Cibo e letteratura: il linguaggio che la Calabria deve riscoprire

Il percorso formativo coinvolge gli studenti della VF del Corso serale dell’IPSEOA “E. Gagliardi” di Vibo Valentia diretto dalla DS Eleonora Rombolà. Mira a unire la cultura storico-letteraria con quella enogastronomica e si inserisce nell’ambito della proposta progettuale “La terra racconta. Scoprire la Calabria attraverso lo sguardo degli scrittori”. Gli itinerari hanno l’obiettivo di scoprire le località dove sono nati o vissuti alcuni scrittori calabresi tra i più conosciuti del ‘900 come Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Saverio Strati, Mario La Cava, Fortunato Seminara, Franco Costabile, Lorenzo Calogero, ma anche Giuseppe Berto (veneto), il quale ha scoperto Capo Vaticano come suo genius loci.

La prima tappa è stata Palmi (12 febbraio), la città di Leonida Repaci. Gli studenti hanno preparato tipico piatto, la stroncatura. Oggi, all’indomani del Dantedì (sabato 25 marzo), secondo itinerario a “Casa Berto”, Capo Vaticano e la sua regina, la cipolla rossa.  

Un viaggio per contemplare uno dei panorami più belli al mondo, che ha incantato Giuseppe Berto, decidendo di costruirsi una casa con le proprie mani, come racconta ne “Il male oscuro”, romanzo con il quale ha vinto due dei più prestigiosi premi letterari, lo Strega e il Campiello, nel 1964. Nel 1956, così descrive il suo primo incontro con Capo Vaticano: “Il promontorio finiva così, a picco, e in basso c’erano scogli di varia forma e dimensione, contro i quali le onde diventavano bianche di spuma, e tra gli scogli e c’erano piccole spiagge segrete, che potevamo scoprire solo sporgendoci dall’orlo del precipizio. Forse perché c’ero arrivato all’improvviso e pieno di scetticismo, mi pareva quello il luogo più bello che avessi mai visto, in un certo senso anche spaventoso, come se la roccia sulla quale mi trovavo avesse potuto da un momento all’altro franare verso il mare che la chiamava… Entro quei visibili confini, c’era il mare che, quando il mondo era nuovo e misterioso, aveva fatto nascere i miti di Scilla e Cariddi e delle Sirene, e la favola di Ulisse, che per quelle acque era andato navigando, ansioso di conoscere ciò che vi era di più bello e terribile sulla terra. Ormai gli uomini hanno sperimentato troppe cose per lasciar sopravvivere una poesia così legata agli elementi della natura” (Il mare da dove nascono i miti, 1956).  Scomparso nel 1978, di origine veneta, lo scrittore ha scelto Capo Vaticano come suo genius loci e patria spirituale per vivere la seconda parte della sua vita dopo averlo scoperto. Alla Calabria ha dedicato diversi scritti, in particolare articoli giornalistici, a partire dalla fine degli anni ’40 raccolti nel volume “Il mare da dove nascono i miti” (un lavoro prezioso per merito di don Pasquale Russo, scrittore e appassionato cultore dell’opera di Berto), ma anche romanzi come “Il brigante” o “La Fantarca” (un racconto fantastico). Nei suoi scritti emerge in particolare la denuncia e l’amarezza per la distruzione della civiltà contadina, che ha definito in un articolo (1972) “la ricchezza della povertà”, frutto di grandi sacrifici che avrebbe rappresentato un grande patrimonio per le generazioni future. Berto in questi suoi interventi ha anticipato temi di grande attualità, come quello dell’ecologia e dell’inquinamento ambientale, ma anche la perdita dei valori umani ed etici attraverso la rincorsa sfrenata al consumismo che ha cambiato identità non solo al territorio, ma anche all’antropologia dei calabresi, in linea con le posizioni espresse da Pier Paolo Pasolini ne “Gli scritti corsari”, come la mutazione antropologica e il genocidio culturale della civiltà contadina.

Gli studenti dell’Istituto Alberghiero “E. Gagliardi” e tutti gli ospiti saranno accolti dalla figlia dello scrittore, Antonia Berto, erede e custode della memoria paterna. Alla compagine si unirà anche il prof. Saverio Di Bella (storico, già docente all’Università degli Studi di Messina ed ex senatore), originario del Comune di Drapia, cultore dell’opera di Giuseppe Berto (a suo tempo si sono anche frequentati), impegnato in particolare per far emergere e salvaguardare la memoria del mondo contadino e l’identità dell’area del Poro, così come aveva fatto con passione lo scrittore. Ci sarà anche don Pasquale Russo, legato da amicizia personale con Berto e alla sua famiglia. Infine parteciperà il prof. Antonio Pugliese (già docente all’Università degli Studi di Messina), autore di numerosi saggi e scrittore di romanzi che ha curato il libro “Giuseppe Berto a 40 anni dalla morte” (2018).

La vera sfida della Calabria: guardare al futuro attraverso le identità dei territori

Gli itinerari hanno principalmente lo scopo di scoprire la ricca e multiforme identità che lega il linguaggio del cibo e quello della letteratura per restituire dignità alla storia e al destino di una terra come la Calabria, in cui emerge da secoli un paradosso: gli scrittori calabresi non sono contemplati nei programmi scolastici, tranne qualche eccezione. E’ raro trovarli nei manuali e nelle antologie che circolano negli istituti scolastici calabresi, tranne l’opera di Corrado Alvaro. È come se la storia di questa “estrema terra” rifiutasse di guardarsi con la specula dei suoi “occhi” e dei cultori e coltivatori della scrittura, che hanno raccontata, rievocata, rappresentata la sua anima. Forse perché inconsciamente i calabresi vivono un secolare complesso di inferiorità e di conseguenza hanno sviluppato un rapporto conflittuale con le proprie origini?  Il cibo, se fortemente radicato al locale e alla tradizione, protegge dalle forme degenerative in atto (come ad esempio le farine degli insetti e la maggior parte che viene prodotto dalle multinazionali che producono alimenti), con la cancellazione delle identità e la standardizzazione delle esperienze. Attraverso la nutrizione si scopre l’inganno di un sistema dominante che continua a depredare con la nostra complicità e a distruggere il rapporto con le identità dei territori, ma soprattutto con il linguaggio del cibo buono e genuino, che parla il dialetto dei saperi e dei sapori.

Palmi e Seminara il primo itinerario: scoperta, stupore e meraviglia   

   

Una prima importante esperienza è stata già vissuta con l’itinerario tra Palmi, la città di Leonida Repaci, e Seminara, che ha dato i natali a Barlaam, filosofo, teologo, scrittore e vescovo cattolico fautore della riunificazione delle due chiese cristiane, (1290-1348) e al suo discepolo Leonzio Pilato, primo traduttore dell’Iliade e dell’Odissea dal greco in latino, e maestro di greco di Boccaccio.  Una giornata piena di scoperte e sorprese quella che è si è svolta domenica 12 febbraio: visita al parco archeologico dei Taureani, ipogeo di San Fantino e infine la Casa della Cultura, grazie alla disponibilità dell’amministrazione comunale di Palmi che ha fatto aprire la struttura in via straordinaria, con i musei e la pinacoteca ricca delle opere donate da Leonida Repaci.

La giornata inizia con la visita al parco archeologico dei Taureani, poi è la volta dell’ipogeo di San Fantino e infine la Casa della Cultura. Grande disponibilità del Comune di Palmi, in particolare dell’assessore al Turismo Giuseppe Magazzù e ai responsabili Pietro Criaco e Giovanni Parrello, che hanno fatto aprire le porte della struttura. E poi l’impegno del Movimento culturale San Fantino che cura la gestione del parco archeologico con la speciale guida di Domenico Bagalà, ex dirigente del Comune di Palmi e studioso della storia di questo antico popolo italico. Diverse le sorprese che sono emerse. Il sentimento di stupore si è amplificato di fronte alla bellezza paesaggistica dei luoghi: sullo sfondo lo straordinario scenario dello Stretto, delle isole Eolie e della Costa Viola. L’incantevole visione ha suscitato tanta emozione. Domenico Bagalà con passione ha guidato i visitatori nei diversi punti dell’area archeologica, dall’anfiteatro romano alle sculture contemporanee che interagiscono con la storia di questa antico popolo, la cui civiltà si era espressa molto tempo prima dell’arrivo dei greci. Ma anche la torre saracena, una struttura rimasta integra, che regala una visione di grande suggestione e fascino. Ulteriore sorpresa ha destato la cripta paleocristiana di San Fantino, un luogo che conserva ancora importanti testimonianze architettoniche e figurazioni simboliche che risalgono all’età bizantina; ma tutto l’ipogeo rappresenta un complesso di grande importanza per i suoi valori storici e archeologici. Poi nel pomeriggio l’altra significativa scoperta, la Casa della Cultura. Accompagnati da due giovani guide volontari Domenico De Luca e Debora Serratore, il gruppo ha ammirato l’arte custodita nella pinacoteca in cui sono esposti alcuni dipinti di Guercino, Manet, Camille Corot, Giovanni Fattori, Renato Guttuso e opere di Marino Mazzacurati; poi il Museo di etnografia e folklore Raffaele Corso che documenta le attività legate all’agricoltura, alla pastorizia, alla ceramica, alla pesca, all’arte e alle tradizioni popolari; la Biblioteca comunale Domenico Topa, invece, accoglie 122.000 volumi. L’Antiquarium Nicola De Rosa ospita i reperti relativi a Taurianum, mentre la Gipsoteca Michele Guerrisi raccoglie oli, acquerelli e studi in gesso dello scultore calabrese. Sono inoltre presenti Il Museo Musicale dedicato a Francesco Cilea e Nicola Antonio Manfroce.

Ma questa esperienza si è arricchita ulteriormente sotto il profilo culturale e conviviale grazie all’ospitalità dello scrittore Santo Gioffré (autore di romanzi storici di successo, in particolare Artemisia Sanchez, da cui è stata tratta l’omonima fiction per Rai Uno; ma anche l’ultimo romanzo, Faida, sta ottenendo grande attenzione a livello nazionale), mettendo a disposizione la sua casa paterna a Seminara, per la degustazione del piatto tipico della zona, la stroncatura, sotto la direzione dello chef- studente Antonio Taverniti con l’assistenza degli altri studenti della VF.

La sorpresa del monastero ortodosso a Seminara

In un clima di convivialità con quei sentimenti che nascono in modo spontaneo quando si vivono esperienze così ricche di contenuti culturali ed emotivi, l’itinerario ha suscitato un’altra sorpresa inattesa: la visita al monastero ortodosso (che appartiene al patriarcato Ecumenico di Costantinopoli). Si trova nella parte più antica di Seminara, adiacente alla casa di Santo Gioffré, costruito nei primi anni del duemila e nato per merito della donazione dello stesso scrittore che comprende l’antica casa paterna e il terreno antistante. Il luogo sacro è stato aperto dal giovane sacerdote (igumeno) padre Benedetto (originario di Lecce), innamorato di questo posto e anche della storia che la Calabria esprime e conserva sotto il profilo culturale e spirituale, impregnata delle impronte bizantine e di valori religiosi vissuti da diversi uomini che hanno lasciato dei profondi segni nel corso dei secoli. Fondato nell’880 da sant’Elia il Nuovo, nato nell’823 a Enna, è stato distrutto nel catastrofico terremoto del 1783. L’importanza del monastero si evince dal fatto che lo stesso imperatore di Costantinopoli Leone VI il Saggio lo prese sotto la sua personale protezione, donando beni e rendite.  Il giovane igumeno ha spiegato i segreti che sono dietro la concezione artistica e architettonica della chiesa dedicata ai santi Elia il Giovane e Filarete l’Ortolano, un vero gioiello artistico completamente affrescato, secondo i canoni greco-ortodossi, con le figure di santi simbolo della spiritualità orientale. Tutta la chiesa è riccamente decorata da affreschi che riproducono episodi basilari della fede cristiana e figure di santi. Sono opera del sacerdote greco padre Basilio Koutsouras, esperto iconografo. La singolarità di questo tempio è data proprio dalle raffigurazioni pittoriche delle principali personalità del monachesimo bizantino calabro come san Nilo di Rossano, san Fantino, sant’Elia lo Speleota, san Bartolomeo di Simeri, san Ciriaco di Buonvicino, san Vitale di Castronuovo, san Giovanni Theristìs, san Niceforo del Monte Athos, San Nicodemo di Mammola etc.

Nel linguaggio del cibo i caratteri originali della cultura e dell’umanità

Il linguaggio della scrittura e del cibo: due forme espressive che si incontrano e dialogano tra di loro, se coltivati. Entrambi hanno dietro una storia millenaria di esperienze e di scoperte: di tradizioni, di lavoro, di sacrifici, di memorie, di passioni, di attese, di sogni, di sapori e saperi. Il loro dialogo nasce da un rapporto che mette insieme la terra, il cielo e la mano dell’uomo. Un legame che si svela nell’etimologia  delle stesse parole cultura e coltura. Ma anche la scrittura simbolicamente si identifica con la coltivazione della terra, come testimonia la soluzione dell’indovinello veronese che risale all’VIII secolo, storicamente considerato uno dei primi documenti scritti in volgare: «Se pareba boves, alba pratalia araba, et albo versorio teneba, et negro semen seminaba». («Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati, e aveva un bianco aratro, e un nero seme seminava»). Vale a dire l’atto di scrivere.

Il linguaggio del cibo nasce molti millenni prima di quello della scrittura. In questo fondamentale processo evolutivo della storia dell’homo sapiens, la natura ha subito una trasformazione. Uno dei più importanti antropologi, Claude Levi-Straus, ha spiegato come la capacità umana di manipolazione della natura abbia segnato una tappa cruciale con la scoperta del fuoco, dando luogo a sviluppi culturali di enorme importanza specialmente in campo alimentare; per cui la cottura di cibi è “l’invenzione che ha reso umani gli umani”. L’uso del fuoco da parte dell’homo erectus, viene attestato circa 500.000 anni addietro (ma alcuni studiosi di preistoria lo fanno risalire molto più indietro). Il fuoco marca simbolicamente una transizione tra natura e cultura e anche tra natura e società. Mentre il crudo è di origine naturale, il cotto implica un passaggio a un tempo culturale e sociale (C. Lévi-Strauss, Il totemismo oggi, 1962; dello stesso autore si veda Il crudo e il cotto, 1964).

Da bisogno primario per la sopravvivenza il cibo si è così trasformato in esperienza di convivialità, attraverso una elaborazione culturale, acquisendo simbolicamente anche una dimensione di sacralità. Letteratura e cibo, con i loro linguaggi, apparentemente distanti, hanno generato il fondamentale patrimonio materiale, culturale e spirituale che possiede una comunità o un popolo. Anche il cibo è racconto, creazione, trasformazione (si pensi solamente a quanta storia ci sia dietro ad un prodotto coltivato con amore e cura). Per cui è necessario ricreare l’antico e originale dialogo, ritornare al linguaggio della natura contro la deriva artificiosa e artificiale a cui spinge l’uso incontrollato della tecnologia, che di fatto allontana l’uomo da Madre Terra.  Un esempio di questa degenerazione  è la farina degli insetti (grazie all’approvazione dell’Unione Europea), un passo verso l’abisso con delle conseguenze che non si possono prevedere sotto il profilo della salute e della cultura alimentare, in quanto recide in modo definitivo il rapporto tra il lavoro dell’uomo, la storia e l’identità del territorio, ma anche la memoria e la sacralità del cibo. E’ nella natura che si genera la cultura e l’arte; senza questo fondamentale contatto l’umanità è incapace di generare originalità, emozioni, sentimenti e bellezza, perdendo il linguaggio intuitivo, creativo, riflessivo, contemplativo con il mistero del creato e delle sue creature. La  civiltà millenaria che abbiamo ereditato – è necessario ricordarlo – con i principi, i valori culturali ed estetici che hanno generato la civiltà classica greca e latina, è scaturita dal mito: dal sentimento originato di fronte al mistero della creazione cosmica. Ed è bene mettere in luce che il grande patrimonio classico—culturale, filosofico, etico ed estetico—pone al centro i fondamentali concetti di paideia (mondo greco ) e di humanitas (mondo latino). Recidendo il legame archetipico tra creato e creatura, tra uomo e natura, si produce un’involuzione culturale e spirituale; a meno ché gli esseri che furono umani, non scelgano di diventare dei prodotti industriali, non più figli di Madre Terra, ma della tecnologia e quindi, diventare esseri transumani che si credono dei, preda del delirio di onnipotenza, di cui siamo spettatori o protagonisti inconsapevoli, che sta pregiudicando il futuro delle nuove generazioni. Un passaggio che decreterebbe la fine dell’homo sapiens e il trionfo inarrestabile e irreversibile dell’homo technologicus.  L’uomo, nel suo significato etimologico, culturale ed esistenziale, è humus, zolla: il nome Adamo, nella sua radice ebraica, infatti riconduce alla terra. Con il prosciugamento della sacralità si inaridisce anche la fonte dell’umanità e dell’anima, al di là del sentimento religioso che si può vivere o sentire.