La Piana Campana. Una terra senza confini

In mostra al MANN i tesori del ventre italico

di Fiorella Franchini

Virgilio dice che la Campania è così chiamata da Capy [compagno d’arme di Enea]. Ma Livio la vuole così detta dai luoghi campestri. E’ noto che fu fondata dagli Etruschi, dopo aver osservato l’auspicio di un falcone che in lingua etrusca si dice capis, da cui prese il nome anche la Campania”, riferisce il prof.
Sosio Capasso; secondo altri, il nome deriverebbe dal termine osco Kampanom, con il quale si indicava l’area nei pressi della città di Capua antica, per secoli centro principale della Pianura Campana.

Dalle propaggini più settentrionali fino al mare, dal Neolitico all’Età del Bronzo, da Cuma a Pozzuoli, da Capua a Napoli, la grande piana è stata abitata da popoli e culture diverse che si sono incontrate, scontrate e amalgamate in un fertile serbatoio territoriale che è sempre stato capace di rinnovarsi e di arricchirsi. Con il nuovo allestimento “La Piana Campana. Una terra senza confini”, il Museo Archeologico Internazionale (MANN) di Napoli, prosegue il suo progetto di far conoscere al mondo la storia millenaria di questa regione che fu chiave del Mediterraneo, già prima dell’Impero Romano, inserendosi nell’ambito di un più ampio piano di studio dell’antico territorio campano e delle interazioni fra le diverse popolazioni che lo abitarono.

Ottocento reperti, nella maggior parte inediti e provenienti dai depositi, per raccontare origini e contaminazioni tra Oschi, Sanniti, Greci ed Etruschi, i semi fecondi del ventre italico. Il percorso espositivo si articola in due sale: la prima dedicata al territorio, la seconda incentrata sulle collezioni del MANN. La sezione territoriale segue uno sviluppo topografico e cronologico, evidenziando gli episodi più indicativi di alcune specifiche aree, come quelle di Gricignano e Carinaro. Nelle vetrine sono esposti i reperti provenienti dagli scavi US Navy e Treno Alta Velocità nella provincia di Caserta che, dal Neolitico sino alla nascita delle grandi città come Cuma, Capua, Napoli, nonostante le ripetute eruzioni, è stata sempre popolata per la ricchezza e la fertilità della terra.

La Valle del Clanis ha restituito una selezione di corredi funerari che attestano le varie classi di età della popolazione e il diverso ruolo sociale dei defunti: dalla donna al guerriero/cacciatore/sacerdote, dai giovani di ambo i sessi, ai bambini, seppelliti in enchytrismòs, esempi d’inumazione in vaso. Di notevole interesse è il recupero di una lancia in ferro, frutto del paziente lavoro del laboratorio di restauro del Museo partenopeo che ha curato il ripristino di molti reperti.

Per l’area ausone-aurunca, in esposizione, la tomba 89 della bambina di Cales, con reperti di pregio come la conocchia in vetro blu e i calzari in bronzo. E’ possibile ammirare anche i tesori del santuario della dea Marica alla foce del Garigliano, da cui proviene un patrimonio straordinario di ex-voto e terrecotte architettoniche, nonché i reperti del santuario caleno extraurbano di Monte Grande, oggetti mai esposti al pubblico che spiccano per qualità di fattura.

Un viaggio affascinante alle origini della Campania che testimonia e rinsalda la consapevolezza di radici antiche e profonde ed esige un continuo sforzo di ricerca, di studio e di collaborazione tra le istituzioni, tra cui la Direzione regionale Musei Campania, la Regione Campania, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio- SABAP del Comune di Napoli, la SABAP per l’area Metropolitana di Napoli, la SABAP di Caserta e Benevento, con cui sono stati sottoscritti due protocolli d’intesa, il Parco Archeologico dei Campi Flegrei, e la collaborazione con la Saint Mary’s University (Halifax, Canada) con il coordinamento di Emanuela Santaniello e Sveva Savelli.

Un progetto che, rafforzando le sinergie di cooperazione, permette di creare un centro per l’archeologia della Campania settentrionale, di liberare dalla polvere dei depositi centinaia di oggetti capaci di narrare Storia e storie ancora nascoste, per vedere noi stessi attraverso le cose. Un patrimonio prezioso che valorizza la terra campana, da mostrare al mondo, per “far tesoro di quello che abbiamo imparato e di quello che ci siamo portati dietro dal vecchio.”