Alla ricerca del sorriso perduto

La giovane poetessa vibonese Stella Mazzeo, con la sua silloge Al di là di un sorriso, ha partecipato al recente Salone internazionale del libro di Torino. Composta di 30 liriche, la raccolta poetica con uno stile essenziale e incisivo svela le inquietudini esistenziali che agitano i presentimenti e gli enigmi di una giovane donna di fronte ad un futuro in forte crisi di identità, ma soprattutto di humanitas. I testi sono impastati con la farina dei nostri tempi ma con un lievito antico. E sembra di sentire una voce che parla un linguaggio semplice come quello dell’acqua, invisibile come quello del vento, oscuro come quello della notte.

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d’amore.

Alda Merini, A tutte le donne (1931 – 2009)

Io non sono una donna. Sono una cosa neutra.
Sono un bimbo, un paggio e una decisione ardita,
sono un raggio ridente di sole scarlatto…
Io sono una rete per tutti i pesci voraci,
sono un calice a onore di tutte le donne,
sono un passo verso il caso e la rovina,
sono un salto nella libertà e nel sé…
Io sono il sussurro del sangue nell’orecchio dell’uomo,
sono una febbre dell’anima, della carne voglia e rifiuto,
sono una targa d’ingresso a nuovi paradisi.
Io sono una fiamma, che cerca vivace,
sono un’acqua, fonda, ma audace fino al ginocchio,
sono fuoco e acqua in rapporto leale, e senza condizioni

Edith Irene Södergran, Io non sono una donna  (1892 – 1923)

La poesia che sa esser donna

“La nudità rinfresca l’anima” si legge in un aforisma di Alda  Merini (Aforismi e magie, 2003). Le donne hanno il coraggio di offrire il corpo dei loro sentimenti senza veli e senza tema di essere scoperte. Mostrano la loro luce e la loro oscurità, perché la donna porta dentro la propria natura il mistero di creatura che può dar la vita ad altre creature. Per questo possiamo desumere che la poesia è donna quando partorisce la nudità. L’uomo invece ha paura di scoprirsi, per indole tende a nascondersi, forse perché ha timore di svelare l’altra faccia della luna e resta ancorato nel su emisfero.

E in questa  lunghissima traccia poetica lasciata dalle donne nella storia, da quella più remota a quella più prossima ai nostri tempi (il pensiero va a Saffo, alla locrese Nosside, o ad Emily Dikinson, a Sibilla Aleramo o la stessa Alda Merini, per citare alcune delle figure più esemplari) ci viene incontro la silloge di una giovane poetessa, Stella Mazzeo (tra qualche giorno compirà 21 anni), Al di là di un sorriso (Gruppo Albatros, 2020). Le sue liriche hanno il taglio di un bisturi e  sono impastate con un lievito antico nella farina quattropuntozero (4.0) dei nostri tempi. Ma sembra di sentire una voce che parla un linguaggio semplice come quello dell’acqua, invisibile come quello del vento, oscuro come quello della notte. E ti sorprende perché il dettato poetico ha una innocente e disarmante maturità: nelle pieghe dei suoi versi si può percepire l’impronta classica di quel filone conosciuto come gnomico, una delle forme letterarie più antiche, senza alcuna pretesa di essere sentenziosa.

Stella Mazzeo fa la spola tra la Calabria e Torino (dove frequenta la facoltà di Giurisprudenza). Con il distacco dalle origini ha compreso, suo malgrado, che l’esistere si sia caricato di enigmi e la sua anima patisce la travagliata sorte dei figli di Calabria, costretti a sradicarsi e vivere la diaspora:

Le gambe ti urlano di scappare/ la responsabilità ti chiede di restare/ la testa ed il cuore in un conflitto esistenziale.// Terra mia ti riusciranno mai ad amare?/ sei persa tra le montagne ed il mare/ tra chi ti usa per scalare/ e chi piange nel vederti affondare./ la tua solitudine è il dolore dei tuoi figli,/ti lasciano ma vogliono ritornare/ ad aiutarti a sbocciare. (Calabria) 

Così tende i suoi interrogativi come un arco in mani occulte per cercare delle risposte che spesso si vestono di ignoti presagi:

Del mio continuo poetare/ chi mai vorrà ragionare?/ Il mio insaziabile pensiero/ sarà alle risa gettato/ per la troppa tristezza di cui è impregnato?// Al mio corso che appare immortale/ qualcuno vorrà domandare/ perché sentivi tanto male?// Ai miei versi amici/ volgeranno gli occhi/ tenderanno gli orecchi/ o si rivolgeranno ai più frivoli diletti? (…) (Ricerca di ciò che invano cerco).

Guardando il confine dell’orizzonte sempre più confuso, scioglie gli oracoli nel gioco più semplice che amano fare i bambini:

nella testa dolore. /Ricerca del buio/ silenzio amico/ spogliami di ogni mio vestito,/ nuda la mia anima/ la ricerca dell’io/ nell’indugiare penoso/ nell’assetto scontroso/ nel cuore di bambino/ nel giocare a nascondino/ a chi trova prima me/ uno due e tre. (Confusione)

I versi di questa poetessa sono come un’antenna che capta gli echi degli ultrasuoni, perché Stella Mazzeo ama viaggiare tra le onde marine ed è provvista, come i delfini, di particolari sonar. Ma è anche una lirica che ha voglia di danzare con le parole, come amavano fare i poeti nell’antica Grecia, e quasi tutti i componimenti traducono il ritmo cadenzato delle filastrocche. E’ come se volesse giocare col fuoco che scaturisce dalle parole, che in certi momenti divampa e i pensieri diventano roventi come il metallo. Ma questa autrice ha già imparato a temprare la materia incandescente delle parole con lo spirito dell’età della fanciullezza che anela a vivere con spensierata leggiadria.

“L’ispirazione nasce dalla necessità – confessa. Non mi siedo mai per scrivere, ma sento il bisogno di farlo. Non decido ‘ora mi siedo e scrivo qualcosa’. Mentre scrivo non so neanche cosa scrivo, nel senso che lo faccio in modo spontaneo. Se mi dovessi sedere per scrivere non sarei ispirata. Sono spinta a farlo per dare senso a quello che accade. La scrittura per me è una sorta di terapia della coscienza anche senza rendermene conto.”

Il volume che raccoglie le poesie di Al di là di un sorriso è stato presente al recente Salone internazionale del libro di Torino (14 – 18 ottobre). Una vetrina importante in considerazione della sua età. Composta di 30 liriche, la silloge svela ciò che si nasconde “al di là del sorriso”, le inquietudini che affollano la mente e i presentimenti di una giovane donna di fronte ad un futuro in forte crisi di identità. E la natura liquida di questa età dei post, secondo l’interpretazione di Zygmunt Bauman che, con la disintermediazione e il populismo social adesso si è trasformata in fumo alquanto tossico. Nella tessitura stilistica si avverte la tensione che sta attraversando un’esistenza come la sua, protesa a rompere l’involucro che contiene il suo futuro, come un seme che ha desiderio di terra e di cielo per mostrare il suo antico germoglio. E Stella Mazzeo infatti rivela che le sue poesie “nascono da una crepa”, da un’esperienza di rottura, come è accaduto nel post Romanticismo con la “perdita dell’aureola” del poeta nella seconda metà dell’Ottocento, causata dall’irrompere del modello industriale di stampo borghese che poneva come valori supremi il profitto e così l’umanità si avviava ad essere non più fine, ma strumento nelle mani del mercato, e nella nuova società veniva reciso il rapporto di armonia tra uomo e natura, tra linguaggio delle emozioni, dei sentimenti, e linguaggio del prodotto, della efficienza tecnica.

L’ispirazione che ha generato la maggior parte delle poesie inserite in questa raccolta è offerta da motivi esistenziali e sociali; ma, osserva l’autrice, non c’è una diretta correlazione tra i fatti che accadono fuori e quello che invece si agita dentro: “L’esterno può essere perfetto, ma non necessariamente questo va a rispecchiarsi nella mia visione o nei miei sentimenti.” In questo confuso confine la poesia conserva il potere di restituire l’humanitas: dopo aver combattuto la sua eroica resistenza contro la perdita dell’aureola di fronte ad un potere che soverchia ogni cosa:

Speranza, unica ragione/ che mi faccia uscire dalla prigione/ delle vite cadenzate dalla monotonia ordinate/ dalle emozioni stabilite/ dalle azioni già decise/ dalla mancanza di tensione/ per ciò che si reputa illusione. (Speranza)

E il dettato poetico diventa denuncia socio-politica, non solo testimonianza umana:

Il terrorismo psicologico/ che annulla la meritocrazia/ la ribellione/ il miglioramento./ Statico. Fermo./ Un mondo inferno.

L’ultimo volo dell’Albatros

E finalmente un Albatro passò; attraverso la nebbia era venuto; / come se fsse un’anima crisiana/ in nome del Signore gli demmo il benvenuto. (vv. 63 – 66)

… “Che Dio i salvi vecchio marinaio,/ dai demoni che tanto ti tormentano! – / Perché guardi così? – Con la balestra /                       io stesi morto l’Albatro (vv. 79 – 82) (Samuel T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio, parte I, 1798)

… Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini con le sue ali di gigante.
(C. Baudelaire, L’albatros, 1861)

L’atto estetico di Stella Mazzeo che emerge da queste liriche è quello di urlare la disarmonia, la distopia, di far vedere “la crepa” aperta nella geologia esistenziale e umana, per salvare la bellezza – lei che ha nel sangue il battito del respiro della concezione classica (ha studiato al Liceo classico “Morelli” di Vibo Valentia) – perché solo l’arte, la poesia, il bello e il buono, possono salvare il mondo dal disastro che incombe con l’irreversibile e inarrestabile progredire della tecnologia e del transumanesimo. Platone, in questo passaggio, l ha prefigurato, descrivendo il fondamentale concetto della kalokagathia :

“Chi si dedica alla ricerca scientifica o a qualche altra intensa attività intellettuale, bisogna che anche al corpo dia il suo movimento, praticando la ginnastica, mentre chi si dedica con cura a plasmare il corpo, bisogna che fornisca in compenso all’anima i suoi movimenti, ricorrendo alla musica e a tutto ciò che riguarda la filosofia, se vuole essere definito, giustamente e a buon diritto, sia bello sia buono” (Platone, Timeo).

Quell’antica immagine che “l’uomo è misura di tutte le cose” (Protagora) ritradotta da Albert Camus ne “il pensiero meridiano” (L’uomo in rivolta, 1951), sembra ormai ammuffita nei musei. La “smisuratezza”, il delirio di onnipotenza, il dio denaro sono ormai il nuovo sturm und drang che sta annientando il sentimento estetico che ha dato luce ed energia alla civiltà classica, poi a quella umanistico-rinascimentale e illuministica e, infine, a quella romantica, in cui l’uomo – con tutte le sue alterne, inquiete esperienze e dissonanze – ancora era misura del mondo e di se stesso, e avvertiva la Natura come lo specchio della propria anima, proiettando i suoi aneliti, i suoi sogni sconfinati e la sua infinita finitezza, come emerge ne L’infinito di Leopardi, o nella tormentata ed eccezionale esperienza lirico-estetica di Friedrich Holderlin, il quale comprende, come nessun altro poeta del suo tempo, che con il passaggio alla modernità tutte le sicurezze sarebbero scomparse per sempre: e l’uomo, esposto alle intemperie, ne sarebbe diventato un esiliato, un pellegrino residenziale. La perdita più grande che il mondo moderno porta con sé, è il rapporto sacro con la Natura e con l’inconoscibile: con il progresso non c’è più possibilità di un re-incanto di ciò che è stato desacralizzato, razionalizzato e trasformato in mero oggetto e merce.

L’uomo è quindi separato da ciò che riempiva di significato sacro la sua vita quotidiana, dall’immagine visibile o invisibile della divinità. Basti osservare – e sembra banale ribadirlo – che il linguaggio delle emozioni e dei sentimenti non potrà mai essere partorito dalle macchine; così come la sensibilità estetica prodotta da una sofferenza, dalle mani che accarezzano, dalla voce che trasmette patimento e compatimento, gioia e dolore, da una musica che evoca remoti accordi. Ogni parola, così come ogni creatura, si porta dentro una storia ignota che affonda le radici in un passato lontano che fa di ogni essere umano un miracolo. Ma tutto questo viene centrifugato dall’abitudine, dall’adattamento che ottunde la consapevolezza di se stessi, e inevitabilmente la tecnica erode ogni emozione. E’  il non-pensiero dei luoghi comuni, che ottunde la coscienza: è la superficialità che fa scomparire le cose, perché il luogo comune avvolge il mondo nella nebbia di ciò che è dato per scontato, creando un pregiudizio. Si genera soprattutto l’ossessione del controllo e della sicurezza, tipici del delirio di onnipotenza degli psicopatici che prendono in mano il potere, il cui dominio è assicurato proprio dalla potenza incontrollabile della tecnica e della tecnologia. pensare di affidare la nostra sorte in modo ottuso alle macchine e alle applicazioni, significa dar corso all’inesorabile processo di disumanizzazione.

La poesia invece ha il potere di restituire la dimensione intuitiva, inventiva e per certi versi istintiva, che ispira l’opera meravigliosamente imperfetta della fattura umana con l’alchimia del linguaggio simbolico, che rigenera la libertà creativa ed espressiva dello Spirito: 

Poesia mia magia/ mente che vai via/ brividi e tachicardia/ mente che si perde/ inizia e non s’arrende/ scrive e non capisce/ legge e si stupisce (Magia).

“Forse la radice profonda della scienza è la poesia: saper vedere al di là del visibile” afferma il fisico Carlo Rovelli ne L’ordine del tempo (2017). La poesia di Stella Mazzeo quindi è un atto di Coscienza e di Scienza contro la seduzione delle “magnifiche sorti e progressive”(Leopardi, La ginestra). Il filo disteso nei suoi versi intesse la trama della sua storia, interroga gli accadimenti, per comprendere il senso, non del proprio destino, ma la sua destinazione:

Uomo/ sei il più grande scherzo/ alla natura il più alienato/ perché mai sei nato?// Vaghi senza sosta/ delle bestie la più scomposta/ sei così ignaro di tutto,/ così solo in questo lutto.// Nessuno potrà mai capire/ quello che tu non sai neanche dire.// L’Orfano degli orfani/ senza tetto tra gli sfollati/Pretendi di capire,/ma sei qui solo per morire // Nato da un egoismo/ o da un semplice istinto/ erri nella nebbia/ che cerchi di far sparire// finché vinto non  ci torni/ perché è l’unica che ti conforti // La Vita matrigna si compiace/ delle tue scelte obbligate/ ma il dubbio forse/ la tua vera madre. (Uomo)  

Leggendo i diversi testi dalla prima lirica fino all’ultima, sotto il profilo semantico, domina la prevalenza dell’infinito. “Quando – testimonia la poetessa – si cerca di capire ciò che è tutto, si comprende al contempo la nullità. Il paradosso è chel’infinito non ce l’abbiamo in mano, ma sappiamo che esiste.” E Stella, come le tante “stelle” che pulsano nel firmamento, non vuole rinunciare a sentirsi in corrispondenza con la maternità del creato:

Le Stelle sorelle a dirmi io c’ero/ quando il mare partoriva/ la tua anima smarrita/ quando la sabbia ti cullava e/ tua madre ti accarezzava/ quando la luna ti baciava/ e la notte ti salvava. (Balia della notte).

Scrivere poesie per lei è un liberare le energie segrete come accade in una fusione nucleare. Basta scorrere i titoli per comprenderne il taglio e il travaglio e poi toccare la tempra dell’ispirazione:

Del mio cor la cui procella/ infinita e mai iniziata/ tanto bella e dannata/ mai fu della mente alleata.// Della quiete, de l’alberi il silenzio/ del vento l’assenza,/ nemica sempre fia/ della nave che tenta d’andar via.// E dell’acqua piana/ cui nessuno s’allontana/ solo alla rapida lontana/ il mio cuor invano brama.(Brama di vento)

Sembra di risentire la giocosità che scaturisce dai versi di un Giorgio Caproni, con quella innata vena al canto intessuto di rime e di assonanze, capace di sgravare il gravoso peso delle parole di fronte ad una realtà che produce catene di montaggio per disumanizzare l’essere umano:

Proteggiamo il nostro corpo/ e imprigioniamo il nostro spirito,/ con grosse catene lo leghiamo a terra/volare è troppo pericoloso, correre troppo faticoso.// Tagliato il ramo/ si estirpano le foglie/ si leviga la superficie,/ ora è bello educato/ può essere messo sul mercato… (Catene)

“Al di la del suo sorriso” c’è l’inquieta  gioventù di Stella, la sua anima e la sua esperienza di vita pregna di sogni e di bisogni: “Solo gli uccelli volano e gli angeli e gli uomini quando sognano” spiegava Josè Saramago. E la poesia, si avverte in queste liriche, sa far crescere le ali.

Salvare l’umanità dalla perdita del sorriso

La condizione esistenziale, i contenuti, i temi, la forma e il linguaggio, dei testi che compongono la raccolta poetica di Stella Mazzeo, si collocano dentro il solco tracciato dalla poesia nel 900. Si pensi soprattutto al viaggio compiuto da Eugenio Montale per scongiurare “il male di vivere”attraverso il correlativo oggettivo “resistenziale”; o a Salvatore Quasimodo neorealista di “Giorno dopo giorno”(Alle fronde dei salici…  Uomo del mio tempo) con l’imperativo di restituire all’uomo la sua umanità, dopo tanta brutale e spietata disumanità scatenata dai regimi totalitari. La sua è una ricerca che incontra la linea di rottura simbolista di fronte ad una società indifferente al dono della poesia, e il poeta è costretto a sradicarsi, a veleggiare in alto (come L’albatros di Charles Baudelaire):

Lasciatemi da sola/ mentre tutto intorno tace,/ lasciatemi nel vero/ di un amico forestiero.// La voce di chi/ col silenzio dice il suo pensiero,/la mente di chi ascolta/ alla ricerca del sereno.// Lasciatemi sola/ mentre tutto intorno tace./ Lasciatemi nel vero/ di un amico forestiero/ che grida il suo pensiero/ cullato dal buio più nero. (Il silenzio della voce)

Ci sono delle immagini simboliche che ritornano, come quella del mare, ma anche quella forte dell’uomo “orfano”:

Si contendono il neonato/ Notte, Stelle e/ Mare illuminato/ Luna che da lassù vede un animo sbagliato/ alla madre strappato,/ al cemento sacrificato,/dal tempo incarcerato,/ dagli obblighi piegato (Orfano).

Il richiamo del mare/ che ti invita ad entrare,/ che ti lascia sfogare,/ il tuo animo liberare./Si svela tua madre/ ti chiama, ti vuole/ nel suo freddo calore./ con la sua voce soave/ ti chiede di tornare/ dove tutto è iniziato/ dove il tuo animo è nato. (Madre Mare)

Lo visione di Stella Mazzeo spazia tra il microcosmo  e il macrocosmo. E si avverte l’eco di alcuni topos della poesia di Leopardi rievocati con la grazia di un sorriso. Il sorriso spontaneo rappresenta l’espressione, in assoluto, che incarna la bellezza umana, perché significa incontrare l’altro come dono, come la meraviglia che si esprime sul viso di un bambino. E forse il messaggio inconsapevole è che al di là di un sorriso non ci sia altra via di uscita che sorridere con un po’ di ironia, quella che sa mostrare la poesia di questa giovane poetessa, che va ancora alla ricerca di un “sorriso perduto”, attraverso il filos della poesia, per uscire dal labirinto:

Una carezza sul volto/ di chi da sola si consola/ uno specchio ed un sorriso/ io sono il tuo caro amico/ in quella casa vuota/ lei intensamente nuota/ vede la riva, / sarà questa la via d’uscita?  (La via d’uscita)