La grazia, il coraggio, la solitudine delle donne

La  grazia, il coraggio, la solitudine delle donne

Di Vincenzo Calafiore

23 Febbraio 2022 Udine

“ AD QUAE NOSCENDA ITER INGREDI,

TRANSMITTERE MARE SOLEMUS,

EA SUB OCULIS POSITA NEGLIGEMUS ! “

                               ( PLINIO IL GIOVANE )

E’ per me rendere omaggio alle “ Donne “ un qualcosa da dentro, e per poterlo fare in qualche maniera ho scelto forse il mezzo più insidioso che si possa conoscere, cioè con

l’unico che conosco: la scrittura; per raggiungerle ovunque esse siano omaggiandole quasi ogni giorno con dei  “ pezzi “ atti a evidenziare le fondamentali differenze esistenti tra noi uomini e loro. Ma anche la differente loro maniera di amare, mentre per noi uomini è una esclusiva apertura di gambe, ma così, a questa maniera va a finire che invece di amarla questa Donna, la sporchiamo, la deturpiamo nella sua integrità, nella dignità, nella sua libertà, nel suo essere “ umana “ e non oggetto di piacere; ma noi uomini non ci siamo limitati solo a questo, siamo riusciti e da sempre oltre a discriminarla in tutte le forme possibili, anche di eliminarla e nelle maniere più terribili, più sanguinarie: il suo libero omicidio! Libero perché le inadeguate leggi esistenti non la tutelano e così accade purtroppo che chi uccide una donna dopo pochi anni, rari gli ergastoli, è in libertà e chi ruba per mangiare subisce invece il pesante braccio della legge.

Ma bisognerebbe insegnarlo nelle scuole alle nuove generazioni cosa significhi donna e non certo quelle di “ Porno facile “ o siti simili che non rappresentano affatto la donna, ma solo ed esclusivamente la bestialità, l’accoppiamento animalesco; mentre la sessualità dettata dall’amore è tutta un’altra storia.

Detto questo o meglio premesso ciò per poter omaggiare il coraggio delle donne per essere donne mi rifaccio alla tragedia di Ecuba.

Non prima di aver ringraziato mio padre che un giorno mi disse: “ Se non sai e non conosci le cose, stai zitto e non parlare, perché parlandone potresti diventare ridicolo e stupido.. “  Da quel giorno la mia vita è cambiata, è da allora che divoro libri e ancora oggi non mi sono fermato; ma so anche rimanere zitto e in acolto se non conosco o non ne sono informato.

Ecuba è una tragedia di Euripide rappresentata in una data incerta attorno al 424 a.C., ispirata alla figura di Ecuba, moglie di Priamo.

Tragedia atipica e considerata, secondo i canoni “ aristotelici “ antichi, addirittura non rappresentabile, le “ Troiane “ di Euripide e su quel modello anche l’omonima tragedia di Seneca, andata in scena per la prima volta nel 415 a.C. è invece opera di sconcertante modernità.

Si tratta dell’unica tragedia nella quale c’è un personaggio costantemente in scena: lei, Ecuba, regina di Troia e moglie di Priamo al quale aveva generato 50 figli. Ecuba Grande Madre la cui presenza ieratica eppure umana, sacra eppure tutta terrestre è il cardine vivo e doloroso della rappresentazione, l’epicentro di dolore e di forza attorno a cui ruota tutta la scena.

Tutto ormai è compiuto, la città è stata presa dai Greci, gli uomini sono stati uccisi ed Ecuba e le principesse Troiane, adesso schiave del nemico, attendono di conoscere il proprio destino.

Ecuba quindi il mito d’ogni tempo sempre vivo, la Donna!

Si susseguono, davanti a Ecuba, le donne, ciascuna con la propria tragedia personale e collettiva: Cassandra la vergine pazza, veggente e miscreduta; Andromaca, madre dolorosa, vedova di Ettore, alla quale verrà sottratto e ucciso il figlio Astianatte; ( Polissena e Astianatte sono al centro della tragedia di Seneca); Elena l’infedele, la causa della guerra infinita di Troia.

In questa tragedia tutta di donne è costante la distruzione psicologica e fisica. Euripide rovescia anche la figura di Elena, bella e ambigua come un serpente, in cui l’eterno femminino si sposa a un’affilatezza da sofista: in quella che è una vera disputa filosofica, un agone giudiziario, le ragioni di Elena la fanno apparire anche lei, non meno vittima delle altre, non meno obbligata a difendersi, coi mezzi che ha, che la sorte e gli malevoli le hanno dato. Anche lei a suo modo, vinta.

Ecuba, con la sola magia del gesto, sistemando il velo nero attorno agli occhi folgoranti evoca lo chador d’altre donne d’altre latitudini ed epoche, altre donne violate e dissacrate, vinte in tutte le guerre e nel quotidiano più vicino a noi. Ecco che nelle parole di Cassandra, di Andromaca vibra lo scontro di civiltà che viviamo o crediamo di vivere, oggi: chi sono i barbari, se i Greci raffinati e civilizzati si macchiano di tanti delitti? Euripide, con grande audacia, per i suoi tempi, portò in scena il punto di vista dei vinti, degli sconfitti, di quelli che i Greci chiamavano “ barbari “. La storia di Troia consente di parlare di fatti molto recenti, ovvero il sacco dell’isola di Melo da parte dei raffinati, civilizzati, imperialisti ateniesi….gli americani della Grecia antica.

Nelle sue parole e nelle parole di Seneca, risuonano anche oggi, anche per noi, millenni dopo, la stessa domanda, lo stesso dilemma etico, la stessa condanna: la guerra nuoce a vinti e vincitori, perché li allontana dall’umanità che tutti condividiamo.

Umanità che dobbiamo coltivare, coi mezzi millenari della cultura, dell’arte, della parola.

In questi tempi incerti solo la Parola e la bellezza e la verità che essa evoca e custodisce ci potrà salvare; allo stesso modo La Donna, sia essa Ecuba, Elena, Cassandra, Andromaca, Maria, Rita, Caterina, Adriana, Romana, Sabrina…. Donna che ha coraggio, dignità, ma soprattutto in se il dono della vita, dell’amore, del sapere amare!