Gli Orti in giardino di Ilaria Campisi risorti dalla cenere

Sorti due anni fa a Focà, nel comune di Caulonia, sono stati distrutti da un incendio doloso. Tante le iniziative per denunciare l’atto con il sostegno e l’impegno del variegato mondo della cultura e di persone sensibili allo spirito ecologico ed etico-civile. Concepiti da Ilaria Campisi per dar vita ad una comunità che possa sentirsi protagonista di una esperienza in cui il bello si coniuga con il buono e con il bene, è stata aperta una campagna di testimonianze e di solidarietà attraverso quattro hashtag,  #gliOrtiInGiardino, #fuoconemico, #lideanonsiferma, #postfataresurgo, accompagnati da un messaggio:

“Il fuoco ha alimentato le energie positive. Gli Orti sono fieri di avere accanto tante persone, artisti, musicisti, pittori, contadini, archeologi e teatranti, persone come te, come me, che insieme si stanno dando la possibilità di un mutamento. Siamo felici perché la durezza della vita diventa la bellezza e la verità dei rapporti”.

Prologo

 

Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. (Marco 9,43)

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte. (Francesco di Assisi, Il cantico delle creature)

S’i’ fosse fuoco, ardereï ‘l mondo… (Cecco Angiolieri)

“Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler)

Per altri sentieri torneremo alla piana celeste di ulivi. Saremo dove si leva l’infanzia dei profumi; dove l’ acqua non si fa nera ma vacilla di luna; dove i passi avranno memorie di solchi e le dita di melograni; dove ti piace dormire e ti piace amare. Sono questi gli orti, i confini per ricordarci.

(Franco Costabile, “Per altri sentieri” da Via degli Ulivi e altre poesie)

Prologo

Il fuoco è stato protagonista di tanti olocausti nella storia e continua ad evocare non solo i sacrifici sugli altari per avere il favore degli Dei, ma terribili roghi e incendi, incenerimento di case e di vite (si pensi solo ai forni crematori nei lager nazisti e alla bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki). La foresta amazzonica sta bruciando per fare posto alla “smisurata ambizione” dell’uomo che lo porterà a distruggere il proprio bios. Si parva licet componere magnis (Virgilio, Le georgiche), se è consentito il confronto, anche nella nostra piccola geografia locale il fuoco divampa e brucia.

I nuovi olocausti

Gli “Orti in giardino” nati due anni fa dall’humus contadino di Ilaria Campisi, dovevano diventare portatori di una concezione rigenerativa di questa terra, dell’Alma Tellus e del suo spirito vitale. Ma nella notte tra il 16 e il 17 agosto son andati in fumo. I latini avevano coniato la locuzione nomen omen, il nome è un auspicio, un destino. Non a caso il toponimo “Focà”, dove erano stati messi a dimora, evoca il fuoco. Siamo nel comune di Caulonia, nella Locride, dove è fiorita la civiltà della Magna Grecia. Queste antichissime e profondissime radici sono ancora radicate in Ilaria, nel suo sguardo, nei suoi sentimenti, nella tradizione familiare e nella sua memoria. Ancora non sono state estirpate dalla folle rincorsa autodistruttiva per alimentare le fiamme del Pil su cui si regge il sistema produttivo neoliberista che ha minato l’eco-sostenibilità e che considera l’ambiente, la sua biodiversità, una risorsa da sacrificare sugli altari del dio denaro. Di fronte al delirio di onnipotenza che droga le menti e i sentimenti, in nome del consumo e della crescita senza limiti, si distrugge la bellezza: si inaridisce la spiritualità contemplativa, la conoscenza interiore: si oltraggia il lavoro onesto, la sacralità della vita e della terra. Orti Orti Orti È con l’entrata del nuovo millennio che Ilaria Campisi ha deciso di far ritorno alla sua terra. Con questa scelta ha voluto incarnare il messaggio in cui il bello si coniuga con il buono e con il bene, secondo la concezione greca impressa nel concetto della parola kalokagathia affinché l’immagine originaria, primitiva dell’età dell’oro, potesse ancora sopravvivere in un’epoca in cui a dominare è il vile metallo. Sull’altare del profitto, del dio danaro, del misero e transeunte potere, si brucia il bene più prezioso che ci è stato consegnato: l’ambiente, la natura, la vita, l’amore verso tutte le Creature, secondo lo spirito del santo di Assisi, Francesco. Ma quel fuoco che ha ridotto in cenere le piante, ha moltiplicato gli orti, facendo lievitare il sentimento della solidarietà, della condivisione, dell’amore verso la natura e verso chi se ne prende cura. Adesso gli orti e i giardini di questa “nobile contadina” dall’anima ecologica e archeologica, con dentro un verde intenso, sono più reali che mai, perché si sono moltiplicati nei sentimenti di tanti, nello spirito che illumina e rinnova le energie della terra, di quella umanità sensibile ai valori più alti dell’esistere, perché si è “scatenato” il fuoco prometeico della “resistenza naturale e spirituale”, che si conserva nella memoria del DNA, quando il limite dell’obbrobrio, della brutalità e della banalità del male, non trova misura. Ed ecco che dalla loro distruzione stanno nascendo tanti progetti. Chi ha scatenato l’incendio ha voluto fare “terra bruciata” e pensato di inaridire anche una comunione di anime che hanno una visione, non semplicemente alla moda, radical chic, ma profondamente autenticamente aderente ad una concezione di armonia tra uomo e natura, pervasa di umiltà e di umanità. Gli Orti in giardino creati da Ilaria hanno dimostrato che ciò è possibile. Il sentimento dell’ospitalità, dell’accoglienza,  aveva una sua dimora, nonostante il vento xenofobo abbia divampato ovunque e alimentato la paura e l’odio verso i migranti, vittime predestinate di nuovi e più invisibili olocausti, e si è riversato anche verso le piante. I neo regimi alimentati dai populismi e dai sovranismi, offrono in sacrificio un diverso ma identico capro espiatorio facendo leva sulle fragilità, sulle paure, sugli egoismi, sulle frustrazioni, sulle enormi ingiustizie, che l’inciviltà dei consumi ha esaltato e portato fino allo spasmo, riproponendo quello che è accaduto nell’età dei totalitarismi e riportando indietro in modo pericoloso e inquietante la Storia. Il regno di Ilaria ha accolto non solo gli esseri umani sradicati dalle loro lontane e straniere terre, ma anche la diversità delle stesse piante. Dentro quella piccola ma importante landa di terra, ha profuso il proprio sentimento, quello più importante, fondamentale per la vita e non solo per la sopravvivenza: accogliere gli altri per nutrire il corpo e l’anima in modo sano, onesto, producendo il bene e il bello, attraverso la biodiversità. Nei suoi “Orti” Ilaria Campisi ha dato vita a questo incontro di storie e di anime, e coinvolto tanti che come lei sentivano questa profonda risonanza. E si sono sentiti emotivamente, fisicamente, spiritualmente, ospitati in questa esperienza, coniugando il senso più alto della parola cultura: coltivare per il bene dell’intero creato e delle sue creature infondendo l’humus etico-estetico per liberare l’òikos di questa terra dalla brutalità, dalle brutture, dal degrado etico-civile e riscattare l’immagine di un territorio che invece di partorire la parte migliore, più sana, dà alla luce quella più oscura e inquietante, quella delle fiamme che divorano, che distruggono e aprono le porte all’inferno dei viventi: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventare parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (“Le città invisibili”, Italo Calvino). Gli orti sociali dovevano rappresentare un luogo dove riconoscersi come esseri umani che ancora riscoprono il dono di stare insieme in armonia, dove potersi fermare per contemplare e sentire le corrispondenze con la natura, ma anche vivere l’autentica cultura. Questo ritorno ad una sapienza antica, affonda le radici alla nascita stessa dell’agricoltura. Ilaria Campisi lo ha ricordato in una intervista nel giorno in cui gli orti sono stati inaugurati un anno fa, in questo mese, con tanti amici che hanno sposato questa idea e con degli artisti che hanno voluto donare la loro arte al messaggio di vita, di amore, di passione, di responsabilità etica, di poesia e di amore per la natura (tra cui i pittori Angelo Riccobene ed Enzo Niuttta,  e la cantastorie persiana Farzaneh Joorabchi). Gli “Orti in giardino” dovevano diventare un piccolo eden per far fiorire eventi culturali dentro una visione aperta che metta in primo piano la coscienza come scienza che illumina il cammino dell’uomo verso l’armonia cosmica. Già gli antichi avevano intuito il valore del coltivare gli orti, essenziale per far crescere la conoscenza. Con questa sensibilità etimologica, ecologica ed etica, lo scrittore Alessandro D’Avenia nel suo “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, ci consegna il significato profondo della parola cultura, in corrispondenza con il sentimento che ha dato vita agli Orti: “I latini per ‘curare’ usavano la parola colere, da cui cultum, da cui il termine “cultura” (l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo). La cultura non ha nulla a che fare con il consumare oggetti culturali: ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri, si acquisterà cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché dia frutto e tempo opportuno. Nella cultura ci sono il realismo del passato e del futuro e la lentezza del presente, cosa che il consumo non conosce: esso vuole la rapidità e immediatezza, non contempla la passione e la pazienza”. “Ad Alessandria – ha raccontato Ilaria il giorno dell’inaugurazione – vicino alla biblioteca, c’erano gli orti e così anche ad Efeso. Le persone andavano a leggere, a studiare e facevano sedimentare e germogliare la conoscenza dentro loro stessi curando un orto. C’era la biblioteca e la parte dedicata agli orti. Questi orti vogliono essere tutto questo: un contatto con la terra, con le origini, con la natura, ma nello sesso tempo un modo per entrare in contatto con noi stessi. La vera esigenza non è certo quello che ci fanno credere di avere, andare sempre di corsa e avere sempre di più. No! Dobbiamo fermarci e capire il senso della vita. Solo andando lentamente e soprattutto curiosando nell’altro e dentro se stessi, forse riusciremo ad avere un tempo di vita migliore.” L’uomo diventa artefice e frutto della cultura nel momento in cui inizia a coltivare la terra. La zolla è il simbolo di una sapienza antica che ci è stata donata. Non sappiamo quando l’uomo ha fatto scaturire il pensiero. “La realtà ha tante sfaccettature – ha proseguito Ilaria – c’è il lato magico delle cose, che purtroppo oggi si perde. Ritorniamo sempre lì, a quella lentezza che ci fa cogliere i segni, che ci indicano la strada. Ma per cogliere i segni e trovare la strada bisogna avere quella calma interiore e percepire cosa c’è dietro la realtà, dietro l’Altro, dentro l’Altro”. Nel mondo contadino, nella millenaria tradizione di questa civiltà, l’uomo fermandosi sviluppava la capacità di contemplare il mondo e di cogliere i segni, e anche di tracciare un disegno. Ilaria svela di averlo tracciato. “Il mio sogno è quello di una bambina che frequentava questo posto molto più curato di adesso, di tutti i bambini che scorrazzavano spensierati, figli di amici con i miei nipoti, negli orti. Il mio sogno è che possano ancora avere quel mondo che stiamo perdendo. Vorrei che loro possano soffermarsi a guardare la lucciola, a guardare l’esserino che dà fastidio al pomodoro, e avere meraviglia, perché purtroppo in questo mondo, in cui noi corriamo, corriamo corriamo, per loro io vedo tutt’altre cose. Allora, se io potessi tracciare questo disegno, mi piacerebbe che loro potessero essere quella bambina che fui io a 5 anni. E quindi lo sto facendo anche per loro: che non si possa perdere quella meraviglia, quella magia. Un vecchio contadino – ha ricordato – mi ha detto che nella vita, la ricetta per vivere una vita serena – la ricerca della felicità, appunto–che bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo: nella tua giornata devi mettere un pizzico di lavoro, un pizzico di allegria, un pizzico di amore. Tutte le cose che fanno parte della tua vita, le devi chiudere nell’ambito di una giornata. Non ti devi scordare, perché ogni giorno devi dedicare un pezzettino della tua vita al lavoro, all’allegria, alla famiglia, al sorriso e così tu vivrai una vita buona. Invece oggi non accade. Oggi è proprio l’antitesi di questa saggezza contadina, ed è un vero peccato.” Diversi sono gli scienziati e i maestri che attestano il valore di questa sapienza ottenuta per via intuitiva. In particolare si ricorda la scienza dello stupore e della meraviglia (eredità del filosofo Aristotele) in due fisici premi Nobel che hanno indagato il microcosmo (l’atomo) e il macrocosmo (l’universo) rivoluzionando la fisica della meccanica classica. “Tutto quello che ci appare e che chiamiamo reale è fatto di qualcosa che non possiamo considerare reale”, aveva osservato Niels Bohr (premio Nobel nel 1922). Di fronte all’incredibile fenomeno dei meccanismi misteriosi che regolano il funzionamento dell’atomo e quindi della materia, non contiene il suo stupore: “E’ incredibile perché tutto quello che ci sembra reale è fatto di qualcosa di apparentemente reale e ciò è stupefacente”. Questo sentimento della meraviglia Albert Einstein (premio Nobel per la Fisica nel 1921) lo esprime di fronte alla sconfinata bellezza del cosmo e al mistero che lo circonda: “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Essa è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa fermarsi a contemplare e rimanere rapito in timorosa ammirazione, è come morto: i suoi occhi sono chiusi”. Mentre il fisico che ha indagato per primo le particelle elementari, iniziatore della fisica quantistica, Max Planck (premio Nobel nel 1918), ha intuito che la materia pare essere una forma di coscienza, di intelligenza e afferma: “Solo coloro che pensano a metà diventano atee; coloro che vanno a fondo con il loro pensiero e vedono le relazioni meravigliose tra le leggi universali, riconoscono una potenza creatrice”. La ricerca scientifica della teoria dei quanti o meccanica quantistica ci porta alla coscienza, alla scienza sperimentata dai maestri spirituali. Anche un altro fisico non famoso come i precedenti, lo statunitense David Bohm (1917 – 1992), che ha scritto insieme al grande maestro indiano Jiddu Krishnamurti (1895 – 1986) Dove il tempo finisce, ha comparato le intuizioni spirituali con la teoria dei quanti. In questo testo si coniugano le intuizioni di Krishnamurti con gli approdi della fisica quantistica, deducendo che il tempo esiste su diversi piani ed ad uno stato più profondo sembra non esistere. Questo fenomeno lo ha osservato anche il fisico italiano Carlo Rovelli nel suo “L’ordine del tempo”, facendo riferimento all’equazione per misurare l’entropia formulata dal fisico Ludwig Boltzmann (1844 – 1906). Determinate scoperte scientifiche aprono la nostra mente. Una mente più aperta diventa più creativa e dai meccanismi della mente razionale si passa a quelli della mente intuitiva, come hanno sperimentato gli antichi filosofi e i maestri che praticano la meditazione. Lo stesso Einstein ha dichiarato che “la mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo” mentre “noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”. Nella scelta intuitiva e “radicale” di Ilaria Campisi, fondata sulla responsabilità etica e sulla coscienza spirituale del Creato, possiamo legare anche l’appello di Carlo Petrini che si legge nella prefazione al libro di Jean Giono “Lettera ai contadini sulla povertà e la pace”: “… ponete questa lettera totalmente fuori dal suo contesto storico-politico, leggetela come se valesse non soltanto per ogni contadino del mondo nel 1938, ma anche per ogni contadino del mondo di ogni tempo, tanto per l’oggi quanto per il domani. Dico di più: leggetela come se valesse per ogni uomo di ogni epoca, il quale, anche se non ara, semina, alleva o raccoglie, deve capire che è giunto il momento di tornare a sentirsi contadini nel profondo.”

Gli orti sono già risorti dalla cenere

Emerge il rivoluzionario messaggio che ognuno di noi è ospite del nostro corpo e della terra in cui siamo nati e che ci accoglie. È un diverso stile di praticare la cura e la coltura della terra, di vivere l’ospitalità e di ospitare la cultura della filoxenia. Caulonia “sconfina” con Riace, borgo simbolo dell’accoglienza, della Xenia, dell’ospitalità, grazie all’impegno appassionato del suo ex sindaco Mimmo Lucano ancora confinato a Caulonia (da quei regimi e poteri che vogliono far proliferare la disumanità come nuova legge dell’umanità). In questo humus umano di accoglienza è cresciuta la straordinaria esperienza del Global Chorus, un coro multietnico formato da migranti, musicisti e cantanti locali (ne fa parte anche Ilaria), diretto dal maestro Carlo Frascà. Con il progetto “Suoni della terra” spettacolo di voci e strumenti insieme all’orchestra di percussionisti toscani dei Bandao, tra musica di strada, canto corale, rap e storie di uomini, per l’impegno della cooperativa sociale “Phatos” (Caulonia) e della sua presidente Maria Paola Sorace, a luglio sono stati protagonisti di un viaggio senza precedenti in diverse località calabresi. In questo itinerario hanno partorito le vicissitudini che vive chi è costretto a sradicarsi dalla propria terra alla disperata ricerca di un luogo dove poter pro-gettare la propria storia nell’incontro con l’Altro e l’Altrove, per sentire il respiro della libertà grazie anche al canto e alla musica. Lo spirito è fuoco che arde e va custodito, come la tradizione evocata dal musicista G. Mahler. Così il sogno non brucia, ma trasfonde e trasforma. Solo chi non sa sognare non crea. Il principio che regola i fenomeni da sempre, “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, è un nodo epistemologico che richiama la trasformazione del classico psiche e techné, mettendo insieme filosofia, letteratura, scienza, etica e coscienza, come nel famoso principio di Anassagora “Niente nasce né perisce, ma da ciò che esiste si riunisce e si separa”, riformulato da Lavoisier nel postulato della meccanica classica, con la formulazione della “legge della conservazione della massa”. L’intuizione dei filosofi presocratici ha aperto la strada alla codificazione scientifica. Così Eraclito, padre del Panta Rei, la filosofia del divenire, che andava alla ricerca dell’arché, del principio primo, lo aveva identificato con il fuoco. E non a caso nel mito, Prometeo dona il fuoco al genere umano affinché possa progredire e riscattarsi da una condizione inferiore, attraverso la tecnica, la conoscenza e la scienza. Ma per questa ambizione che diventa “smisurata” (lo hybris dei greci) viene punito da Zeus. Eschilo, nella tragedia “Prometeo incatenato”, evoca la mitica storia del titano e lo raffigura come portatore di luce e di progresso, anche a costo di sfidare la volontà di Zeus; invece Esiodo nella Teogonia, lo presenta come un tracotante che sfida gli dei in una gara d’astuzia nella quale ad uscire perdente sarà proprio il genere umano. L’autentica cultura dissemina con straordinaria potenza il suo verbo mentre il sogno di Ilaria qualcuno ha tentato di annientarlo. Quel qualcuno ha pensato che il fuoco potesse bruciare anche i sogni e i segni per distruggere la biodiversità dell’anima degli Orti. La natura non teme il fuoco. Come la Fenice risorge dalla cenere non dopo 5 secoli, ma in “cinque giorni”: questo è il suo miracolo. Così l’idea, la visione, l’amore non bruciano, ma diventano incandescenti: imprimono il loro sigillo, il loro metallo battuto e plasmato dal fabbro nella fucina, le loro indelebili impronte che il tempo lascia su ogni presenza, anche sulle pietre. Come il vento, i sogni si propagano, si diffondono, alitano e sono ossigeno che fanno battere il cuore e infondere coraggio. “Le idee non si possono uccidere” aveva affermato Thomas Sankara, presidente del Burkina Fasu (“paese degli uomini integri, la terra dei puri”), prima di essere ucciso dai democratici e liberali servizi segreti degli Usa e della illuminata Francia nel 1987, dopo aver dato speranza alla sua gente e all’intera Africa per liberarla dal giogo del neo colonialismo europeo e degli Usa, che tuttora produce il tragico fenomeno dell’emigrazione e della mattanza sotto gli occhi indifferenti dei governi europei e italiani. Sankara nei suoi discorsi aveva ribadito che “per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di inventare l’avvenire” e che “tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile”. Gli Orti in Giardino di Ilaria, come le idee e il potere dell’immaginazione di Thomas Sankara, non potranno più essere bruciati, perché si sono disseminati simili a tanti piccole e invisibili faville che il vento ha propagato dalle fiamme che hanno divorato le piante, nella cenere che è rimasta sulla terra a coprire i segni dei solchi e delle zolle. “Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso” ha affermato l’altro grande monumento dell’Africa, Nelson Mandela. Quei geniali piromani che godono nel distruggere il bene e il buono che questa terra sa partorire, non possono pensare di poter incenerire questo disegno: perché c’è un fuoco ancora più potente che illumina – evocato da San Francesco nel suo Cantico – che riscalda, che cucina il cibo, che ha reso gli uomini umani – come ha spiegato il grande antropologo Levi-Strauss – che scalda gli uomini di umanità, che riunisce le persone attorno al focolare e crea comunione. Lo richiama Mario Vargas Lliosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, nel suo “Elogio della lettura e della finzione”: “Mi ha sempre affascinato immaginare quella curiosa circostanza in cui i nostri antenati, poco più che diversi dagli animali, grazie a un linguaggio appena nato che permetteva loro di comunicare, iniziarono, nelle caverne, intorno al fuoco, durante notti pieni di pericoli – fulmini, tuoni, fiere ringhianti – a inventare storie e a raccontarsele. Quello fu un momento cruciale del nostro destino, in quanto, in quella cerchia di esseri primitivi meravigliati della voce e della fantasia di chi stava loro raccontando, ebbe inizio la civiltà, quel lungo percorso che ci avrebbe reso umani e ci avrebbe portati a inventare la scienza, le arti, il diritto, la libertà, a indagare i misteri della natura, del corpo umano, dello spazio e a viaggiare verso le stelle. Quei racconti, favole, miti, leggende, che suonarono per la prima volta come una musica nuova dinnanzi a un uditorio intimidito dai misteri e dai pericoli del mondo dove tutto era sconosciuto e terribile, dovettero essere come un bagno refrigerante, un’oasi per quegli spiriti impauriti per i quali esistere significava unicamente nutrirsi, trovare un riparo dagli elementi, uccidere.. Quando cominciarono a sognare collettivamente, a condividere quei sogni, stimolati dai narratori di racconti, smisero di essere attaccati alla ruota della sopravvivenza, un vortice di impegni abbrutenti, e la loro vita si trasformò in sogno, desiderio, fantasia, in un disegno rivoluzionario: rompere quei confini e cambiare e migliorare, una lotta per soddisfare quei desideri e quelle ambizioni che in loro erano stati stimolati da quelle vite di finzione, e la curiosità per fare luce sulle incognite che stavano loro intorno… Per non regredire verso la barbarie dell’incomunicabilità e affinché la vita non si riduca al pragmatismo degli specialisti che vedono sì le cose in profondità ma che allo stesso tempo ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo. Per non diventare servi e schiavi delle macchine che noi stessi abbiamo inventato. E perché un mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali, né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in altro, in altri, modellati dall’argilla dei nostri sogni”. Lo rammenta Ilaria a caldo, con lo sguardo ancora in fiamme, come i suoi Orti in giardino: “Sono andati in fumo gli orti in giardino che coltiviamo per altre persone, turisti che vengono per affittare gli orti. Soprattutto è andata persa tutta una biodiversità e tutto un angoletto che era stato fatto da un punto di vista paesaggistico, dove si svolgevano degli eventi culturali e dove si scambiavano delle impressioni su vari argomenti che potevano essere l’ecologia, la filosofia, l’archeologia, il teatro la musica. Ora non potremo più fare la stagione, perché subito dopo la fine del festival jazz di Roccella erano previsti dei concerti e delle conferenze importanti. Gli orti quest’anno hanno rischiato di bruciare tre volte. Noi imprenditori agricoli passiamo l’estate a guardarci dagli incendi, perché è un continuo tentare di mettere fuoco a questo nostro paesaggio bellissimo. Noi passiamo l’estate così. Molte volte, nelle serate di vento, non si esce, perché si ha paura che possa essere innescato l’incendio. Purtroppo sono tutti di origine dolosa. Dobbiamo fare qualcosa tutti insieme, perché la biodiversità che si perde, alberi che bruciano, significano meno ossigeno, più caldo, un danno enorme ambientale. Non è solo un imprenditore agricolo a patirne, ma tutti noi: un albero che brucia è di tutti”. Sembra il grido di Berta Cesares, la donna honduregna uccisa la notte tra il 2 e 3 marzo del 2016 a La Esperanza. Berta si era battuta con tutta se stessa contro le multinazionali che stavano depredando il territorio della sua etnia, i Lenca e nel 2015 aveva ottenuto il massimo riconoscimento per la sua battaglia ambientalista, il premio Goldman, considerato il Nobel per l’ecologia. In quell’occasione ha pronunciato un breve discorso, in cui si coglie il grande valore del suo impegno contro gli interessi spietati delle lobby che per il profitto, per la bramosia di potere e dei guadagni, sono disposti a distruggere l’ecosistema ma anche la vita di qualsiasi persona che si oppone a questi mostruosi progetti. “Nella nostra visione del mondo noi Lenca veniamo dalla terra, dall’acqua, dal mais. Siamo da sempre custodi dei nostri fiumi e del nostro territorio. Svegliamoci, svegliamoci umanità, non c’è più tempo! Le coscienze ci rimorderanno se resteremo inerti a contemplare l’autodistruzione, la depredazione in atto, capitalista, razzista e patriarcale. La Madre Terra, militarizzata, assediata, avvelenata, vede la violazione sistematica dei diritti fondamentali delle persone che la abitano. Costruiamo società in grado di convivere secondo giustizia, dignità e rispetto per la vita. Uniamoci e continuiamo a difendere e a custodire con fiducia il sangue e l’anima della terra” Ce lo rammentano alcuni di quelli che hanno conosciuto Ilaria e che hanno vissuto l’esperienza degli orti: “Non so se mi definirei un turista. Vengo a Caulonia da anni e per periodi sempre più lunghi che ormai mi sento di appartenere un po’ anche a questi luoghi. Da un paio d’anni abbiamo scoperto la fantastica idea di Ilaria, la sua coltivazione biologica in quest’area ricca di un’incredibile biodiversità ai piedi della collina di Focà.. ma non solo.. immersa in un paesaggio certamente antropizzato ma dove alla natura è ancora permesso di esprimersi. Un progetto rispettoso del paesaggio che in effetti spesso, al tramonto, diventa protagonista di una serie di eventi culturali per noi ortisti.. ma non solo.. Insomma considero l’ennesimo incendio doloso di ieri sera un’altra seria minaccia al cambiamento in positivo di un’area così bella, così maltrattata ma che nonostante tutto esercita ancora una fortissima attrattiva per un turismo alla ricerca di bellezza, storia, natura e cultura.” (Ivan Frassi di Crema CR, uno degli ortisti). “Ancora una volta una sottocultura becera e psicotica ha avuto momentaneamente il sopravvento. Bruciano i giardini, che per chi non lo sapesse, sono molto di più di un’attenzione amorevole e sana per la terra. È un’idea di radicamento, di sviluppo, di emancipazione culturale. Teatro ordinato per diatribe (questo termine inteso alla greca) e per simposi, un’idea illuminata per continuare ad essere modernamente peripatetici, cioè per Coltivare se stessi e un modo per fare Comunità. Gli orti sono in fumo, ma già ho parlato con Ilaria Campisi. Tabula rasa si, ma per nuovi progetti. L’idea non si ferma.” (Giuseppe Hyeraci, storico dell’arte). E in questa grande costellazione, “per non regredire verso la barbarie dell’incomunicabilità e affinché la vita non si riduca al pragmatismo degli specialisti che vedono sì le cose in profondità ma che allo stesso tempo ignorano ciò che sta loro intorno, ciò che sta prima e ciò che sta dopo e per non diventare servi e schiavi delle macchine che noi stessi abbiamo inventato, modellati dall’argilla dei nostri sogni,” gli Orti in giardino di Ilaria Campisi stanno proliferando nel campo dell’arte, della cultura, dell’incontro di tante anime, “perché un mondo senza si trasformerebbe in un mondo senza desideri né ideali, né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende umano un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in altro, in altri”.

La danza butoh, grido primordiale di ribellione e di metamorfosi

Questa metamorfosi si è tradotta domenica 25, nella dimora di Ivan Frassi (a due passi dal suggestivo borgo di Caulonia), diventata un piccolo teatro, dove è andata in scena la danza Butoh (danza delle tenebre), un dono magnifico della danzatrice Maruska Ronchi, un inno all’evoluzione spirituale della vita, alla sua trasformazione verso la coscienza cosmica, che doveva essere rappresentata negli orti. II butoh, di origine giapponese (nato negli anni Cinquanta, frutto di un incontro tra danza e teatro, tra Oriente e Occidente), è una forma di teatro-danza dialogo tra l’apollineo ed il dionisiaco, che rappresenta una delle esperienze più significative nella storia dello spettacolo del ventesimo secolo. Il butoh ha ampliato il concetto di danza, ma anche di teatro, rivoluzionando la concezione estetica. Non è una tecnica ma il grido primordiale che annienta e vanifica ogni norma, la trasformazione e la metamorfosi della ribellione del corpo naturale contro le sovrastrutture dei modelli culturali dominanti che il potere impone. Rappresenta la lotta delle cose invisibili all’interno del corpo che acquisisce una valenza sacrale. L’universo così diventa il vestito del nudo corpo ed il corpo diventa il contenitore dell’anima. Visto anche sotto una dimensione di linguaggio simbolico il butoh esalta la visceralità ed il legame con la terra, evoca ombre, liberando le insondate profondità dell’inconscio collettivo. I danzatori che praticano il butoh possiedono un eversivo anticonformismo, espressione di dissenso politico. E’ una esortazione a migliorare la qualità dell’esistenza, rifiutando modelli di vita pre-confenzionati, negando l’ego, attraverso un radicale meccanismo di decostruzione e sviluppando una consapevolezza del proprio corpo tale da esser pienamente vivo in ogni attimo del presente. lo si è compreso nella performance della danzatrice che vive a Crema (Cr). In corrispondenza con lo spirito con cui sono stati concepiti gli Orti in giardino e come accade quando ci si incontra per vivere esperienze in cui l’arte diventa impegno, testimonianza, resistenza ed elevazione, scaturiscono delle magie, dei processi alchemici, come è accaduto in modo sorprendente con il suono della ghironda nelle mani di Margherita Pietropaolo (soprano e musicista che vive a Zungri, nel Vibonese), ispirando  la danza di Maruska che ha sciolto le sue movenze creando una sintonia con le sonorità di questo antico strumento, in una sorta di rapimento estatico, di accordi emozionali e vibrazionali inusitati, generati in modo intuitivo attraverso corrispondenze ancestrali e irripetibili. Ciò succede quando gli artisti entrano in risonanza con le energie cosmiche. Lo stesso miracolo è accaduto nell’incontro di Maruska con il giovane compositore e musicista Thomas Umbaca, in una esperienza situazionale originale e unica, che solo la danza-teatro butoh può creare. Un altro campo magnetico capace di generare bellezza, armonia, unione tra il corpo del suono e il suono del corpo che come una corda, si scioglie nella pura forma della danza, evocando la nascita dell’arte primitiva, nella sua fonte primigenia, e trasfigurandosi in pura poesia, in canto silente e incontaminato del corpo che si plasma con le plastiche movenze del corpo che assume la realtà. Gli Orti dovevano essere teatro di questa danza. La danza per gli orti si è rigenerata dalla cenere nella casa di Ivan Frassi. Vivendo nella lontana Crema, ha sentito già da molti anni il richiamo della Magna Grecia e ha portato l’ispirazione orientale a coniugarsi con le memorie di questa civiltà, attraverso la performance di Maruska e gli accordi segreti creati con la musica dal giovane Thomas che vive a Milano, ma le cui radici affondano nella terra dell’antica Kaulon. Numerosi i testimoni che si sono incantati nella magia di incontri e di quelle “coincidenze significative” indagati dalla psicologia del profondo di Carl Jung, definiti anche “fenomeni inesplicabili”, che identificano il principio sincronico, che a sua volta si inserisce nelle strutture inconsce archetipiche. Un campo di ricerca che occupò lo psicanalista svizzero dai primi del Novecento fino agli anni Cinquanta. Il risultato si trova nel libro “Spiegazione della natura e della psiche” pubblicato nel 1952, redatto insieme allo scienziato Wolfgang Pauli, premio Nobel per la Fisica nel 1945, all’interno del quale si trova la versione definitiva degli studi di Jung sul fenomeno delle coincidenze significative, con il titolo “La sincronicità come principio di relazioni acausali”.

La Calabria brucia nello specchio igneo della sua materia oscura

Non sappiamo se questo ennesimo incendio rientri tra i fenomeni sincronici. Di certo è che si tratta di un fatto non casuale, di un atto premeditato. Quello che accade in Calabria è inquietante perché ci racconta che una buona parte degli abitanti sono portati antropologicamente (e anche inconsciamente) ad essere risucchiati nei tanti buchi neri che presenta il piccolo universo dei calabresi. Mentre una nutrita schiera di mercenari sono dediti a compiere crimini, molti altri si rispecchiano in ciò che distrugge e si identificano in personaggi che violentano la sacralità delle creature, che godono dei sentimenti più degradati e degenerati (Jung, certamente, avrebbe avuto tanto materiale da analizzare). Non è possibile quantificare, ma si può desumere che sono numerosi coloro che si nutrono di immondizie e di veleni, che non tollerano chi è portatore di luce, di bontà, di amore, di valori sacri, di una visione ecologica, etica ed estetica della vita. C’è da riconoscere che questa speciale superfetazione non è una prerogativa esclusiva dei calabresi, in quanto l’epidemia si è estesa al corpo globale dell’umanità, perché siamo entrati nell’era dell’homo necans, sotto il dominio della tanatocrazia plutocratica, che esalta e coltiva il potere della morte, che ama secernere veleno per contaminare la materia, l’anima, lo spirito e diventare misura della persona del post umanesimo o del transumano. Quello che viene partorito da questa “nigra mater” è un impasto malefico, vile e ignobile, che lievita con la banalità del male, anche nella bieca e cieca superficialità di una parola, di un gesto, nel grumo di un rigurgito, dopo che la massa social ha ingurgitato dosi massicce di sostanze narcotiche e tossiche. Questa patologia, la cui origine ancora non è stata diagnosticata dagli specialisti, rappresenta la vera emergenza, e si è consustanziata in particolare nelle viscere di chi abita questa terra. Il volto della Calabria viene continuamente deturpato ed è fatto oggetto di scempi, di oltraggi. Nell’indifferenza di tanti, in particolar modo da parte di chi avrebbe la responsabilità istituzionale e politica, invece usa il potere per asservire, per rendere sempre più fragile il sentimento collettivo, del rispetto reciproco, della condivisione, della coscienza civile, della solidarietà, della sensibilità umana e culturale. Ma in Calabria accade un fenomeno antropologico ancora più originale, che può essere oggetto di ricerca di scienziati della materia, oltre che di antropologi, psicologi e sociologi: il male si aggrega e il bene si disgrega. Oggi più che mai il marchio di “squalità” è rappresentato dal prodotto tipico più venduto in Italia e all’estero, quello impresso dalle mani taumaturgiche della ‘ndrangheta. Questa fabbrica del crimine non ha rivali sui media, nei libri, nelle discussioni, nei dibattiti, sulle scene televisive. Il risultato, in tutti questi anni di appassionato impegno e studio, di denuncia e di testimonianza, qual è stato? Che il suo modello è entrato nell’anima di questa terra, si è esteso come un tumore nel ventre delle altre regioni e il suo grumo si insinua nelle radici delle parole, dei pensieri, dei desideri. La nuova comunità social si nutre di questi nobili retaggi, che l’inconscio collettivo prolifera in abbondanza. Tutto questo si coglie a partire dal linguaggio, come accade con l’uso sempre più insopportabile dei termini inglesi, sintomo eloquente di una forma di sudditanza, di mistificazione, di colonizzazione e di manipolazione del pensiero e della coscienza così profonda e radicale che ormai è considerata normale; e questo processo di assuefazione viene portato avanti con incredibile superficialità e complicità dai media. I criminali vengono esaltati come potenti, boss, capi, santisti con tutto un vocabolario e un gergo che costruisce una sorta di mitologia da emulare, un prodotto ben confezionato per un mercato sempre più affamato di merce putrefatta. E ciò si evince soprattutto dalle serie televisive o dai numerosi libri che hanno la pretesa di analizzare il fenomeno, ma in realtà trasformano il crimine in propaganda, in spettacolo, in consumo pseudo-culturale, perché certi poteri corrotti e conniventi, vogliono far passare il messaggio che questi artefici del “bene supremo” siano invincibili come gli dèi, perché dotati di poteri eccelsi, soprannaturali (la trattativa stato-mafia per il caso Borsellino docet, come la narrazione del mito di Provenzano, con i famigerati “pizzini”, capo della mafia). Sappiamo che nel mondo della comunicazione, della persuasione occulta, dell’ideologia dei consumi, non esiste più il confine tra il bene e il male, non esiste una visione etica – figuriamoci estetica! – ma tutto deve essere spettacolo, consumo, prodotto da vendere sul mercato, con il fine di drogare le coscienze e il corpo, per creare dipendenza e plasmare la massa ad immagine e somiglianza di chi ha il dominio, per sfornare cloni, automi, fotocopie, stereotipi e pregiudizi: per forgiare “l’uomo a una dimensione” (H. Marcuse). Altrimenti come spiegare che chi mette le mani nei poteri dello Stato, si rende complice di crimini contro l’umanità legittimati e legalizzati con tanto di timbri e controfirme, permettendo alle industrie belliche di vendere armi a Paesi che sono in guerra e a chiudere gli occhi di fronte all’inquinamento compiuto dai grandi colossi energetici e alla distruzione dell’ambiente compiuta dalle multinazionali e da piccoli e grandi benefattori dell’umanità? La ‘ndrangheta, così come la campagna di odio scatenata contro la moltitudine di disperati migranti, sono parte integrante di una propaganda costruita da un modello che fonda la sua esistenza sulla malattia, sull’aggressione, sull’oppressione, sullo sfruttamento, sulla violenza, sulla violazione dei diritti umani e sull’ingiustizia (lo aveva denunciato Robert Kennedy nel “Discorso sul Pil”, 18 marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso). La presenza di una “zona grigia e nera” dentro il corpo della società, come la ‘ndrangheta, è indispensabile per corromperlo, per farlo ammalare, per renderlo senza difese immunitarie e inquinarlo. “Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza” aveva profetizzato Primo Levi nel suo “I sommersi e i salvati” a proposito di “zona grigia”. Senza le mafie e la criminalità, non si potrebbero, strumentalmente, ipocritamente e demagogicamente, giustificare le nefandezze e le mostruosità dei poteri occulti che agiscono nelle istituzioni. Le mafie sono strategicamente funzionali a questo sistema per inquinare e opprimere i territori e le comunità. È grazie alla presenza della ‘ndrangheta e della camorra che gli industriali del Nord progredito e civile, hanno scaricato le loro porcherie sia in Calabria che in Campania. L’obiettivo sia di questo sistema economico neocapitalista che delle organizzazioni criminali, è identico: accrescere i loro profitti, non importa a quale prezzo. La sola differenza è che certe mostruosità sono alla luce del sole, altre devono essere nascoste, occulte. Per far digerire questo vile e putrido impasto, è necessaria la complicità maldestramente dissimulata da parte dei cosiddetti intellettuali, di giornalisti che appartengono al grande firmamento della stampa nazionale, e di tanti altri astuti personaggi che inseguono solo il loro narcisistico e narcotico successo. “Il male sono le cose che si fanno di nascosto” ha scritto il nostro Corrado Alvaro ne L’uomo è forte, e su Ultimo diario aveva preconizzato che la “la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile” Tutta questa bella confraternita è indifferente al destino di tanti esseri umani innocenti, non sente il richiamo della coscienza: l’alto fine è fare spettacolo, è nutrire l’immagine social, essere ipocriti e compiaciuti dal potere e avere sempre più consenso sfruttando o approfittando della stupidità e cecità che produce il nuovo delirio di onnipotenza, facendo circolare menzogne e ingannando. Il mondo è diventato un palcoscenico e la parte che recitano gli attori principali, quelli non protagonisti, e tutte le comparse, è già stata scritta e riscritta: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”. (W. Shakespeare, Macbeth). L’ignobile mistificazione può andare in scena perché gran parte di questi nuovi protagonisti della “enorme pupazzata” (Pirandello) che impazza sulla rete social, desidera nutrirsi di spazzatura, ha bisogno di essere presa in giro, di pavoneggiarsi, e reclama il padrone di turno, il salvatore della patria e l’apprendista stregone, a cui prostrarsi, a cui delegare la propria responsabilità, perché incapace di concepire la dignità, la libertà, il giudizio critico, il pensiero pensante e preferisce mandare nella spazzatura il ben dell’intelletto, come aveva profetizzato il pittore spagnolo Francisco Goya in un suo celebre quadro: “Il sonno della ragione genera mostri”. Questi comportamenti che si inscrivono nella categoria storica della “mutazione antropologica” identificata da Pier Paolo Pasolini, sono stati ben osservati da alcuni scrittori approdati in questa estrema propaggine della Penisola, come Giuseppe Berto, che dagli anni Cinquanta fino alla sua morte nel 1978, aveva diagnosticato il “male oscuro” di questa terra, da quando scopre la straordinaria bellezza di Capo Vaticano, e dove trova il suo genius loci, proprio a partire dalla seconda metà del Novecento. Lo denuncia e lo testimonia in tante corrispondenze, come nell’articolo scritto nel 1974 con il titolo Rimpianto di una civiltà sulla rivista “Bellezza”: “Il guaio più grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite”. E due anni prima, nel 1972, nel suo più appassionato elogio della civiltà contadina della Calabria, La ricchezza della povertà, (“Resto del Carlino”) racconta: “Ora la civiltà contadina era sì miseria, denutrizione, malattie, analfabetismo, esuberanza sia di nascite che di morti (premature), ma era anche grandissima onestà e nobiltà dell’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile, in una terra che di materie prime scarseggia. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali”. Nei primi anni Sessanta anche Pier Paolo Pasolini aveva letto nei calabresi, con compassione, questo complesso di inferiorità che si tramutava in sfruttamento, in degrado umano e culturale: “La Calabria è stata sempre periferica, e quindi oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o, per dir meglio, con linguaggio tecnico, complessata. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa sulle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria. Nel popolo questi complessi psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà – una bontà quasi angelica – e una furia disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica. (P.P.Pasolini, Le belle bandiere, dialoghi 1960 – 1965). Una analisi antropologica che possiamo ancora retrodatare attraverso lo straordinario osservatorio di “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, ma già testimoniata con altro sguardo dallo scrittore meridionalista, nonché archeologo e filantropo, Umberto Zanotti Bianco, nel suo “Tra la perduta gente”.