La malinconia l’avevi addosso come un vestito

La malinconia l’avevi addosso come un vestito

Di Vincenzo Calafiore

5 Aprile 2022 Udine

 

E tu la malinconia te la potavi addosso come un vestito, con quegli occhi grandi, smarginati, che guardavano lontano.

Ti stava bene quel vestito addosso anche quando camminando in riva al mare ti fermavi a guardare i gabbiani; chissà a cosa pensavi e in quale altro posto eri: i tuoi capelli ricci che del vento si lasciavano nelle sue mani, ti davano quell’aria dolce e serena per cui mi sono innamorato. Avrei voluto tanto crederti, credere in quell’amore leggero come la pioggerellina d’aprile che senza rumore pina piano inzuppa penetra la terra.

Da qualche parte, in mezzo a fogli e appunti, libri, deve esserci la tua fotografia; mai potrai sapere quanto me la sono portata dietro, per cinque sei anni, poi l’ho messa da qualche parte sul tavolo di lavoro.

E ritrovarla mi ha fatto male, riguardarla mi ha intristito, mi sono tornate in mente le tue ultime parole che ho fissate in testa per non dimenticarle, non le ho mai più dimenticate.

Le mie parole erano nei miei racconti che tu non hai letto, l’unico modo d’armati sarebbe stato di lasciarti amare come solo un uomo sa fare; e tu non l’hai mai permesso!

Cercai l’amore in te, in quel volto, in quel corpo che mi ha stregato sin dal primo momento; in questi mi perdevo e di loro rigo dopo rigo nelle poesie, nei miei libri, con loro sognai di morire nelle tue braccia.

Sono testardo, uno che non molla? Ma sei stata proprio tu a insegnarmi che bisogna essere sincero a qualsiasi costo, anche di perdere, onesto a costo di risultare stupido.

Avevi bisogno assoluto di libertà per questo trascorrevi i tuoi giorni là dov’erano i gabbiani, perché loro hanno ali di libertà; mi hai lasciato col demonio che bruciava in me. Da quando sei andata via i miei occhi sono stati sempre tristi!

Ho cominciato ad amare gli angoli bui perché erano sporchi, senza anima, di miseria morale, una solitudine che per tanto tempo paragonai alla miseria di Calcutta, alla povertà di Casablanca.

Con le valigie che mi tagliavano le mani me ne andai senza salutarci per quel viale che conduceva al sottopasso verso la stazione, illuminato dalla  fievole luce di neon quasi finiti.

Lasciarti  fu come salire la vetta di un monte, senza nessuno con cui condividere il dolore, la solitudine che mi aspettava su quel marciapiede in attesa di un treno che mi portasse via lontano da te.

Adesso guardo il mare, quel mare che mi è rimasto addosso come una cicatrice.

L’ultimo mio libro è stato l’inno all’amore scritto da un uomo che non crede più all’amore.

E non a caso l’hai voluto leggere!

E mi odiavo quando mi allontanai su quella strada, ti maledicevo per non avermi trattenuto, ma poi nel tempo l’odio nei tuoi confronti  divenne amore, un amore pazzesco, che ancora adesso mi fa esclamare: che amore è stato! Non parlo del tuo corpo, delle tue labbra, delle tue mani. Parlo della poesia che c’era in noi, in quei lunghi baci di notte davanti a un mare appena appena rischiarato da una luna beffarda!