Lettera ai professori: raccomandazioni per l’esame di maturità

Si raccomanda un bel Cento con lode a tutti i “candidati” che si ribellano all’oltraggioso e ignobile malcostume della raccomandazione. Basta solo indovinare nei loro occhi le cose belle che essi vedranno chiare domani… (don Lorenzo Milani)

Con una dedica ai maturandi del tutto speciali che si ritrovano a fare gli esami insieme ai loro figli, come le mamme del Corso serale dell’Ipseoa “E. Gagliardi” di Vibo Valentia

I giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere” (Plutarco)

VIBO VALENTIA – C’è un enigma che risuona silenzioso ma imperioso a partire da mercoledì prossimo, 17 giugno: a sostenere l’esame di maturità, saranno i candidati o i docenti? In questo clima di emergenza emerge questo interrogativo che negli altri anni è rimasto “confinato”. La didattica a distanza ha fatto emergere anche un altro fenomeno: ha allargato e approfondito le disuguaglianze. E ritornano inquietanti ma profetiche le parole di una celebre battuta del romanzo, “La fattoria degli animali” di G. Orwell, pronunciate dal capo dei maiali Napoleon: “Tutti gli animali sono uguali.  Ma alcuni sono più uguali degli altri”. De nobis fabula narratur, il racconto parla di noi.

“Ci sono esami tutti i momenti” e “di imparare non si finisce mai”, raccontava Gianni Rodari a 100 anni dalla nascita e a 40 dalla morte nella sua poesia “Un scuola grande come il mondo”. Lo hanno sperimentato i docenti, gli studenti e le famiglie, e lo stanno vivendo tutti coloro che devono affrontare l’esame, con la firma indelebile apposta dal Covid 19. Resterà nella memoria collettiva con una impressione così potente che si è impressa nel DNA della storia antropologica e sociale del mondo; ma dobbiamo aspettare ancora per comprendere gli effetti che produrrà. In questi mesi di emergenza e confinamento, di lockdown – anglicismo divenuto insopportabile, insieme ai tanti altri termini ed espressioni come smart working, ripetuti all’inverosimile come pappagalli da scienziati, medici, virologi, epidemiologi, etologi, storici, sociologi, psicologi ecc., eminenti giornalisti ed esperti di varie schiatte: un contagio inarrestabile, altro che coronavirus! Quest’uso spregiudicato e passivo di termini inglesi rappresenta  un oltraggio continuo alla capacità di riflettere attraverso l’uso consapevole delle parole e della lingua, alla base di ogni pensiero libero e meditato per dare ossigeno al ben dell’intelletto, e quindi al vero progresso umano, sociale culturale, scientifico e spirituale, secondo quelle che è la prospettiva originaria della parola scholé, la scuola come luogo della formazione dello spirito critico, del confronto, della libera discussione.; presupposti questi per creare “le tre forme della coscienza di sé” (Marc Fumaroli): coscienza linguistica, storica e morale.

In questi mesi di distanziamento fisco (non certo sociale, altra abnormità linguistico-espressiva), abbiamo imparato – forse – che per essere cosmopoliti “occorre possedere un villaggio vivente nella memoria” secondo la nota massima del grande antropologo Ernesto De Martino. Il primo, profondo inganno parte sempre dall’uso mistificatorio, inquinante e contagiante, delle parole, prefigurando una profonda, invisibile e occulta colonizzazione delle intelligenze e delle coscienze. Lo aveva decretato oltre 25 secoli fa Confucio e lo ha certificato don Lorenzo Milani, per restare in tema, con “Lettera a una professoressa” (1967).  E  in questi tempi in cui gli argini della “normalità” sono stati rotti (Pirandello docet), si osserva che certi malcostumi sono sempre più radicati, inveterati, ostinati, difficilmente debellabili. Come il fenomeno che si genera prima degli esami, diventato ormai, una “tradizione storica” a dir poco deprecabile: quella della inossidabile raccomandazione. Come una rete social si attivano le relazioni interpersonali, le vecchie e nuove “amicizie”, un retaggio ed un sottobosco che affonda le radici nelle ataviche strutture sociali e antropologiche del Medioevo, con una corsa a volte disperata, da parte dei genitori, a cercare un santo in paradiso, con tanto di omaggio e di protezione, che fanno invidia al “culto della stirpe” dei clan. Questo comportamento è un oltraggio alla dignità dello studente, ma soprattutto alla deontologia professionale di ogni docente, alla coscienza etica e civile di ogni cittadino, come è sancito nella Costituzione (art. 3) e nel codice etico-morale di ogni essere umano che lotta contro ogni forma di ingiustizia, in particolar modo di coloro che già hanno dovuto affrontare difficoltà di ogni genere nella vita: i meno fortunati, i diseredati, gli esclusi. Dai rapporti e report che sono emersi alla luce degli effetti che la crisi ha provocato in questi mesi dell’era Covid 19, è documentato che chi era già povero, in difficoltà e viveva condizioni di disagio, è stato maggiormente penalizzato. Dai dati inoltre si evince che la cosiddetta “didattica a distanza” non ha fatto altro che approfondire e allargare le “distanze” culturali e sociali, non solo economiche. Ne ha fatto una analisi approfondita lo storico Marco Revelli, (figlio di Nuto Revelli, protagonista della Resistenza nel Cuneese, e autore di opere memorabili come “Il mondo dei vinti” e “L’anello forte”) che si può leggere sulla rivista online “doppiozero.com” dal titolo Identikit sociale della pandemia, dell’11 giugno scorso.

Guardando al futuro prossimo, non bisogna mai dimenticare che “…il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso”. Sono parolescolpite come pietre in “Lettera ai giudici” (1965) da don Lorenzo Milani, un testo importante che mette in primo piano la parrhesia, la responsabilità etica delle proprie azioni e il primato della coscienza, e che ogni docente dovrebbe tenere vivo nella memoria e nella missione del proprio ruolo. Quello dell’insegnante è una delicata e appassionata operazione di “maieutica umana e antropologica”, come ha ricordato anche Daniel Pennac, uno degli scrittori francesi più conosciuti in Italia, nel suo “Diario di scuola” quando spiega perché si è deciso a scrivere un ennesimo libro sulla scuola, lui che era considerato un “emerito somaro” a causa della sua dislessia: “Gli insegnanti che mi hanno salvato  – e che hanno fatto di me un insegnante – non erano formati per questo – Non si sono preoccupati delle origini della mia infermità. Non hanno perso tempo a cercare le cause e tanto meno a farmi la predica. Erano adulti di fronte ad adolescenti in pericolo. Hanno capito che occorreva agire tempestivamente. Si sono buttati. Non ce l’hanno fatta. Si sono buttati di nuovo, giorno dopo giorno, ancora e ancora… alla fine mi hanno tirato fuori. E molti altri con me. Ci hanno letteralmente ripescati. Dobbiamo loro la vita.”

Già, “gli esami non finiscono mai”, aveva scritto Eduardo de Filippo. Specialmente per i commissari che devono esaminare i candidati, è veramente una prova di maturità. Questa la fondamentale raccomandazione “se vogliamo essere credibili piuttosto che credenti” (Rosario Livatino) ed esempio per tutta la classe e le classi, a partire da quella politica e dirigente: diamo un bel cento con lode a tutti i “candidati” che si ribellano a questo oltraggioso e ignobile malcostume che ha infestato la società italiana. Per nostra fortuna ci sono. Basta solo indovinare nei loro occhi le cose belle che essi vedranno chiare domani”…