La Primaria “don Milani” di Vena realizza una panchina rossa nel segno delle donne

Le scarpe rosse e la panchina, ormai diventati simboli della lotta per i diritti delle donne e contro la violenza di genere. Per la ricorrenza della giornata  internazionale (25 novembre), anche la Scuola Primaria di Vena “Don Milani” del Primo Circolo dell’Istituto Comprensivo di Vibo Valentia, diretto dalla DS Domenica Cacciatore, ha sentito la responsabilità di sensibilizzare le coscienze a partire dai bambini.

Con una coreografia scandita dalle parole della “Ballata triste” della cantante Nada e dai palloncini rossi, mercoledì (24 novembre) è stata inaugurata l’installazione di una panchina, realizzata con le pedane riciclate,  grazie alla collaborazione di un genitore. La manifestazione  ha coinvolto tutto il personale scolastico e le famiglie ed è stata preceduta da momenti di educazione al rispetto verso le donne. Nella loro semplicità e spontaneità i piccoli allievi hanno messo in luce il ruolo fondamentale delle donne, senza le quali “il mondo scomparirebbe”.

Ormai si ha consapevolezza dell’importanza di educare già dall’infanzia al rispetto delle diversità, per combattere gli abusi contro le donne e la violenza di genere. Nonostante si stia cercando di animare il dibattito sul triste e tragico fenomeno, si fa molta fatica ad arginarlo: sono molte le vittime della brutalità che arma le mani dei maschi. Le cronache impietosamente testimoniano i drammi che colpiscono molte donne e di conseguenza i riflessi negativi che si trasferiscono nel contesto familiare e sociale.  Evidentemente le risposte delle istituzioni non bastano. È necessario percorrere anche altre vie per scongiurare comportamenti aggressivi e violenti che ledono la dignità e la libertà delle donne. Ancora vengono considerate oggetto, proprietà, possesso. Sono modelli insiti ad una società che mette in primo piano il successo personale, la competizione, lo sfruttamento e il dominio. Oggi la donna ha raggiunto una consapevolezza del proprio ruolo sociale e politico e rivendica libertà di scelta e autonomia. Conquiste che hanno messo in crisi il paradigma antropologico del potere patriarcale maschile che si è trasformato in una sorta di darvinismo sociale, a cui non si sottraggono neanche le donne che introiettano questi schemi o modelli di comportamento nel momento in cui sono investiti di determinati ruoli di potere o accettano di recitare una parte prevista da un copione già scritto. 

In questi tempi il vuoto e cieco materialismo, l’egoismo, l’individualismo, il narcisismo e tutte quelle forme narcotiche che ne derivano, sono diventati linguaggio, dose quotidiana di veleno che entra nelle coscienze fino all’assuefazione, andando poi a sedimentarsi nella parte più oscura della personalità, l’inconscio.

La donna, attraverso il suo esser donna, con la rivendicazione della sua dignità, con il percorso di emancipazione, ha messo in crisi questa logica sottostante alla concezione del potere come possesso, come conquista, come soddisfacimento di desideri di predazione. L’ostentazione del potere nelle sue diverse e molteplici forme e linguaggi (come nel potere delle stesse parole), rappresenta una corazza per nascondere le paure, che sfocia in un comportamento irrazionale violento che poi va a scaricarsi in modo feroce sul corpo, non potendo più avere l’anima.

In determinate dinamiche, specialmente nei rapporti sentimentali e dentro la famiglia, quando la donna rivendica una libertà di scelta, costringe l’uomo ha guardarsi nello specchio e così si scopre nudo. Quando si è nudi si diventa disarmati, ed emerge la vera identità: crollano le certezze, le maschere smascherate e prende il posto la propria fragilità interiore e la paura dell’abbandono. Ma il fenomeno della violenza sulle donne non è solo da ricondurre ad una questione di genere. La storia degli ultimi 50 anni ci offre una testimonianza emblematica, come è accaduto nel Cile e in Argentina nei primi anni ’70, con lo stupro di regime compiuto dai governi autoritari. La violazione del corpo femminile era concepita come strumento di potere: punire le donne che si opponevano al regime, non solo in quanto oppositrici, ma anche perché donne che si erano ribellate al loro ruolo tradizionale e familiare. Il loro corpo così veniva spersonalizzato e diventava terra di conquista e di usurpazione, un luogo pubblico su cui esercitare dominio e predazione. Questo tipo di persecuzione era già praticato all’interno delle mura domestiche in cui la donna doveva restare ai margini negandole l’autodeterminazione, la soggettività e l’individualità.

Significative le parole della canzone di Nada che ha fatto da colonna sonora alla coreografia a cui hanno dato vita gli allievi della “Don Milani”,  brano che fa parte dell’album “L’amore devi seguirlo” (uscito nel 2016): “ … Ma poi una parola tira l’altra e la storia/ si macchia di qualcosa che era da venire/ e una parola tira l’altra e diventan pietre/ che saltano sui muri e si mettono di traverso …  E il sangue corre alla testa, non si può fermare/ i figli sono a scuola, nessuno può sentire… Che amore, che amore, finito così/ tra le pareti di una stanza e una miseria prepotente/ Amore che amore, finito così/ tra una spinta, una caduta, un pugno e una ferita…