in un ambiente artificiale, la rete, il web, i social; cioè le nuove sofisticate prigioni: i labirinti cibernetici. Quest’improvviso reclutamento – o deportazione trans-tecnologica – che cosa produrrà con il controllo totalitario di chi detiene il potere attraverso la tecnocrazia? L’evoluzione della conoscenza e quindi della stessa intelligenza umana, sono avvenuti nel dialogo con l’ambiente naturale, che attraverso l’osservazione, il linguaggio dei sensi e la contemplazione, ha potuto sperimentare il processo cognitivo e intuitivo, per aprire la visione a nuove forme di conoscenza e di coscienza. Senza intuizione non potrà mai esserci vera conoscenza, ma solo una replica di informazioni in cui l’originalità e la creatività sono esclusi e reclusi. I meccanismi dei processi evolutivi delle specie viventi lo svelano e lo celano: nella trasmissione delle informazioni del codice genetico ad un certo punto è apparso un ospite inatteso, il caso, l’errore, che ha permesso l’evoluzione. Se gli esseri umani sono sapiens e non più gli scimpanzé “bonobo” (i nostri più stretti parenti), è grazie al mistero del caso e della casualità identificati anche dalla Fisica dei Quanti nel fenomeno del salto quantico. Jacque Monod (premio Nobel per la Medicina 1965), ha parlato di “caso e necessità” nell’omonimo saggio (1970). Il trasferimento in un ambiente artificiale sposta completamente le relazioni e i rapporti, provocando un taglio netto con la storia evolutiva di milioni di anni. Con questo sradicamento si interrompe il dialogo con l’inconscio collettivo che l’umanità si porta dentro il proprio DNA biologico e ontologico, e quindi con una memoria ancestrale che ha fatto scaturire la parola parlata da cui sono nati i miti, la letteratura, le arti e le scienze. In questo nuovo ambiente artificiale e virtuale, verranno fuori gli Omero, i Dante, i geni dell’umanità come i rinascimentali Leonardo o Michelangelo, con i robot e gli avatar? Le nuove tecnologie e l’ambiente cibernetico potranno creare una nuova gioconda o un’altra cappella sistina e generare il linguaggio simbolico e intuitivo, sentire l’ispirazione alla bellezza naturale e artistica, frutto di storie segrete e arcane che affondano le loro origini in millenni di esperienze e di memorie?

Oggi siamo entrati nell’era della “smisuratezza”, la greca hybris (tracotanza, dissacrazione, delirio di onnipotenza): l’uomo  non controlla più gli strumenti e i mezzi che usa. Si nasconde dietro un monitor, uno schermo o una tastiera falsificando la propria visione e le proprie sembianze. Le autorità ci stanno imponendo l’identità digitale. Ma quale è il fine di tutto questo? Quali sono i valori e i principi che muovono gli anonimi detentori di questi ordigni che hanno degli effetti devastanti in quanto possono distruggere in un batter di ciglia il mondo? Basta solo un clic, compiuto con un atto di follia e di viltà e l’umanità sparisce dalla faccia della terra.

Nel momento in cui si tagliano le radici con il passato e con il linguaggio della natura, che fine farà la nostra intelligenza e memoria se deleghiamo sempre di più all’intelligenza artificiale la nostra esperienza? “La mente intuitiva è un dono sacro. La mente razionale è un fedele servo…. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono” (Albert Einstein). “Il futuro ha un cuore antico” aveva profetizzato Carlo Levi nel 1956. E i nostri sei personaggi hanno trovato il filo nel cuore di Arianna per uscire dal labirinto, non come i personaggi del noto dramma di Luigi Pirandello che sono in cerca di un autore: loro hanno testimoniato che le leggi dello Spirito non possono essere imprigionate dalla bruta materia di un microcip e di un algoritmo: ancora resiste il dialogo e il contatto tra esseri ancora umani che scambiano messaggi e informazioni e si emozionano, nonostante siano in una condizione di privazione della loro libertà, anche di calpestare una zolla di terra. La questione della lingua e dei linguaggi oltrepassa le colonne D’Ercole, come l’Ulisse dantesco. La letteratura e la poesia, quando si è di fronte a personaggi come Dante che hanno scavato in profondità fino a toccare corde segrete e ignote, è sempire profetica ed ha un potere maiuetico di far venire alla luce le storie di questi sei detenuti, diventati protagonisti per caso o per necessità.