Viaggio verso la luce meridiana di Tropea

Nel suo primo romanzo, E poi viene il sole, Francesca Saveria Chindamo, trasfigura la sua esperienza di un cammino di ricerca spirituale. Nella vicenda del protagonista si intreccia la sofferta storia della stessa scrittrice, che sperimenta il valore maieutico della scrittura, attraverso un “passaggio” da Nord a Sud. Questo trasferimento corrisponde al ritorno alle origini ma è anche un itinerario di redenzione e di rinascita, come si evince dal titolo, evocando il pellegrinaggio dantesco nella Commedìa a 700 anni dalla sua scomparsa (14 settembre 1321).

L’opera è stata presentata a Laureana di Borrello, cittadina in provincia di Reggio Calabria dove la famiglia ha gettato le sue radici storiche con un ruolo illustre nel campo sociale, politico e culturale. Un’occasione per la stessa autrice di scoprire il luogo dove i suoi antenati hanno vissuto.   

In principio fu il mithos

Se dovessimo fare una indagine per capire i motivi che hanno portato donne e uomini a scrivere romanzi o poesie nel corso della storia, non saremmo sorpresi nello scoprire una molteplicità di risposte. Ma se volessimo rintracciare le prime forme letterarie, la risposta non può che essere una: il mito. Mithos significa appunto racconto ed è una creazione che si è originata dall’inconscio collettivo. Dalla loro fonte è sgorgata la grande tradizione orale che ha generato, a sua volta, quella scritta. I racconti mitici sono scaturiti dalla fantasia dei popoli antichi che si sono interrogati di fronte al mistero del creato. Così la meraviglia e lo stupore si è tradotta nella creazione dei miti cosmogonici. Ognuno di noi è figlio del mito. Accanto al mithos però è fondamentale affiancare la legge del logos: il mithos si manifesta attraverso il logos (sia come parola che nel suo significato di “linguaggio”, “verbo” con cui possiamo leggere e interpretare il mondo); ma senza il mithos non poteva generarsi il logos. Il predicato che troviamo nel Prologo del Vangelo secondo Giovanni, “In principio era il Logos e il Logos era presso Dio”, possiamo declinarlo con “In principio era il Mithos e il Mithos era presso il Logos”. Lo spiega in modo emblematico e suggestivo il premio Nobel per la Letteratura (2010) Mario Vargas Lliosa, in un passaggio illuminante del suo Elogio della lettura e della finzione (2011):

“Mi ha sempre affascinato immaginare quella curiosa circostanza in cui i nostri antenati, poco più che diversi dagli animali, grazie a un linguaggio appena nato che permetteva loro di comunicare, iniziarono, nelle caverne, intorno al fuoco, durante notti pieni di pericoli – fulmini, tuoni, fiere ringhianti – a inventare storie e a raccontarsele. Quello fu un momento cruciale del nostro destino, in quanto, in quella cerchia di esseri primitivi meravigliati della voce e della fantasia di chi stava loro raccontando, ebbe inizio la civiltà, quel lungo percorso che ci avrebbe reso umani e ci avrebbe portati a inventare la scienza, le arti, il diritto, la libertà, a indagare i misteri della natura, del corpo umano, dello spazio e a viaggiare verso le stelle…

Quando cominciarono a sognare collettivamente, a condividere quei sogni, stimolati dai narratori di racconti, smisero di essere attaccati alla ruota della sopravvivenza, un vortice di impegni abbrutenti, e la loro vita si trasformò in sogno, desiderio, fantasia, in un disegno rivoluzionario… 

 Per non diventare servi e schiavi delle macchine che noi stessi abbiamo inventato. E perché un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali, né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni. (M. Vargas Lliosa, Così cominciammo a inventare storie, in “Elogio della lettura e della finzione”, 2011).

È stato uno studioso molto sensibile al rapporto tra letteratura e mito, Furio Jesi, a ipotizzare lo slittamento semantico e la perdita dell’originario valore della parola mithos a vantaggio di logos:  

“E dunque ciò induce a supporre che nella storia della lingua greca dopo Omero si sia progressivamente attuata – già prima di Protagora – una svalutazione di mythos a favore di logos, tanto che le commistioni di mythos e logos furono restrizioni del significato di mythos, quasi che mythos, al contatto diretto con il suo concorrente (non ancora con il suo “contrario”), logos, fosse destinato a cedere parte di sé. Ciò è particolarmente importante, poiché fornisce una base filologica all’ipotesi che la parola mythos significasse originariamente anche l’essenza dei racconti intorno a “dèi, esseri divini, ecc.”, e che proprio questa essenza da un lato abbia determinato con la sua crisi la svalutazione e la restrizione semantica di mythos, d’altro lato sia sopravvissuta nell’oggetto indicato dal vocabolo caratteristico dell’istante di crisi: mythologia.” (Furio Jesi, Il mito, 1989).

Ma dietro la creazione di un mito, si nasconde una verità profonda che racconta l’inconscio collettivo fin dal suo primo affiorare della parola. Queste verità le possiamo rintracciare interpretando simbolicamente storie come quella del labirinto, del Minotauro, del filo di Arianna, di Prometeo che ruba il fuoco a Zeus con un inganno o del cavallo di Troia dell’astuto Odisseo dotato di metis e del suo periglioso nostòs verso Itaca; oppure Edipo, Narciso o la Medusa. Ed è stata soprattutto la psicoanalisi a sondarne la complessità che vive nei personaggi mitici e nell’immaginario collettivo, identificandone gli archetipi. Gianbattista Vico ne La scienza nuova (opera filosofica frutto di una lunga elaborazione, dal 1725 al 1744) ha teorizzato tre età: degli dei, degli eroi e degli uomini. Per il filosofo partenopeo nei miti prende forma la mitopoiesi, l’immaginazione collettiva dei primi popoli, quella metafisica  “sentita ed immaginata” che fu caratteristica dell’aurora del genere umano…”.  In “quella fanciullezza del mondo” Vico identifica la sapienza poetica in cui dominano quelle facoltà, come il senso, la fantasia, l’ingegno, la memoria, che “mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo”.

Le tre età corrispondono alle tre fasi del senso, della fantasia e della ragione:gli uomini “dapprima sentono senza avvertire, dippoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”.

Nella visione filosofica e filologica teorizzata da Vico, la storia, in quanto opera creatrice dell’uomo, segue la legge dei corsi e ricorsi storici: con il passaggio dalla barbarie agli ordini civili, il lento costruirsi della civiltà, la storia umana si svolge secondo un piano, con un ritmo che corrisponde a quello medesimo del pensiero.  Alle tre fasi del senso, della fantasia, della ragione corrispondono i tre successivi momenti del divenire storico: l’età degli dei, l’età degli eroi, l’età degli uomini. Ciascuna di queste età si presenta come una totalità organica nella quale le varie manifestazioni della civiltà e della vita sono l’un l’altra connesse da legami profondi. Si tratta di una interpretazione che trova corrispondenza in questo passo tratto dall’opera dello storico Y. N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi, ( 2017):

“Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attento! Un leone!” Grazie alla rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”.  Tali capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens. È relativamente facile concordare sul fatto che solo Homo sapiens può parlare di cose che non esistono veramente e mettersi in testa storie impossibili appena sveglio… Il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli sul tempo del sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui. Anche formiche e api possono lavorare insieme in comunità numerose, ma lo fanno in forme estremamente rigide e solo all’interno di strette parentele. I lupi e gli scimpanzé cooperano in maniera molto più flessibile rispetto alle formiche, ma lo possono fare solo con gruppi ristretti di altri individui che conoscono intimamente. I Sapiens sono in grado di cooperare in modo estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei. Ecco perché governano il mondo, mentre le formiche mangiano i nostri avanzi e gli scimpanzé sono rinchiusi negli zoo o nei laboratori di ricerca”.

E poi viene il sole: la via maieutica della sua scrittura

Dalle considerazioni compiute viene fuori un postulato: l’ evoluzione culturale dell’umanità è scaturita grazie all’invenzione dei miti. Da bruco l’uomo si è trasformato in farfalla, attraverso il processo della metamorfosi (significativa è l’opera del poeta latino Ovidio, Le metamorfosi). La cultura, nel suo valore estetico oltre che evolutivo, è trasformazione: l’opera artistica crea una nuova visione, apre dimensioni conoscitive inesplorate, elabora linguaggi che rinnovano lo spirito del tempo.  Le parole, perciò, sono il filo di Arianna che fanno uscire dal labirinto e la scrittura acquisisce un valore terapeutico: riesce ad attraversare, come l’aratro che scava la terra, i campi dell’esistenza. In questo solco significativo è il fatto che la cultura sia germogliata dal momento in cui l’uomo ha iniziato a solcare i campi per seminare.    

Di questa eredità e proprietà della scrittura ne ha fatto tesoro ed esperienza Francesca Saveria Chindamo, nel romanzo E poi viene il sole (edito dal Gruppo Albatros, aprile 2011). Nell’architettura dell’opera è possibile rintracciare delle matrici che richiamano gli archetipi riconducibili ai paradigmi del mito. E’ la stessa scrittrice a testimoniare il significato “maieutico” che ha avuto per la sua storia la genesi di questo romanzo:

“La spinta a scrivere il libro è stato un periodo di forte sofferenza successivo alla mia prima gravidanza. La prima pagina del libro era stata scritta diversi anni prima in un pomeriggio freddo e piovoso (come piovoso è appunto il momento iniziale del romanzo) per la pura voglia di scrivere, di creare. Anni dopo mi è venuto naturale ricongiungermi a quelle poche righe e creare una trama che si è, in un certo senso, evoluta e sviluppata da sola, scrivendo. E scrivendo ho affrontato il buio della mia anima, attraversando un’altra oscurità, quella di Roberto, e proiettando la mia nella sua. Ho esorcizzato diversi terrori, come quello legato al rapimento e alla sparizione misteriosa di un’anima innocente, di un bambino; ma al contempo ho aperto il cuore al cammino di fede che facevo in quegli anni, all’arricchimento interiore che esso mi donava e alla consapevolezza che, in fondo, anche nei momenti peggiori non siamo mai soli e che un Regista Supremo, pur regalandoci tempo da gestire e libero arbitrio, può guidarci verso la salvezza, se noi lo vogliamo.”

E’ una testimonianza rivelatrice che fa comprendere come la scrittura sia simile alla levatrice che nel travaglio del parto porta alla luce un’anima femminile. Siamo nel campo dell’arte maieutica professata da Socrate (un passo emblematico si trova nel dialogo di Platone Teeteto). La ricerca della verità dentro se stessi è un cammino, che il più delle volte, si rivela faticoso e arduo ma non tutti sono disposti a percorrerlo. Non a caso il romanzo della Chindamo racconta una storia che ha come protagonista uno psichiatra in profonda crisi dopo la scomparsa del figlio, di soli tre anni. Ma attraverso un “passaggio” da Nord a Sud – che corrisponde ad un ritorno alle origini – riesce a ritrovare la via di uscita dal labirinto. Un “viaggio-passaggio” verso la luce, come si evince dal titolo, che richiama il pellegrinaggio dantesco nella Commedìa a 700 anni dalla sua scomparsa (14 settembre 1321).

L’opera è stata presentata il mese scorso (11 settembre, Casa della Musica)  nella località originaria della famiglia Chindamo, Laureana di Borrello, grazie all’impegno dell’Amministrazione comunale e dell’assessore alla Cultura Eleonora Palmieri. Un’occasione per la stessa Francesca Saveria Chindamo di conoscere la città e la storica casa che ha dato i natali al padre Giovanni e ai suoi avi. La presentazione è stata contrassegnata dalla lettura di alcuni brani da parte di Costanza Chindamo (cugina dell’autrice) tratti dal romanzo e accompagnati da intermezzi musicali del percussionista Federico Tramontana, facendo echeggiare gli effetti sonori di uno strumento nato da poco ma antico nello stesso tempo, l’hang drum, creato in Svizzera nel 2000 (hang significa “mano” nel dialetto di Berna, mentre drum, “tamburo”, “timpano”). E’ stata l’assessore alla Cultura Palmieri (che ha introdotto e coordinato gli interventi), a sottolineare alcuni tratti relativi al carattere del protagonista del romanzo ma anche a mettere in luce gli aspetti linguistici e stilistici presenti nell’opera, focalizzando l’attenzione nelle diverse figure retoriche che caratterizzano la descrizione dei luoghi e dei personaggi.

Ad approfondire i contenuti del romanzo Paolo Alvaro (già docente di Materie Letterarie) il quale ha descritto il contesto psicologico e umano, tratteggiando alcuni aspetti relativi alla tecnica narrativa. Alvaro però ha voluto tracciare anche il ruolo politico e culturale della famiglia Chindamo a Laureana di Borrello, e fare una digressione storico-sociale a cavallo tra Ottocento e Novecento, mettendo in luce come la famiglia dei Chindamo (appartenente all’aristocrazia agraria locale) ha dato lustro alla storia di Laureana di Borrello. La prima figura che ha ricordato è stata quella di Giuseppe Chindamo (1841- 1916), autorevole parlamentare nell’età giolittiana,  di matrice liberale (come emerge dal carteggio inedito scoperto nell’archivio di famiglia, in cui si legge una corrispondenza con Felice Cavallotti, Giovanni Giolitti e Giuseppe Zanardelli). Il padre Antonino, invece è stato sindaco di Laureana negli anni dell’Unità d’Italia (1960-63). Ma anche nel campo della medicina, un altro Chindamo, Domenico, fratello di Giuseppe, è stato autore di trattati scientifici, come La sciatica nervosa. Tra i discendenti più prossimi a Francesca Saveria, il nonno della scrittrice Antonino Chindamo, podestà di Laureana di Borrello nel periodo fascista, ha continuato a militare nel Movimento Sociale di Giorgio Almirante. Ma nella storia di Antonino Chindamo c’è stata la grande passione per il calcio. Infatti ha investito ingenti risorse come presidente della Reggina nei primi anni ’50 quando militava in serie C, mentre a Tropea, ha fondato la Juventus Calcio, squadra che ha avuto un portiere d’eccezione, il giovanissimo Raf Vallone, prima che la famiglia decidesse di trasferirsi a Torino. Qui, il celebre attore di Tropea, ha militato nelle fila del grande Torino come centrocampista e nel frattempo si laurea sia in Lettere che in Giurisprudenza, poi vive l’esperienza della Resistenza come partigiano, e con la fine della guerra diventa giornalista all’Unità e alla Stampa. Il padre della Chindamo, Giovanni (memoria storica della famiglia), ha rivelato che nel 1967 Raf Vallone e il padre Antonino si sono ritrovati a Tropea e hanno ricordato con affetto quella parentesi calcistica nella Juventus giovanile di Tropea, una sorta di contrappasso per l’attore protagonista della grande stagione del Neorealismo, alla luce della storica rivalità dei due club torinesi.  

Nell’esperienza biografica ed esistenziale di ogni persona sopravvivono sempre queste eredità genealogiche che vanno a creare un patrimonio non solo genetico, ma anche una stratificazione di memorie che emergono quando vengono scavate, e diventano scoperte, come accade con gli scavi archeologici. La scrittura ha questo potere: mette alla luce ricordi e vissuti, quel mondo magmatico depositato nella camera oscura dell’inconscio. Nel romanzo, ad esempio, ci sono delle reminiscenze biografiche che richiamano la figura della nonna Costanza Francica, madre del padre, che ha dato alla luce ben otto figli, il cui cognome coincide con la località di origine della famiglia, Francica (all’epoca in provincia di Catanzaro). Altro elemento biografico che emerge, è l’ambientazione della seconda parte del romanzo a Tropea, dove la scrittrice passava le sue vacanze. Nella storia familiare degli antenati della Chindamo, oltre alla passione per la politica, c’è anche una fiorente tradizione culturale, come il caso del fratello del bisnonno Antonino, Domenico, di professione avvocato con la passione per la letteratura. Questo prozio soleva errare per i campi come i poeti bucolici per trovare ispirazione. In questi suoi itinerari ha scritto diverse opere poetiche, ma anche saggi critici e prose letterarie. Domenico Chindamo è stato anche sindaco di Laureana di Borrello nel dopoguerra, prendendo l’eredità lasciata dal fratello Antonino podestà, entrambi rimasti orfani per la prematura scomparsa del padre, prima che Antonino nascesse;  mentre il fratello, Vincenzo Chindamo (che si è preso cura dei nipoti come un padre), è stato un noto avvocato patrocinante in Cassazione e autore di studi molto importanti nel campo della criminologia, come il corposo volume Delitti e delinquenti nella Commedia umana di Balzac. Studio psicologico giuridico” (1939), in cui intreccia l’esegesi letteraria con lo studio giuridico. Una tradizione che continua con Francesca Saveria, non più nella patria che ha dato le origini alla famiglia, Laureana di Borrello, ma a Roma, dove vive e lavora come avvocato. 

E poi viene il sole può essere accostato al genere del romanzo di formazione o di carattere psicologico. L’indagine ed il racconto dell’individuo e delle sue trasformazioni, la sua crescita umana ed il rapporto con la società come accade  ad esempio, al protagonista de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, oppure ne L’educazione sentimentale di Flaubert. Nell’opera della Chindamo emerge una ispirazione tesa alla introspezione e alla meditazione che, a sua volta, si trasfigura in linguaggio poetico. In alcuni passaggi si avverte intensa la tensione spirituale: e questa vocazione impregna la scrittura e la sua struttura narrativa, che si presenta circolare e speculare. Inizio e fine si intrecciano e anche le storie dei personaggi si rispecchiamo, creano delle corrispondenze. L’epilogo è una sorta di sintesi in cui i protagonisti trovano risposta e sviluppo alla loro inquieta e tormentata ricerca. La chiave è data dal sentimento d’amore che riesce a ristabilire ordine e armonia, una sorta di ritraduzione antropologica, in chiave contemporanea, delle fiabe, come rito di iniziazione e di passaggio. La forte carica spirituale si declina con la fede, ed in alcuni tratti si dispiega con la manifestazione del soprannaturale. La poetica dell’autrice si coglie nel momento in cui matura l’itinerario di conoscenza e di coscienza del protagonista. Questa tensione o travaglio interiore evoca le riflessioni che Furio Jesi compie attraverso il concetto del “maturare” e quello di “misura”:

“Maturare in silenzio, ‘lasciar maturare i frutti in un tempo che pare attardarsi infecondo’, è l’accettazione della misura: così che pazienza e solitudine sono le condizioni d’attesa; e d’altronde la misura non può nascere che da solitudine e pazienza, quando – nel paziente e solitario attardarsi entro il caos che pare infecondo – la misura dei confini umani – la misura prima della poesia – giunge a sanare il dissidio dell’animo e della sensazione, ed è un essere afferrati dalla grazia, un purificarsi nell’anonimità dell’uomo che fronteggia l’anonimità del Dio”. (Furio Jesi, Letteratura e mito)

La riflessione di Jesi, scaturita dall’analisi della I Elegia di Rilke, entra in corrispondenza con la lirica L’uomo abita poeticamente la terra di Holderlin, che pone al centro la fondamentale categoria gnoseologica ed estetica di “misura”, attorno a cui si è costruita e costituita la civiltà greca:

…Può un uomo, quando la sua vita non è che pena
guardare il cielo e dire: così
Anch’io voglio essere. Si. Fino a che l’amicizia,
l’Amicizia schietta ancora dura nel cuore.
Non fa male l’uomo a misurarsi
con la divinità. Dio è sconosciuto?
E’ egli manifesto e aperto come il cielo? Questo
piuttosto io credo. Questa è la misura dell’uomo.
Pieno di merito, ma poeticamente, abita
l’uomo su questa terra. Ma l’ombra
della notte con le stelle non è
Se così posso osar di parlare, più pura
Dell’uomo, che si chiama immagine della divinità.
C’è sulla terra una misura? No.
Non ce n’è alcuna.

La specularità dei personaggi

Il protagonista Roberto Mirasole psichiatra, nel corso della sua esperienza si ritrova a vivere nella duplice veste di colui che deve curare le ferite degli altri ma è impotente di fronte alla ferita che si è aperta nella sua vita dopo la perdita del figlio. E’ il caso che decide il suo percorso di consapevolezza e la chiave di uscita dal labirinto. La sua tecnica terapeutica è impotente e si rassegna ad un destino di abbandono, di sconfitta. Ma a soccorrerlo c’è il filo d’amore di “Ari-Anna”: Anna infatti è la donna che scioglie l’intricato filo della sua condizione esistenziale.

Questo limite della psicoanalisi era emerso ne la Coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, primo romanzo della letteratura italiana che affronta la questione del valore terapeutico della tecnica sperimentata da Freud. Il protagonista Zeno Cosini si sottopone a sedute psicoanalitiche ma non risolve il suo male di vivere. E così decide di non proseguire la terapia con il dottor S: si convince che la psicoanalisi non lo può guarire ma gli dà la soltanto la consapevolezza della sua malattia che non è individuale, ma collettiva. E’ la società che è malata, e il successo non dipende dal valore di una persona, ma dal caso: è il caso che orienta la sorte di Zeno Cosini, quindi un elemento assolutamente imponderabile, che ci mette di fronte all’enigma, all’ignoto, al mistero, all’irrazionale, che potremmo anche declinare nel concetto filosofico elaborato da Vico dell’eterogenesi dei fini, in quanto la mente dell’uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini, che vanno al di là o contrastano con quella che gli uomini si propongono di conseguire. Ma questo principio metafisico che Vico applica alla storia umana, la osserviamo nei processi evolutivi della natura. Nella biologia degli esseri viventi è il caso che ha determinato l’evoluzione della specie come ha spiegato Darwin, e l’uomo è il frutto di una sbaglio di natura scrive Eugenio Montale (premio Nobel per la Letteratura nel 1975) nella poesia I Limoni…

“…Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire lo sbaglio di Natura,/il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità…”

La specularità della struttura narrativa del romanzo della Chindamo è data non solo dai personaggi (oltre al protagonista, due donne, una assente e l’altra presente, e due bambini, uno assente l’altro presente), ma anche dai luoghi: il Meridione che si contrappone al Settentrione, l’estate all’inverno. Alla casa di cura di anziani che si trova nel Nord, Treviso, si contrappone il mare, il sole di Tropea, il ritorno alle origini e all’infanzia, ma anche la scoperta di un nuovo amore. Un altro segno che rafforza la struttura circolare del testo lo ritroviamo nell’epilogo che coincide con la fine dell’estate, il tempo della maturità, mentre inizia a dicembre, quando sotto il profilo astronomico la luce declina nel solstizio d’inverno, che segna anche l’inizio della nuova luce. Il punto di vista è onnisciente, “a focalizzazione zero”. Il narratore sa, conosce i suoi protagonisti, li descrive in profondità, interviene, dilata il tempo narrativo e il ritmo con delle digressioni. La tecnica narrativa della Chindamo si spinge nell’introspezione, capace di interrogare la coscienza e aprire degli squarci in cui emerge la bellezza poetica delle descrizioni che diventano delle vere e proprie meditazioni, non solo interiori ed esistenziali, ma anche sulla natura, come accade specialmente quando le scene si spostano a Tropea, con il suo paesaggio marino e gli effetti visivi che creano suggestione e incanto. La voce narrante contempla e descrive le emozioni e i sentimenti, ma nello stesso tempo, guarda il mondo per scoprirne i segreti.

Viaggio nella luce meridiana del Mediterraneo

Dal momento in cui le scene si spostano al Sud, in Calabria, con nello sguardo il paesaggio marino di Tropea, si genera una trasformazione nella condizione esistenziale del protagonista che si può far corrispondere alla visione insita nel concetto del pensiero meridiano elaborato da Albert Camus, ri-codificato da Franco Cassano nel suo noto saggio, intitolato appunto Il pensiero meridiano (1996).

L’approdo al pensiero meridiano a cui giunge Albert Camus (premio Nobel per la Letteratura nel 1957), teso allo studio dei turbamenti dell’animo umano di fronte all’esistenza in balia di quell’assurdo definito come “divorzio tra l’uomo e la sua vita”, teorizzato nella sua opera L’uomo in rivolta (1951) e poi elaborato nel suo incompiuto e postumo Il primo uomo, si fonda proprio sul concetto di “misura”, idea che lo scrittore francese riprende dal pensiero greco. L’armonia, la proporzione e il limite erano infatti alla base della religione, dell’estetica e dell’etica greca. Anche la giustizia nella concezione greca era legata all’idea di equilibrio e metron: chi infrange l’ordine divino e i limiti di questo, macchiandosi di hybris (smisuratezza, tracotanza, oltraggio), può ristabilire il giusto ordine solo attraverso la punizione divina. Contro quindi la dismisura, è necessario far ritornare la “misura” che apre le porte alla giustizia e alla libertà. Il Mediterraneo rappresenta per Camus la ricerca della misura, nel dialogo tra il suo essere liquido, infinitamente mutevole e la terra. Il Mediterraneo è il luogo in cui si cerca se stessi perché non è l’assurdo che abita la vita ma l’enigma, che non è insolubile ma solo umanamente difficile da svelare.

Il pensiero meridiano di Franco Cassano riprende la riflessione di Camus e diventa un approccio con cui il Sud del mondo può guardare al suo futuro senza restare prigioniero del modello neocapitalistico  occidentale dei post, ma costruire il proprio futuro senza farsi colonizzare da modelli esterni. Pensiero meridiano significa andare oltre: è una filosofia del vivere  che parte dal sentire dei popoli che si affacciano nel Mediterraneo. Un modo di scoprire il limite che il mare ci pone (viene in mente la prefigurazione di Ulisse che tenta di oltrepassare le Colonne d’Ercole ma viene inghiottito dalla furia del mare, descritto nel XXVI canto dell’Inferno nella Commedìa dantesca), ma anche la forza della sua energia marina che ci connette e ci interroga:

“Pensiero meridiano è quel pensiero che inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera”.

Fondamentalmente il pensiero meridiano è un diverso punto di vista senza modelli precostituiti o pre-confenzionati, che dà consapevolezza della propria autonomia e capacità di ricreare un’altra possibile storia, a partire dalla tradizione e dalle radici mediterranee: è la “misura” del nostro abitare questa parte dell’Italia affacciati nel Mediterraneo, per ridefinire i modelli culturali, storici, antropologici, economici, esistenziali, a partire dai luoghi di origine, archivi di antiche memorie e di esperienze cariche di evocazioni e di accordi per il futuro. Il valore e i valori, non sono più “misurabili” con le leggi del mercato, ma con altri paradigmi. Dipende dallo sguardo con cui osserviamo il mondo ma anche con cui interroghiamo lo sguardo altrui, come alterità con cui dialogare, o come specchio di noi stessi. 

Nel romanzo della Chindamo la chiave è appunto l’immagine della luce del Mezzogiorno opposta all’oscurità del Settentrione, la rottura dei confini operata dal mare che nello stesso tempo impone il suo limite. E a rafforzare questo orizzonte, focalizzando sempre l’intreccio narrativo, il racconto inizia in modo tragico e finisce invece con la vittoria dell’amore: un viaggio dal buio alla luce. Quindi siamo in piena sintonia con l’esperienza che il Sommo Dante ha vissuto nella sua Commedìa, dall’Inferno al Paradiso, attraverso un percorso di espiazione, di conoscenza, di trasformazione e di catarsi, guidato dalla ragione (Virgilio) e dalla fede (Beatrice). L’amore che vince tutto, come aveva affermato Virgilio nelle Georgiche Amor vincit omnia, in Dante diventa un sentimento cosmico, L’amore che move il sole e le altre stelle.

Già nel titolo l’autrice richiama l’ultimo verso della Divina Commedia, ma non solo. Uno dei motivi che attraversa il percorso evolutivo di Roberto, il protagonista, è proprio il rapporto tra scienza e fede, e l’elemento soprannaturale diventa esperienza che oltrepassa la ragione e si fa essa stessa logos.

Lo sguardo: “Il tempo è un bambino che gioca, di un bambino è il regno” (Eraclito)

“Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi…” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto).

… Niente è come sembra niente è come appare /Perché niente è reale…

(Franco Battiato, Niente è come sembra)

Il tempo scorre, è una brezza leggera, dal tocco impalpabile che sfiora la pelle e fugge via… Ma in fondo cosa muta se niente è reale? E tutto cambia, ma torna sempre uguale, sia che si soffra, sia che si gioisca… e la silente pervicacia del tempo è arma crudele e potente…

251: il tempo è pensiero che viaggia nel vento, che oltrepassa i confini del mondo e poi cambia ritmo, mentre si addentra nell’universo stellato… dalle note sconosciute

(F. Chindamo, E poi viene il sole, 250-51).

Noi siamo sguardo: lo rivela anche la Fisica dei Quanti con il “principio di indeterminazione”. Attraverso l’importante lavoro di ricerca a cui sono approdati gli studiosi della Meccanica quantistica, la scienza è sempre più simile alla letteratura: la percezione della realtà dipende dall’orientamento dello sguardo. Si pensi al teatro: la parola infatti significa proprio sguardo, spettatore, osservazione, che sono alla base della nascita della scienza e che definiscono lo stesso metodo sperimentale scientifico.

La nostra conoscenza e la nostra comprensione del mondo dipende dall’osservazione che è in diretta connessione, non solo con gli strumenti culturali con cui guardiamo, ma anche con un sentimento e con un sentire misteriosi, ignoti, come accade alla particella elementare che sfugge alla comprensione degli scienziati, in quanto può apparire sia sotto forma di onda che di corpuscolo; cioè avviene quello che è stato definito come “salto quantico”. Come accade nella concezione del tempo.

Il rapporto con il tempo è uno dei leitmotiv del romanzo della Chindamo. Nella sua tessitura narrativa la storia presenta tanti momenti di dilatazione temporale contrassegnata dalla dilatazione della scrittura e del ritmo narrativo, con lunghe e frequenti descrizioni funzionali alla indagine psicologica. C’è il tempo del ritorno di Aion, del nostos, che è tipico del mito: il ritorno all’infanzia del protagonista, ad esempio. Abbiamo quindi una circolarità narrativa, che diventa quindi tempo della memoria e che assume una valenza di carattere spirituale e religioso. Da una parte il tempo profano, quello cronologico, di Kronos appunto; dall’altro il tempo di Aion, del ritorno, il tempo del rito e della rammemorazione, della reminiscenza, a cui si riferiva Platone. È il tempo dell’anima, Anemos, soffio, alito, vento. Elementi invisibili ma presenti che muovono gli elementi della natura e della vita. Quindi siamo nel campo della metafisica ma anche dell’ontologia:

“Qui il tempo sembra vivere solo come presente, rispetto al quale una vigile capacità di lettura o di “cattura” determina lo sviluppo del futuro. Nella strategia militare, nell’anamnesi del medico, nell’abilità del retore opera soprattutto il kairòs, e con ciò lo sviluppo di un tempo svincolato dal valore degli dei, in cui si colloca l’autonomo agire dell’uomo. Questa possibilità nasce da un’intelligenza e conoscenza dei segni, può determinare il felice esisto dell’avvenire.” Il futuro “è da sempre legato, in un’inscindibile filiazione, al passato”. Lo ricorda una studiosa, Roberta Ioli: «Fin nella sua etimologia, la parola futuro rappresenta una declinazione a venire dell’essere, dell’esistere, ma insieme contiene la radice del passato. Il termine futurum è infatti, nella sua origine latina, participio futuro del verbo ‘essere’, e indica ‘ciò che sta per essere o accadere’, ‘ciò che è destinato ad essere’. Al tempo stesso, però, tale forma si origina dalla *fu-, che corrisponde appunto alla radice tematica del tempo perfetto, cioè del passato” (Roberta Ioli, “Chronos, Kairòs, Aiòn, eterno ritorno” www.aulalettere.scuola.zanichelli.it, 10 gennaio 2016).

Tempo e memoria sono una unità inscindibile. L’alfa e l’omega, eredità di esperienze che si imprimono come le nostre impronte nella pasta che porta dentro il lievito della memoria. Nella dimensione umana, l’idea del tempo si ordina come facoltà mnemonica: più profonda ne è la traccia più esteso sarà il suo raggio visivo: la sfera magico-sacrale o la sua corrispondenza simbolica, amplifica la visione, la storia culturale, esistenziale e spirituale dell’uomo.

Il rapporto con il tempo è fondamentale nella storia dell’umanità, sia sotto il profilo dell’organizzazione sociale, sia soprattutto nella sua dimensione simbolico-religiosa. Pensiamo ai miti, alla struttura profonda che percorre la storia dell’umanità attraverso gli archetipi, che ripetono le loro azioni in quella che Jung ha definito come psicologia del profondo; ma anche a quello che lo psicanalista svizzero aveva codificato come le coincidenze significative o sincronie. Il campo è molto vasto e si aprono infiniti orizzonti come si coglie quando la Chindamo affronta temi complessi come la dimensione del tempo, il mistero del creato e l’esperienza terrena dell’uomo.

Il legame tra tempo e memoria è centrale  ne La coscienza di Zeno. Come è stato detto, per la prima volta nella narrativa italiana entra in scena la psicoanalisi di Freud e in questa anamnesi la narrazione procede applicando il “tempo misto”: si tratta di un’espressione inventata da Italo Svevo per definire la dimensione temporale del romanzo. Il protagonista, Zeno Cosini, ricorda avvenimenti passati, ma nel momento in cui viene rievocato dalla memoria, quel tempo passato diventa presente nella coscienza. In quanto presente entra in contatto con l’attesa del futuro. Quindi non esistono un passato, un presente e un futuro separati, perché ciascuno di noi è il prodotto di tutto il suo passato che rivive costantemente nel suo presente, un presente a sua volta condizionato dalle attese future. È una concezione elaborata da Bergson ne L’evoluzione creatrice (1907) che riassume nel concetto di slancio o spirito vitale, èlan vital : “La mia memoria è là che spinge qualcosa di quel passato in questo presente. Il mio stato psichico, avanzando sulla via del tempo, si accresce continuamente della durata che esso raccoglie: fa per così dire valanga su sè stesso”.

E in questo getto (pro-getto) che si è concentrata l’osservazione  di Albert Einstein e quella dell’attuale ricerca scientifica dei fisici, per rintracciare la misteriosa particella che ha dato origine alla materia. Questa parabola è stata descritta da Carlo Rovelli nel suo libro L’ordine del tempo (fisico italiano conosciuto nel mondo soprattutto per il suo best seller “Sette brevi lezioni di fisica”), partendo dall’equazione che misura l’entropia, intuita dal fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906). Rovelli racconta che è stato lo scienziato austriaco a farci vivere uno dei “tuffi più vertiginosi verso la nostra comprensione della grammatica intima del mondo”. L’equazione è quella che misura l’entropia: “Delta S è sempre maggiore o uguale a zero”. Spiega Rovelli: “Alla fine dell’Ottocento molti ancora non credevano che molecole e atomi esistessero davvero; Ludwig era convinto della loro realtà e ne aveva fatto la sua battaglia”. E commenta: “Gli occhi di Copernico hanno visto la Terra girare guardando il sole che tramonta. Gli occhi di Boltzmann hanno visto muoversi furibondamente atomi e molecole guardando un bicchiere di acqua immobile”. Gli scienziati non sono altro che novelli historei, (testimoni oculari come si autodefiniva Erodoto), vale a dire osservatori della natura delle cose: De rerum natura, il magistrale poema di Lucrezio in cui il grande scrittore latino ha declinato in poesia la filosofia epicurea, intuendo dei principi scientifici alla base della scienza moderna. Il che ci racconta che lo sguardo, soprattutto poetico, ci fa intuire ciò che si agita dentro l’invisibile: “Forse la radice profonda della scienza è la poesia: saper vedere al di là del visibile” afferma Rovelli. E’ sempre una questione di come scorre il tempo nella nostra percezione e del punto di vista con cui si guarda il mondo o, rovesciando la prospettiva, come il mondo ci guarda. “Il tempo è un bambino che gioca con le tessere” era l’arcano algoritmo della filosofia di Eraclito, che prende il volto del Panta rei, del tutto scorre. Rovelli sottolinea che Boltzmann “ha capito che la differenza tra passato e futuro non è nelle leggi elementari del moto, non è nella grammatica profonda della natura. E’ il disordinarsi naturale che porta verso situazioni via via meno peculiari, meno speciali”; ma “nella descrizione microscopica non c’è un senso in cui il passato sia diverso del futuro” e “la differenza fra passato e futuro si riferisce alla nostra visione sfocata del mondo”. In un qualsiasi sistema tanto maggiore è l’entropia, tanto minore è la capacità di comprensione. Si tratta, commenta Rovelli, di “una conclusione che lascia esterrefatti: possibile che questa mia sensazione così vivida, elementare, esistenziale – lo scorrere del tempo – dipende dal fatto che non percepisco il mondo nel suo minuto dettaglio? Una specie di abbaglio dovuto alla mia miopia? Davvero, se vedessi e prendessi in considerazione la danza esatta dei miliardi di molecole, il futuro sarebbe ‘come’ il passato?”

 “Gli enigmi del tempo” è un altro breve viaggio che il genetista Edoardo Boncinelli scrive per raccontare la storia del tempo:

“Il concetto di tempo contiene in sé almeno due enigmi che non hanno ancora trovato risposta. Il primo riguarda il rapporto fra il tempo e gli avvenimenti che vi accadono: il tempo è un orizzonte vuoto nel quale si scaglionano gli accadimenti come se fosse uno spazio oppure è tutt’uno con il succedersi degli eventi?

Il secondo enigma riguarda la dicotomia tra la visione lineare e quella circolare del tempo. Il pensiero antico ha sempre sostenuto la ciclicità, perché l’uomo percepisce il trascorrere del tempo tramite eventi ciclici come le stagioni dell’anno o l’alternarsi del giorno e della notte; tutto ciò che appartiene alla biologia, è infatti scandito da ritmi circolari…” Ma un’altra delle questioni fondamentali che hanno a che fare con il tempo è il tema della sua irreversibilità, perché il tempo possiede “la particolare caratteristica di andare in una sola direzione, da noi chiamata ‘futuro’…”.

Dentro questo tentativo di scoprire il vero volto del tempo, ci sono le teorie della relatività, la cui dimensione è il macrocosmo. Einstein introduce il concetto di cronotopo, un’entità a quattro dimensioni che alle tre dello spazio unisce quella del tempo. Secondo la sua teoria il tempo non è irreversibile perché lo “spaziotempo” delle distanze galattiche è curvo. Il tempo non è assoluto, ma dipende dalla velocità (quella della luce è una costante universale). Secondo Einstein è più corretto parlare di spaziotempo, perché i due aspetti (cronologico e spaziale) sono inscindibilmente correlati tra loro; esso viene modificato dai campi gravitazionali, che sono capaci di deflettere la luce e di rallentare il tempo (teoria della relatività generale).

Invece per i fisici della Meccanica Quantistica, che si sono concentrati a identificare le particelle (microcosmo), succede esattamente il contrario: non è mai possibile sapere cosa stia per succedere e da ciò consegue che “il tempo della meccanica quantistica è quanto di più irreversibile e aperto possa esistere”. Per questo nessun sistema, osserva Boncinelli “è perfettamente chiuso, c’è sempre un residuo di informazione che sfugge, ma possiamo affermare che, se l’universo si espande e lo fa con una tempistica in buona misura determinabile, in questa caratteristica potrebbe risiedere l’origine dell’irreversibilità del tempo”.Anche il tempo della biologia ci presenta una doppia lettura. Boncinelli ricorda che prima di conoscere il tempo della fisica, l’uomo ha sperimentato quello della biologia, cioè l’esperienza dell’irreversibilità del tempo. Ma all’interno di questo tempo, quello dell’evoluzione è un tempo imprevedibile, perché nessuno avrebbe mai potuto immaginare che circa venti milioni di anni fa “sarebbero nati dei bipedi anticonformisti che si vestono e rompono terribilmente le scatole, che vanno a suola, leggono i giornali e ascoltano le conferenze… Anche qui troviamo un dissidio: il tempo delle cellule e delle reazioni biochimiche è controllatissimo, mentre il tempo dell’evoluzione, quello più tipico della vita, è un tempo assolutamente aperto”. E per chiudere il cerchio o per aprirlo al mistero, ascoltiamo prima l’Ecclesiaste (o Libro di Qoèlet) e poi Agostino:

“Per ogni cosa c’è il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.  Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.”

“Che cosa è dunque il tempo? […] Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so. Tuttavia affermo con sicurezza questo: so che se nulla passasse non ci sarebbe passato; se nulla avvenisse non ci sarebbe futuro,; se nulla fosse, non ci sarebbe presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, in che modo esistono, se il passato non esiste già più e il futuro non esiste ancora? Il presente poi, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per esse4e tempo, deve trascorrere nel passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere” (Agostino, Confessioni).

Il tempo del nostòs

Da quando aveva fatto ritorno a Tropea, ogni domenica quel suono così unico gli rammentava l’identica atmosfera fiabesca che respirava da bambino… (F. Chindamo, E poi viene il sole, pag. 257)

Altro nucleo, attorno a cui ruota la questione del rapporto con il tempo, è quello dell’infanzia. Qui entriamo non solo nel campo del ricordo, ma evoca la sacralità dei fanciulli che, in modo meraviglioso e assolutamente esemplare, è centrale nel messaggio evangelico. L’aspetto inquietante che viviamo – richiamata in modo indiretto dal romanzo – è che questa società basata sul mercato, sul profitto e sul dio denaro, sia costruita per oltraggiare l’innocenza dei bambini; e chi ha in mano il potere fa molta fatica a osservare con gli occhi dei bambini il futuro. Pensiamo a quante ingiustizie sociali si ripercuotono nei confronti dei bambini, quanta iniquità  viene scaricata su di loro e sulle loro fragilità. L’attuale modello economico, produttivo, sociale e culturale è una continua minaccia alla spensierata e spontanea libertà creativa dei bambini: offende i loro sogni, dissacra la loro innocenza e bellezza: i fanciulli non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere affermava Plutarco). Le azioni mostruose che gli adulti stanno compiendo sono innumerevoli, e lo fanno con la “banalità del male”, avrebbe ripetuto Hannah Arendt. In E poi viene il sole l’autrice affronta il tema in una doppia dimensione: il ritorno al tempo dell’innocenza del protagonista, Roberto, e il dramma dei bambini costretti a separarsi dai genitori, dai loro affetti e dalle loro radici. Da una parte l’amore e la cura verso Sagor, un bambino migrante che diventa una chiave nello scioglimento della trama; dall’altra il dramma dei tanti minori non accompagnati che fa emergere l’indifferenza e la disumanità di questo sistema che mette al punto supremo la mercificazione; in contrasto, soprattutto, con la dimensione poetica e profetica che nascondono gli occhi dei bambini: 

Sagor indossava occhiali in metallo … distingueva ora forme e colori, intendeva meglio il mondo terreno. Ma Sagor vedeva già da prima, con il cuore e con lo spirito…  e Roberto aveva scoperto che esistono altri occhi, quelli dell’anima. E che la scienza della mente e del pensiero non può prescindere dal linguaggio sublime, eppure così semplice, con cui essa parla, aveva compreso che la prima guarigione è quello dello spirito. (E poi viene il sole, 280-81).

È stata Maria Montessori a mettere al centro il ruolo dei bambini nella sua pedagogia, richiamando il ruolo salvifico dei fanciulli, richiamando il messaggio evangelico:

“Il bambino non è debole e povero; il bambino è il padre dell’umanità e della civilizzazione, è il nostro maestro anche nei riguardi della sua educazione. Questa non è una esaltazione fuori misura dell’infanzia, è una grande verità”

“Se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”.

(M. Montessori, “Educazione per un mondo nuovo”, 1947)