La conversione dei sentimenti: una lezione che resterà nella memoria
Breve Diario di scuola alla prova degli esami di maturità
Il mondo può essere salvato solo dal soffio della scuola.
(Talmud)
Lo scopo della scuola è quello di trasformare gli specchi in finestre.
(Sydney J. Harris)
Le radici dell’educazione sono amare, ma il frutto è dolce.
(Aristotele)
Colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione.
(Victor Hugo)
La scuola dovrebbe aiutare i ragazzi a crescere armoniosamente, rivolgendosi a tutte le facoltà dell’anima, e non indirizzarli prematuramente in un percorso specialistico (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, 1936)
Auguro ai docenti di mantenere vivo l’amore per l’insegnamento e costante il desiderio di trasmettere i valori universali e i principi cardini del sapere ai loro alunni ed alunne, di non perdersi mai d’animo e di pensare che ogni giorno si ha l’opportunità di incontrare chi sta crescendo per costruire il mondo di domani. Voglio ricordare che quello dell’insegnamento è il più bel lavoro del mondo. La cosa più importante è quella di meritare la fiducia degli studenti e di crescere insieme a loro. Come sempre un particolare augurio va ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze perché sappiano perseguire il piacere della conoscenza, unico cammino per far crescere le basi della loro libertà. La scuola riesce sempre a dare peso a chi non ne ha, a garantire e ispirare il valore dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. (Piero Calamandrei)
L’insegnante mediocre dice. Il buon insegnante spiega. L’insegnante superiore dimostra. Il grande insegnate ispira.
(William Arthur Ward)
A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi.
(Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici)
In ogni caso, sì, la paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello. E quando divenni insegnante la mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare”. (Daniel Pennac, Diario di scuola, 2007)
VIBO VALENTIA – Chissà quante lezioni sorprendenti sono emerse con gli esami di maturità in questo tempo di emergenza! Una indimenticabile, noi docenti commissari dell’Ipseoa “E. Gagliardi” l’abbiamo appresa dagli studenti della V F, Corso serale. Questa esperienza resterà nella memoria come una transazione epocale tra un prima e un dopo. Negli occhi e nelle corde dei ricordi, le parole e la carica espressiva degli sguardi dei candidati resteranno impressi come sigilli. Non si poteva rimanere indifferenti di fronte ai sentimenti che sono sgorgati in modo spontaneo, come un bisogno dell’anima: per liberare il grumo psichico che si era formato in tutto questo tempo di attesa e di incertezza. Ed è stato un afflato corale, tante voci che si sono fuse in un’unica voce. Ascoltare i loro racconti ha generato la consapevolezza di un dono inatteso e che la vera forza dell’umanità risiede dentro la fonte interiore e umana che scaturisce oltre ogni programma. Come insegnanti prima e poi come esseri umani, ci siamo sentiti coinvolti: e in quel restare in religioso ascolto, si comprende che la “restituzione” travalica le ore di lezione e le fatiche profuse per far fronte agli imprevisti della sorte.
Il travaso maieutico che si traduce dentro e fuori dall’aula
Per un docente non esiste né tempo e né luogo. Si resta sempre dentro l’aula, sia quando sei a scuola che quando sei costretto a rimanere a casa o te ne stai in silenzio a ripensare a quello che hai fatto e a quello che non sei riuscito a fare. O quando erri come un vagabondo, o guardi un film o leggi un libro o passeggi per la campagna osservando il cielo, gli alberi, i campi o ascolti il canto degli uccelli, non si possono svestire i panni che si indossano in aula, perché si crea una relazione con il mistero che si cela dietro un volto, dietro una parola, una vita, e la tua esistenza è segnata come l’aratro che apre le zolle e traccia un solco. Ed allora risuona la verità che si coglie nelle parole di don Lorenzo Milani quando afferma che il maestro “… deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso”. (Lettera ai giudici, 1965).
Non sono più i ragazzi di Barbiana i candidati del Corso serale dell’Ipseoa “E.Gagliardi” che hanno affrontato l’esame. Sono adulti, padri e madri, alcuni laureati, altri diplomati, lavoratori già segnati da diverse vicissitudini: persone che, ad un certo punto, per quelle circostanze imponderabili che portano a ricominciare un’esperienza lasciata a metà o un desiderio che non si era realizzato o perché nel corso della vita scopri la passione per la cucina e senti un richiamo ancestrale come depositato nella memoria. E così si ritorna sui banchi, si riprendono i libri, ci si rimette in gioco e si rivivono emozioni che erano rimaste sospese. E ritorna quella tensione emotiva vissuta il giorno prima dell’esame. Si scopre che determinate emozioni rimangono sotterrati ma pronti a riaffiorare. In questo travaso maieutico risiede la parte che contrassegna lo speciale rapporto che si viene a costruire non solo tra docenti/discenti, ma tra esseri umani. In questa relazione maturano i tanti momenti, e comincia a scorrere, come una sorta di catarsi, il racconto della propria esperienza: che cosa hanno significato gli anni trascorsi sui banchi e nei laboratori, il rammarico per non aver potuto studiare con maggior profitto e aver dato il meglio, le molteplici occasioni di condivisione e di convivialità, nonostante la morsa degli affanni quotidiani e familiari. E si vivono nuove sensazioni che lievitano con il passare del tempo, nell’intreccio che viene tessuto dagli sguardi in modo segreto.
Queste storie nascono in una terra gravata da tanti pesi, che a volte tolgono il respiro. Sono storie di esistenze dominate da contrasti irrisolti, di amare vicende, ma anche di resistenza, di impegno, di ricostruzione, di rinascita e di speranza. Una lotta anche contro se stessi, per ristabilire un ordine infranto come nelle antiche tragedie, che aprono una voragine, che recidono un legame, una passione coltivata o accarezzata da tempo. Eppure la volontà di ricominciare per ritrovare le giuste motivazioni non ti abbandona.
In questo “laboratorio didattico-esistenziale” ci sono processi e alchimie ineffabili che non si possono comprendere ma che si manifestano come epifanie, nei molteplici significati che accompagnano ogni parola, ogni sentimento, ogni emozione, ogni esistenza. Lo scorrere dei giorni ricuce gli strappi, cura le ferite e ridà luce e senso al proprio viatico, tracciando un nuovo viaggio. Così il dialogo si dilata e si aprono orizzonti inusitati in cui si scopre di esserne parte. Non solo gli ingredienti, gli alimenti, i cibi, con i loro odori, profumi, colori e sapori, vengono preparati e mischiati, ma si incontrano anche le storie partorite o rimaste silenti. Come quella di Francesca C.che si è ritrovata a condividere l’esperienza degli esami insieme alla figlia Debora (allieva del “Gagliardi) e avere sul diploma l’identico voto; o quella di Simona G., con i due figli (terza media e maturità); e anche il figlio di un’altra candidata, Daniela B. E poi anche l’esperienza di Marilia G., con due lauree ma anche docente in una classe del Corso serale; o quella di Riccardo che dal comune di Vicchio (Firenze) – dove don Lorenzo Milani dal 1954 ha dato vita alla scuola di Barbiana in una canonica del Mugello e insieme ai suoi allievi ha redatto “Lettera a una professoressa” nel 1967 – è approdato da oltre dieci anni in Calabria, a Vibo Valentia, per ragioni sportive ma anche per quelle del cuore. Sono alcune delle coincidenze che bussano alla porta della vita e chiedono ospitalità. Anche Albert Einstein aveva intuito che “la verità è ciò che resiste alla prova dell’esperienza” (Pensieri degli anni difficili, 1936).
La scuola fondamentalmente è relazione e misura con se stessi e con gli altri: non è una semplice strategia di trasmissione e apprendimento. Ci sono passaggi segreti da percorrere con molta attenzione, visioni che si aprono e che diventano istanze, come la lettera di un sopravvissuto nei lager nazisti che scrive ad un insegnante (da Les mémoires de la Shoah di Anniek Cojean, “Le Monde”, 29 aprile 1995):
“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessuno essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università; Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i nostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica, non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”.
La didattica non si può ridurre ad una questione tecnica, come alcuni pensano o certi poteri auspicano, con l’intento non più occulto di mettere al posto di un docente in carne e ossa un algoritmo con le sembianze sempre più mistificate dell’efficienza, per impartire una lezione totalitaria, modellare e uniformare l’umanità a immagine e somiglianza di fotocopie o di cloni. Un conto è istruire, indottrinare, un altro è tracciare un solco e seminari dubbi: “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” (Norberto Bobbio, Politica e cultura, 1955). Il fine deve essere l’uomo, la sua dignità, la sua bellezza, la sua unicità, la fioritura misteriosa e meravigliosa del suo essere. Questo l’imperativo categorico su cui ha riflettuto un filosofo illuminista come Immanuel Kant. Si tratta di generare la tensione nel rapporto tra l’io e il noi nel tempo e nello spazio per ricreare la corrispondenza tra la materia e lo spirito, tra la scienza e la coscienza. Sotto questo profilo, un messaggio “istruttivo” ed esemplare dal punto di vista umano, etico e pedagogico, lo ritroviamo espresso dal filosofo Gunther Anders in una lettera datata 3 giugno del 1959, indirizzata a Claude Eatherly, il pilota americano che il 6 agosto del 1945 ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima:
“Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi
morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere
inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare «incolpevolmente colpevoli», in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri… (…)
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest’epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, «in the same boat», nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora. Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro...”
Siamo tutti “nella stessa barca” anche se c’è chi viaggia in transatlantico, chi su una nave corazzata, chi su uno yacth, o su un veliero, o su una fregata, o su una scialuppa di salvataggio, per affrontare o per scatenare la tempesta. Ma tutti possiamo essere “incolpevolmente colpevoli” e complici di atroci crimini. Accade sotto i nostri miopi occhi, anestetizzati e disumanizzati dal potere narcotico del colore dell’oro e dell’ego. Si pensi a quanto sangue umano innocente viene versato negli immani e mostruosi profitti ottenuti attraverso la vendita delle armi. E il nostro Paese è uno dei più “avanzati” produttori di armamenti bellici, come dimostra l’ultima vicenda della maxi commessa di 10 miliardi di euro al regime egiziano, grazie al lungimirante lavoro del Governo italiano (sulla virtuosa scia degli altri “pacifici” Governi europei), “fervente cultore” della giustizia, della pace e della fratellanza come recita l’art. 11 della Costituzione italiana e l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu. Mentre ufficialmente si chiede alle Nazioni Unite di ottenere maggiori garanzie democratiche sulla libertà di espressione in Egitto, pubblicate su un documento della Universal Periodic Review , intimando al Governo egiziano la verità sulla brutale uccisione di Giulio Regeni, segretamente le diplomazie tessono i fili d’oro della morte. Gli affari sono affari! “Business is business”, questo il nuovo imperativo categorico dell’homo oeconomicus fondatore della illuminata e raffinata barbarie liberista che ha infuso il “darvinismo sociale” su cui ha riflettuto Einstein pensando ai giovani e al ruolo dell’insegnamento, sempre in Pensieri degli anni difficili:
“La teoria di Darwin della lotta per l’esistenza e il principio della selezione che le è connesso sono stati citati da molti come un’autorizzazione ad incoraggiare lo spirito di competizione. Certuni in questo modo hanno anche tentato di dare una dimostrazione pseudoscientifica della necessità della lotta economica distruttrice nella competizione fra gli individui. Ma ciò è sbagliato, perché l’uomo deve la propria forza nella lotta per l’esistenza al fatto che è un animale sociale. Come poco essenziale alla sopravvivenza di un formicaio è una battaglia fra le singole formiche, così poco essenziale è in questo caso la lotta fra i singoli membri di una comunità.
Perciò ci si dovrebbe guardare dal predicare ai giovani il successo, inteso nel senso comune, come uno scopo della vita. Infatti un uomo di successo è quello che riceve una grande quantità di cose dai suoi simili, in genere incomparabilmente più di quanto corrisponda al servizio da lui prestato. Il valore di un uomo, tuttavia, dovrebbe essere posto in ciò che egli dà e non in ciò che egli può ricevere.
La motivazione più importante per il lavoro, nella scuola e nella vita, è il piacere del lavoro, piacere che si prova di fronte al suo risultato e alla consapevolezza del suo valore per la comunità. Nel risveglio e nel rafforzamento di queste forze psicologiche nel giovane io vedo il compito più importante della scuola. Un tale fondamento psicologico da solo conduce a un sereno desiderio delle più alte conquiste umane: la conoscenza e la capacità artistica”.
Modellare l’argilla dei sogni per non restare schiavi dei bisogni e della brutalità
In questo tempo scandito dalla paura del contagio e dal trauma collettivo, abbiamo imparato quanto sia importante per l’essere umano vivere la presenza. Soprattutto per la vita della Scuola. È impensabile immaginare la didattica da remoto: l’esperienza degli esami lo hanno testimoniato. Si è compreso il valore dello stare insieme, della vicinanza fisica, della comunicazione paraverbale, di quelle informazioni che trasmette il nostro corpo attraverso la semiotica del viso e della voce. Aristotele lo aveva intuito in modo razionale e relazionale quando ha spiegato che l’uomo è l’essere vivente che usa il logos. Fondamento culturale trasformato in chiave spirituale dal vangelo secondo Giovanni attraverso il principio del Verbo. Il linguaggio o i linguaggi, per potersi esprimere ed evolversi, hanno bisogno di un dialogo. Il processo intellettivo ed estetico non affiora in tutta la sua potente ispirazione quando c’è uno schermo, o ci si imbalsama dentro la torre eburnea delle biblioteche, con la vana pretesa di entrare nel tempio assoluto della conoscenza.
Dalla pietra all’algoritmo, questo il biòs del bìos, l’arco dell’evoluzione della vita, la parabola che ha portato l’homo erectus a trasformarsi in sapiens fino al punto di concepire il noumeno (da Platone a Kant). A contrassegnare questo viaggio il fuoco, che ha segnato il passaggio dalla natura alla cultura attraverso la cottura dei cibi, come ha spiegato il filosofo e antropologo Claude Levi-Strauss. Poi l’invenzione della scrittura che ha in sé anche l’anima della scoperta, imprimendo su una stele, su una tavoletta di terracotta o su un foglio, il potere della parola attraverso dei simboli. Ed è il linguaggio simbolico alla base della cultura: del pensiero, della riflessione, della intuizione, della fantasia, dei sogni, della comunicazione e dell’atto stesso del nominare. Il filosofo e critico letterario Walter Benjamin meditava che “la creazione di Dio si completa quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo, da cui nel nome parla solo la lingua” (in Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918). Da una parte l’homo faber che lavora la terra, dall’altra l’homo sapiens che impone il nome agli esseri, simbolo di conoscenza e di dominio, di scienza e di tecnica. È il nominare che dà identità e potere. Lo apprendiamo dall’antico testamento ma anche dalla sapienza antica egizia: elencare i nomi degli animali e delle altre realtà era in pratica l’opera di colui che noi ora chiamiamo scienziato e che i greci definivano demiurgo, artefice dell’ordine cosmico e divinità ordinatrice del mondo.
Il campo della cultura è così vasto che ci si perde nel suo mistero. Ma la più alta cultura – potrebbe sembrare una eresia per i ben pensanti – è nella mani del contadino che aprono la zolla con sacrificio, cura, amore e sacralità, donandoci come frutto il buon cibo. E questo è un miracolo che si manifesta in silenzio, giorno dopo giorno, senza alcun clamore. Come si può spiegare il “ben dell’intelletto” se non attraverso l’evento per cui, ad un certo punto, un nostro antenato, discendente della scimmia secondo le teoria scientifica evoluzionista di C. Darwin, comincia ad interrogarsi tracciando un solco? In un momento misterioso, una creatura con le sembianze di un ominide – non sappiamo quando e come, ma solo fare ipotesi – ha generato una scintilla intuitiva e ha iniziato a inventare miti e a mettere ordine al caos, costruendo strumenti e linguaggi per non restare impreparato di fronte all’imprevisto e all’enigma della creazione:
“Mi ha sempre affascinato immaginare quella curiosa circostanza in cui i nostri antenati, poco più che diversi dagli animali, grazie a un linguaggio appena nato che permetteva loro di comunicare, iniziarono, nelle caverne, intorno al fuoco, durante notti pieni di pericoli – fulmini, tuoni, fiere ringhianti – a inventare storie e a raccontarsele. Quello fu un momento cruciale del nostro destino, in quanto, in quella cerchia di esseri primitivi meravigliati della voce e della fantasia di chi stava loro raccontando, ebbe inizio la civiltà, quel lungo percorso che ci avrebbe reso umani e ci avrebbe portati a inventare la scienza, le arti, il diritto, la libertà, a indagare i misteri della natura, del corpo umano, dello spazio e a viaggiare verso le stelle (…).
Per non regredire verso la barbarie dell’incomunicabilità e affinché la vita non si riduca al pragmatismo degli specialisti che vedono sì le cose in profondità ma che allo stesso tempo ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo. Per non diventare servi e schiavi delle macchine che noi stessi abbiamo inventato. E perché un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali, né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni.” (M. VargasLlosa, Elogio della lettura e della finzione).
Senza sogni rimangono soli i bisogni e le paure che fanno regredire l’umanità ad una condizione di decadenza e di malvagità. La costruzione di strumenti tecnico-scientifici capaci di far fronte all’incertezza e all’insicurezza, ha scandito i passi dell’avventura umana nel mondo, modellando i comportamenti dell’homo sapiens dal paleolitico al neolitico. In questo teatro contemporaneo con l’entrata in scena dell’homo technicus/technologicus che ha deciso di emanciparsi dall’homo sapiens sapiens, la musica è forse cambiata? Stiamo sperimentando ancora una volta la fragilità umana e l’uomo si scopre nudo: nella nudità si rivela la sua verità, come è accaduto ad Adamo ed Eva nel mito dell’eden perduto.
Questa condizione di precarietà l’aveva già descritta con la potenza drammatica della sua poesia lo scrittore latino Lucrezio (I sec. a.C.) nel suo magistrale poema De rerum natura, in particolare in un passaggio del libro V (vv. 218-234):
Come mai si moltiplicano, per le terre e nei mari
moltitudini orrende di tanti animali feroci
che sono nemici dell’uomo? Perché le stagioni
ci portano le malattie? Perché tanti giovani muoiono?
Ogni bambino che nasce assomiglia ad un naufrago
solo sulla battigia, senza alcuna difesa
che lo aiuti ad esistere dopo il momento nel quale
la natura, forzandolo, lo aveva strappato alla madre:
può solo farsi sentire con disperati vagiti
che sembrano far presagire mille mali futuri.
Ciò non accadde alle bestie, siano mansuete o feroci,
che non richiedono i baci, né le carezze, né i vezzi
che le nutrici rivolgono ai figli dell’uomo:
non hanno bisogno di abiti adatti alle varie stagioni
e neppure di armi: a loro non servono mura
dietro cui trincerarsi, perché la natura e la terra
recano sempre a ciascuno quel che gli occorre.
A concludere quest’opera, in corrispondenza con quanto stiamo attraversando, l’immagine catastrofica contenuta nel VI libro in cui Lucrezio, ispirandosi all’episodio descritto da Tucidide nel libro II della Guerra del Peloponneso, narra la peste di Atene del 430 a.C. che scoppia durante l’ultima fase della guerra ed offre uno spettacolo desolante, dove l’umanità perde ogni valore, annientata dalla malattia.
Dopo due millenni e 4 secoli siamo così approdati nel tempo straordinario contrassegnato dalla emergenza Covid 19: un microorganismo, invisibile ai nostri occhi e ai nostri sensi – simile alle particelle elementari della visione atomistica epicurea di cui il De rerum natura ne è il manifesto “poetico e scientifico”, in sintonia con la teoria della fisica dei quanti – ha avuto il potere di arrestare – temporaneamente? – una macchina che sembrava inarrestabile, in trionfale marcia verso il proprio disastro, in nome del dio PIL. In questo particolare fenomeno fisico, antropologico, patologico, psicologico, sociologico, sono emerse le enormi contraddizioni che dominano il campo delle scienze mediche e dei loro eminenti rappresentanti, almeno di quelli che lo show mediatico ci ha esibito, ricreando la famosa Querelle des anciens e des modernes, tra integrati e apocalittici, secondo la fortunata definizione di Umberto Eco nell’omonimo libro pubblicato nel 1964 (titolo imposto dall’editore Bompiani).
Si auspica un ritorno all’aurorale rapporto tra psiche e technè posto dalla filosofia greca, cioè la costante tensione all’agire per creare un equilibrio tra natura e mente, e la capacità dell’uomo di trovare una “misura” in ciò che invece appare come smisurato. L’intento pedagogico di ogni atto per la visione greca era fondamentale. Ogni agire, nelle diverse espressioni e in ogni forma di sapere, sono tesi alla formazione dell’individuo nella collettività. Questo ideale educativo (paideia) si realizza nella comunicazione di un sapere inteso come conversione (epistrophé): cioè far volgere lo sguardo verso la ricerca della verità, per dar luce a ciò che è nascosto, come ci rivela il termine aletheia, e che possiamo sperimentare solcando la terra. La “conversione” è anche la parola magica per quanto riguarda il trasferimento di energia nel campo dei fenomeni fisici della termodinamica che riguardano l’elettromagnetismo (come ad es. la pila che converte l’energia chimica accumulata in energia elettrica). Anche nelle situazioni estreme esistenziali o sentimentali, avviene questa conversione. Si verifica nello scoccare della scintilla grazie alla durezza delle pietre, o immaginando inoltre il mare in tempesta, quando si alzano inquietanti le creste schiumate delle onde che si infrangono minacciose sugli scogli; o sulla spiaggia, con gli impetuosi flutti che depositano una parte di quello che il mare aveva ingoiato, compreso tutte le immondizie che l’essere umano, con la sua smisurata stupidità, ha pensato di occultare nel ventre delle sue acque, come il pescecane nella fiaba di Pinocchio o il profeta Giona nella pancia della balena, assurto a “segno” profetico tra il vecchio e il nuovo testamento, nella parabola riportata dai vangeli: “Come Giona fu segno per quelli di Ninive, così il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Luca 11,30); “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra.” (Matteo, 12,40).
“Parabola” docet
Anche la parabola porta dentro il suo ventre un messaggio, come gli esami appena conclusi che hanno consegnato la loro profezia. La testimonianza dell’ultimo candidato, Giovanni R., nella presentazione del suo PCTO (Percorsi per Competenze Trasversali e per l’Orientamento), ha infatti avuto la virtù di interpretare i sentimenti collettivi dell’intera classe: “Ho imparato a pianificare la mia giornata. Ho avuto modo di fare nuove amicizie. Ho maturato una maggiore consapevolezza delle mie capacità, quindi poter valutare con maggiore attenzione le scelte future per la formazione professionale”. Grazie all’ambiente che “ha favorito la comunicazione intergenerazionale gettando le basi per un mutuo scambio di esperienze ed una crescita reciproca”.
Dopo aver elencato le esperienze nella varie manifestazione ed eventi, nella sua esposizione finale Giovanni ha messo in luce come l’Istituto alberghiero “Gagliardi” sia stato nel periodo di massima diffusione del contagio Covid 19 in prima linea nel dare risposte all’emergenza sociale con il progetto “CASA” (Cucine Aperte Solidarietà Alimentare); e facendo riferimento agli artt. 1, 3, 9, 33, 34, 35,36 della Costituzione e all’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (in cui gli Stati firmatari si impegnano a tutelare la salute e il benessere fisico, materiale, sociale e mentale come diritto fondamentale per l’essere umano senza alcuna discriminazione), ha ringraziato i docenti con queste parole:
“Ho potuto contare su di voi; siete stai pazienti; avete indovinato i miei desideri e per la fiducia che avete riposto in me”.
Infine per ridare significato alla missione di ogni insegnamento e alla vita come missione, ha riportato la preghiera che Madre Teresa ha dedicato agli studenti:
“Prego affinché tutti i giovani diplomati non portino con sé solo un pezzo di carta, ma portino con sé amore, pace, cultura… Affinché sappiano dare ciò che hanno ricevuto. Perché hanno ricevuta non per tenere per sé, ma per condividere con gli altri.
Un corale grazie al resto della classe V F (Andrea B.- Francesco C. – Saverio B. – Giovanna C. – Daniele D. -Vincenzo D. – Lorenzo E. – Domenico F. – Andrea L. – Ruben L. – Rita M. – Pasquale M. – Riccardo M. – Vincenzo M. – Mario P. – Marcello R. – Antonella S. – Andrea S. Giuseppe S. – Antonella T. – Carmela T.).
Ognuno di loro, con la loro esperienza e storia, hanno ispirato questo breve Diario di scuola degli esami maturati a giugno, come il grano, come la memoria di questi profetici versi che Giuseppe Ungaretti ha scritto il 1 giugno del 1917, 53 anni prima della sua morte, 1 giugno 1970:
Quando
mi morirà
questa notte
e come un altro
potrò guardarla
e mi addormenterò
al fruscio
delle onde
che finiscono
di avvoltolarsi
alla cinta di gaggie
della mia casa
Quando mi risveglierò
nel tuo corpo
che si modula
come la voce dell’usignolo
Si estenua
come il colore
rilucente
del grano maturo
Nella trasparenza
dell’acqua
l’oro velino
della tua pelle
si brinerà di moro
Librata
dalle lastre
squillanti
dell’aria sarai
come una
pantera
Ai tagli
mobili
dell’ombra
ti sfoglierai
Ruggendo
muta in
quella polvere
mi soffocherai
Poi
socchiuderai le palpebre
Vedremo il nostro amore reclinarsi
come sera
Poi vedrò
rasserenato
nell’orizzonte di bitume
delle tue iridi morirmi
le pupille
Ora
il sereno è chiuso
come
a quest’ora
nel mio paese d’Africa
i gelsomini
Ho perso il sonno
Oscillo
al canto d’una strada
come una lucciola
Mi morirà
questa notte?