I nuovi “Sommersi e salvati”: ritorna la tragica riflessione di Primo Levi ad un secolo dalla sua nascita, con il genocidio dei migranti africani che continuano a morire nel Mediterraneo

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue estreme conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.” (Primo Levi, Se questo è un uomo) “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.  (Don Lorenzo Milani, Lettera ai Cappellani Militari Toscani, 1965) Vietato essere umani. Con il decreto sicurezza bis chi osa soccorrere o salvare i migranti commette un grave reato. Sembra di sentire le parole di Virgilio all’ingresso dell’inferno: “Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / ch’hanno perduto il ben de l’intelletto…”,  seguite da quelle di Caronte, il nocchiere infernale: “Guai a voi, anime prave! / non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo.” Non si può salvare la vita di un disperato africano, anche se sta per annegare o è in pericolo: devono essere sommersi per salvare la barbarie.  Siamo di fronte ad un vero capolavoro di disumanizzazione, quello che si sono prefissi di fare con inconfessabile impegno l’attuale governo da quando hanno messo le mani nella pasta del potere. A dare man forte, contro le diserzioni, l’esercito di adepti, complici e ipocriti assertori e difensori dei valori inalienabili, inviolabili e sacri sanciti nella Carta costituzionale, nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu e nel messaggio evangelico, con l’esibizione sacrilega del vangelo e del rosario. Il progetto è quello di costruire una società fatta di automi e di intelligenze artificiali (robot e marionette) a cui è stato programmato resettare l’umana pietas e l’accoglienza, l’ospitalità, principi che hanno fondato la civiltà e fatto uscire dalla ferinità e dall’oscurità gli uomini. E nel giorno in cui il Mediterraneo ha inghiottito oltre 150 migranti (25 luglio) lungo le coste libiche, dove si è consumata una delle più gravi stragi di migranti degli ultimi tempi, ironia della sorte,  Lega e M5S approvano alla Camera il decreto sicurezza bis. Immaginiamo la gioia del Ministro dell’Interno e dell’Eterno, Matteo Salvini, per aver portato al trionfo il suo principale cavallo di battaglia. E i media, i giornali, tranne qualche eccezione – come l’Avvenire e il Manifesto – hanno considerato la vita di questi esseri umani alla stregua di un carico di merce che si disperde in mare, scegliendo di non dare alcun rilievo a questo genocidio. Ritorna l’immagine de “I sommersi e i salvati” di Primo Levi. L’autore nasceva esattamente un secolo fa, il 31 luglio del 1919. Nello stesso anno l’astronomo Arthur Eddington, grazie ad una eclisse totale della luna, dimostrava che le previsione contenute nella teoria sulla relatività generale di Einstein erano corrette. Qualche decennio più tardi, il fisico premio Nobel, avrebbe coniato un motto, che possiamo considerare antesignano degli attuali logaritmi che decidono la vita dell’homo artifex: “Soltanto due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Ma riguardo all’universo ho ancora dei dubbi”. Nel 1919 nella nostra martoriata nazione iniziava il cosiddetto Biennio rosso e Mussolini dava vita ai Fasci di combattimento a Milano. L’Europa usciva dalla immane strage della Grande Guerra e i potentati economici e la casa regnante dei Savoia con i poteri istituzionali avidi, spietati e disumani che avevano trascinato al massacro milioni di esseri umani, preparavano il terreno per seminare altre stragi e immani sacrifici per i ceti sociali più deboli, dai contadini agli operai, il cosiddetto popolo, a cui si sono richiamati i populisti di allora (Mussolini, Hitler) e a cui si richiamano con tono enfatico i populisti e i sovranisti dell’era social sparsi in Italia, rappresentati in modo luminoso dall’attuale governo e da tutto il suo esercito felice di far parte di queste schiere celestiali che spandono il bello, il buono e il bene urbi et orbi. In mezzo c’è l’orrore della seconda guerra mondiale, i lager, il male assoluto, lo stalinismo, la guerra fredda, il terrorismo, la strategia della tensione, le stragi (il 2 di agosto ricorre l’anniversario dell’eccidio della strage della stazione di Bologna compiuta nel 1980 da esponenti del terrorismo nero che ha provocato 85 morti e 200 feriti),  la mutazione antropologica, la conquista della luna esattamente mezzo secolo addietro, 20/21 luglio 1969. E poi la nuova colonizzazione attraverso l’ideologia dei consumi e del Pil, la manipolazione delle coscienze grazie alla televisione. E adesso ritorna l’annientamento dell’intelligenza, in quanto l’enorme massa dei consumatori dei social media hanno rinunciato al logos e trovano inutile l’esercizio intellettivo e critico del pensiero, del dialogo attraverso il concepimento delle idee. Anche il significato delle parole, con il loro carico umano che ha viaggiato nel tempo e nello spazio, viene fatto annegare in un mare di disumanità, e i sentimenti di solidarietà, di compassione, di condivisione, di fratellanza, vengono fatti naufragare in modo inesorabile. Un quadro perfetto per l’emersione della barbarie con la pratica della viltà social, e i novelli navigator ora possono scorgere la luce  come Dante nel primo canto del Purgatorio: “Per correr miglior acque alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno, /che lascia dietro a sé mar sì crudele…” , e raccogliere  le immondizie depositate in tutti questi anni di inquinamento del corpo, della mente e dello spirito, con la propaganda totalitaria dell’inno individualista alla libertà di scegliere come essere schiavi dei peggiori istinti. Tutto è stato preparato con cura durante quella che è stata considerata “l’età dei totalitarismi” codificato da Hannah Arendt, in un suo fondamentale testo, “L’origine del totalitarismo” (1948). Lo ha lucidamente analizzato Primo Levi, nella sua ultima opera, “I sommersi e i salvati” (pubblicata nel 1986) per analizzare i meccanismi nefasti e mostruosi che hanno portato alla Shoah, dopo aver raccontato la sua personale tragedia nei lager in “Se questo è un uomo”. Corsi e ricorsi storici, nulla di nuovo sotto il sole: “Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito: la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che “scende all’inferno con trombe e tamburi”, e i suoi orpelli miserabili sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive Isabella in Misura per misura, l’Uomo che, “… ammantato d’autorità precaria,/ di ciò ignaro di cui si crede certo,/ – della sua essenza, ch’è di vetro – , quale/ un a scimmia arrabbiata, gioca tali / insulse buffonate sotto il cielo/ da far piangere gli angeli.” Come Runkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno”. Possiamo oggi ripetere, alla luce soprattutto dei sommersi nel Mediterraneo, se questi che inoculano l’odio, la paura e la disumanità con la nuova propaganda razzista, sono uomini: se sono uomini quelli che prestano il loro ingegno a diffondere la banalità del male con il loro consenso, esaltati dalle demenzialità dell’autoreferenzialità; se sono “uomini o caporali” quei signori che esaltano il mito della legalità e dell’obbedienza, per citare il grande Totò nell’omonimo film. Possiamo senz’altro affermare che siamo passati dall’età dei totalitarismi al totalitarismo degli infestanti fumi social, delle parole in libertà, immaginate dal padre del Futurismo Filippo Maria Marinetti, che aveva in odio la tradizione, le donne, la punteggiatura e considerava la guerra l’igiene del mondo. E’ stato un ottimo maestro per questi nuovi simulacri che sotto mentite spoglie hanno sembianze umane e che si manifestano con tutto il loro splendore nell’epifania social, ritrovandosi in mano un micidiale ordigno i cui effetti non sono più controllabili: “Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute…” profetizzava Italo Svevo ne “La coscienza di Zeno”. Ne abbiamo avuto testimonianza eccelsa in questi ultimi decenni, con le tante menzogne che si sono annidate nelle vene di questo corpo sociale anestetizzato e che continuano a magnetizzare lo sguardo e la mente, oltre che i sentimenti. Così gli innamorati dell’idolo social si illudono di essere protagonisti delle “magnifiche sorti e progressive”, a tal punto che il proprio narcisismo è diventato un potente narcotico che infetta quello che il nostro Sommo Dante aveva definito come “il ben dell’intelletto”. Questi nuovi fumi social sono più potenti di tutti i narcotici che siano mai stati concepiti dall’Homo Sapiens, perché hanno raggiunto traguardi che nessuna arma abbia mai oltrepassato: “Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure che vogliono?” spiega lo storico Harary nella sua conclusione di “Sapiens. Da animali a dèi”. Marinetti aveva intitolato Zang TumbTumb un suo mitico libro (1914) come esempio di libertà estrema e di distruzione di ogni sintassi, tranne poi prostrarsi agli ordini del verbo fascista. E’ stato profetico! se pensiamo che la vita sociale, culturale e politica si riduca ai post, ai like, alle farneticazioni dei nostri Sapiens digital che offre la piazza virtuale per darci una eloquentissima dimostrazione di come il Futurismo di Marinetti si sia conficcato nei gangli neuronali e istituzionali di questo Paese. Salvini e Di Maio Nella cronistoria di questi tempi dei post accadono delle coincidenza che potrebbero indurci al sorriso. Ma dietro c’è il dramma che vive questo mondo ormai terribilmente rinchiuso nei labirinti, ed è destinato a marcire nel brodo del prodotto interno lordo. Lo avevano intuito gli scrittori tragici greci che dietro ogni parodia si nasconda una tragedia e viceversa. Dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ai due dioscuri, i vicepremier Salvini e Di Maio, come amano pavoneggiarsi sull’altare della nuova Chiesa digital, in cui si è compiuto la riunificazione degli imperi universali, potere temporale e spirituale. Ormai mostrarsi su facebook per annunciare a tutti i loro fedeli il verbo immacolato, assoluto, della loro liturgica parola ed epifanica immagine, è diventato un culto, tranne che smentire e rinnegare se stessi nella immediata apparizione postuma. m tutto si consuma in un batter di ciglia e la polvere offusca la vista e la memoria. Questo è il preferito passatempo di questi nuovi dèi desiderosi di esibire la loro post verità. E inventano divertenti sceneggiate per dilettare gli spettatori compiaciuti e felici di essere parte del festival delle marionette e dei pupi. Si amano e si odiano. Poi si odiano e poi si amano. L’un contro l’altro armati ma pronti a far proliferare le armi contro esseri innocenti inermi. Dal decreto sicurezza bis al Tav, al caso dei fondi russi alla Lega con una grande abbuffata di parole ad alta velocità per stordire la piazza penta e panta rei con lo zuccherino, come il fantino fa con il proprio cavallo di razza, per sbandierare l’integerrima integrità morale, civile e servile, e convertire gli infedeli alleati al salvifico credo siderale. Se poi qualcuno si permette di obiettare che a tradire i valori originari sia la nuova linea sposata dal capo politico, Luigi Di Maio, viene accusata di eresia e bruciata nei nuovi roghi digitali (vedi il caso della senatrice Paola Nugnes  e del capitano Gregorio De Falco). Il non plus ultra è stato raggiunto attraverso il grande sfoggio di sapienza del premier Conte che ha sfoderato il suo charme di fronte al parlamento con il popolo M5S che, per tanto fulgore, è stato costretto ad abbandonare l’aula magna perché il candidato Salvini non si è presentato all’esame sulla storia contemporanea della Russia e del suo nuovo zar Putin, per manifesta amnesia, sul misterioso fantasma apparso nella corte, al secolo Gianluca Savoini. Accade poi – niente accade per caso, perché dietro c’è un disegno provvidenziale – che, quando si sparge la notizia che il carabiniere Mario Cerciello Rega (la sera tra il 24 e 25 luglio) viene ucciso con 11 coltellate, ecco che si scatenano immediate le parole in libertà con dichiarazioni di fuoco verso “i bastardi immigrati che devono marcire in galera”. Senonché  si scopre che si trattava dei figli prediletti della Grande Mela della razza bianca, che adora la violenza e le armi (nel 2017 sono state registrate quasi 40 mila vittime; oltre 270 milioni di armi da fuoco tra i civili, più di una per ogni adulto americano. L’Italia è al primo posto per mortalità da arma da fuoco in Europa, nonostante il record di possesso vada invece alla Germania). I due conquistadores californiani si sono dilettati a viaggiare con un lungo coltello, per riecheggiare “la notte dei lunghi coltelli”, che ebbe luogo in Germania per ordine di Adolf Hitler nella notte fra il 30 giugno e il 1º luglio del 1934. Ed eccolo esibito come un trofeo il cowboy del Far West venuto dalla California in Italia per diffondere il credo dei rivoluzionari americani, dei suprematisti bianchi, il cosiddetto “Eccezionalismo americano” (American Exceptionalism) per la prima volta enunciato da Alexis de Tocqueville nel suo “La democrazia in America” (1831): “La posizione degli Americani è perciò davvero eccezionale e si può ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile. La loro origine strettamente puritana, i loro costumi esclusivamente commerciali, persino il Paese che abitano, che sembra sviare le loro menti dalla ricerca della scienza, della letteratura e dell’arte, la prossimità con l’Europa, che permette loro di trascurare queste ricerche senza scadere nella barbarie, un migliaio di motivazioni speciali, di cui sono stato capace di rilevare soltanto le più importanti, hanno concorso singolarmente a fissare la mente degli Americani su obiettivi puramente pratici. Le loro passioni, i loro desideri, la loro educazione, ogni cosa sembra concorrere al proposito di attirare i nativi degli Stati Uniti verso le cose terrene; persino la loro religione, che permette ad essi, di tanto in tanto, un’occhiata fugace e distratta al paradiso. Lasciateci smettere, allora, di vedere tutte le nazioni democratiche alla luce dell’esempio del popolo americano”. Siamo letteralmente ammirati da questa bella e grande democrazia che vende armi come giocattoli, che uccide i propri figli, che genera violenza, che alimenta terroristi e dittatori, che elimina chi non si piega al loro dominio (vedi la storia di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, morto nello stesso anno della morte di Primo Levi, 1987, che in base alle ricostruzioni, è stato eliminato dai servizi segreti degli Stati Uniti e della Francia, senza citare la fine del presidente del Cile Salvator Allende nel 1973 grazie al golpe preparato dalla Cia e offrire su un piatto d’oro il potere al dittatore Pinochet); disseminare ingiustizie, discriminazioni e calpestare i più poveri, i derelitti, come fossero rifiuti umani. E il nuovo cowboy Trump assiso alla Casa Bianca, scava con passione questo profondo solco di umanità e di democrazia, che è nella tradizione dell’eccezionalismo americano. Ma a Roma, i piccoli cowboy californiani non andavano in cerca di mandrie e di taglie tra i vicoli di Trastevere, ma di droga: “Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza”. Primo Levi, coniando la “zona grigia” ne “I sommersi e i salvati”, ha  letto in profondità le dinamiche del potere totalitario. Ha messo a fuoco l’ambiguità “che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull’ossequio”;  un meccanismo simile vigeva nel Gulag ed è stato descritto, fra gli altri, da Varlam Salamov e Aleksandr Solženicyn. La “zona grigia” è una realtà “dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”; a popolarla, è “la classe ibrida dei prigionieri-funzionari” che “costituisce l’ossatura del Lager”, e insieme l’aspetto “più inquietante”. E quando Levi si ritrova ad analizzare  la società di quegli anni ’80, comprende che cosa si stava preparando tra le pieghe e tra le piaghe del linguaggio dei comportamenti sociali, e legge la corruzione e la mutazione antropologica innescati dalla sirena dei consumi che seduceva l’anima e il corpo del nostro Bel Paese, dopo la sofferta denuncia che Pasolini aveva fatto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, con gli “Scritti corsari” e le “Lettere luterane”. Questa la disperata fotografia: “L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. Per i giovani degli anni ’50 e ’60, erano cose dei loro padri: se ne parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza delle cose viste. Per i giovani di questi anni ’80 sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, «storiche». […]Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale e inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto”. il gatto e la volpe Eccoli sulla nuova scena mediatico-propagandistica, ormai dai primi anni Novanta, questi nuovi istrioni, tutti i giorni, in ogni momento. Sono entrati nella vita e nel sangue prima dell’Homo videns e poi del popolo del web che si è affidato alle mani di Mangiafuoco, il personaggio che troviamo ne “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi (pubblicato a cavallo tra il 1881-82). Mangiafuoco è il burattinaio del “Gran Teatro dei Burattini” che consegna a Pinocchio cinque zecchini d’oro da portare a Geppetto. Come l’ingenuo Pinocchio si è lasciato ingannare dal gatto e dalla volpe, che lo convincono a sotterrare i zecchini d’oro nel “campo dei miracoli”, ora i zecchini sono sotterrati nel campo dei miracoli social, e soprattutto i tanti pinocchietti che viaggiano nella piattaforma Rousseau tuttora credono, nonostante i tanti sottili e abnormi inganni, nei miracoli della Casaleggio & associati. Come il gatto che a furia di spacciarsi per cieco alla fine lo diventa, i tanti gattini grillini non si accorgono della trave che hanno conficcato nei propri occhi, e continuano a guardare la pagliuzza in quelli altrui. E questo teatro dei burattini che è diventato il mondo della psico-politica italiana, è sempre più ricolmo di spettatori, ma sono tutti intenti ad ammirare se stessi, a recitare una parte scritta altrove, nelle oscure e occulte stanze dei poteri invisibili, mentre vivono l’illusione ottica di essere attori protagonisti. Caro Shakespeare, che vuoi farci, “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”. (W. Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V). Di fronte alla banalità del male, è necessario, è urgente opporre la profondità e la responsabilità delle parole, la Parrhasia, il primato della coscienza,  enunciate da don Lorenzo Milani ne “Lettera ai giudici” (1965) perché “l’obbedienza non è più una virtù … e quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza”. La responsabilità delle parole viene richiamata in una lettera del 1963 scritta dallo stesso don Milani a Mario Lodi: “L’arte dello scrivere consiste nel riuscire ad esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci migliori di noi stessi” (Don Lorenzo Milani, “Lettera a Mario Lodi”). Il linguaggio nella sua molteplice comunicazione deve essere impegno umano, etico e spirituale. Lo testimonia, in modo luminoso, lo psichiatra Eugenio Borgna in un libro scritto nel 2016, “Responsabilità e speranza” che ci richiama ad una risposta carica di umana compassione e partecipazione, a partire dalle parole che diciamo o che omettiamo di dire: “Noi siamo chiamati a rispondere delle parole, dei silenzi, dei gesti, degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, delle forme infinite con cui parla o tace, il nostro corpo, ma siamo anche chiamati a rispondere di parole, di gesti semplici e banali, mancati: una stretta di mano, una lacrima, un sorriso che avrebbero potuto dire la nostra capacità di partecipare alla sofferenza, o alla gioia, all’angoscia o alla disperazione, di una persona.  Questa consapevolezza guida la ricerca di un filosofo di origine cinese che riflette sulla bellezza dell’uomo e del creato, Francois Cheng, attraverso le sue “Cinque meditazioni sulla bellezza” (2006): affinché “la vita di questo universo possa proseguire, bisogna che esita un minimo di bontà, altrimenti correremo il rischio di ucciderci tutti, gli uni gli altri, e ogni cosa sarebbe vana…”. Ed Elie Wiesel, ci ricorda che “L’uomo è definito dalla sua memoria individuale, legata alla memoria collettiva. Memoria e identità si alimentano reciprocamente… Per questo dimenticare i morti significa ucciderli una seconda volta, negare la vita che hanno vissuto, la speranza che li sosteneva, la fede che li animava”. Nei luoghi deputati alla “laica sacralità” che dovrebbero essere esempio di alti principi umani, civili e democratici, al contrario troneggia la negazione dell’uomo, della sua bellezza e della sua bontà, in nome di cosa? L’intramontabile e incommensurabile Lev Tolstoj, lo aveva prefigurato: “Ragionate, fratelli, fermatevi un attimo a pensare a come state vivendo, e rendetevi conto che potreste vivere nel benessere materiale e spirituale. Ragionate e rendetevi conto che i vostri nemici non sono boeri, né inglesi, né i francesi, né i tedeschi, né i ciechi, né i finlandesi, né i russi, rendetevi conto che i vostri nemici siete voi stessi con la vostra mania dei doveri verso lo stato, voi stessi che mantenete in piedi l’organismo che vi opprime e vi rende infelici. Esso si era incaricato di proteggervi dai pericoli, ma ha talmente esteso i compiti di questa sedicente difesa da farvi diventa tare tutti sodati e schiavi, da farvi cadere nella miseria più nera, da far si che ormai vi aspettiate da un momento all’altro che la corda si strappi e che la morte vi travolga. I governi continueranno ad armarvi e a rovinarvi con lo stesso fervore, continueranno a demoralizzare voi e i vostri figli, e nessuno vi aiuterà mai a cambiare questa situazione se non vi date coi una mossa per primi. Tutto i daffarsi consiste in definitiva in una cosa sola: spazzar via l’inumano sistema gerarchico” (Lev Tolstoj, maggio 1900). La storia non è più maestra di vita, ma è la vita che diventa maestra della storia. L’esperienza di Tolstoj, di don Lorenzo Milani e di tanti altre vite e anime illuminate, come quella di Primo Levi, che ha vissuto l’estrema tensione delle corde esistenziali, come superstite dei lager, deve essere esemplare di quella verità “che resiste alla prova dell’esperienza” (Albert Einstein). Tuttora la mostruosità dell’uomo non arretra: quanti esseri innocenti sono massacrati, sradicati, sacrificati, martirizzati, violentati, calpestati nella dignità; il creato e la sacra bellezza delle sue creature, fonte fondamentale per la vita degli esseri umani e delle future generazioni, nonostante gli allarmi del mondo scientifico e delle lotte appassionate degli ecologisti (come la giovane Greta Tumberg), sfruttati e violentati con cinica indifferenza. Al di sopra di tutto e di tutti,  gli interessi mostruosi di pochi plutocrati che adorano il dio denaro, come dimostra la vendita delle armi prodotte in Italia, che questo governo del cambiamento continua ad avallare nell’indifferenza e in modo  spietato: “In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà” spiega ancora Levi nella prefazione de “I sommersi e i salvati”. In un mare di indifferenza che ci sommerge cerchiamo almeno un’ancora che possa salvarci dalla rassegnazione alla disumanità che si moltiplica come l’Idra di Lerna, mitico mostro velenosissimo in grado di poter uccidere un uomo con il solo respiro o con il suo sangue o nel solo contatto con le sue orme,  dotato di una grande intelligenza e di un istinto diabolico: “La speranza è il più impalpabile, ma anche il più essenziale dei beni comuni. Nessuno di noi può vivere senza sperare: sperare in un domani migliore, sperare che le persone che amiamo stiano bene, sperare che un sogno a cui teniamo si realizzi. Piccole e grandi speranze che formano il tessuto della vita, che la rendano possibile. Lottare per la speranza vuol dire vincere la paura. La speranza emerge quando le paure si allontanano a cominciare dalla paura più grande: quella della solitudine e dell’abbandono, la paura che il nostro grido d’aiuto non venga ascoltato e raccolto. Ecco da che cosa deriva la tenacia e il coraggio di chi, privato della speranza, attraversa terre, mari, deserti, esposto ai più gravi pericoli, ostaggio di mafie e bande criminali. Chi lotta per la speranza lotta per la vita, in questo senso i migranti ci ricordano la centralità della speranza. La speranza dà gioia; il razzismo – lo tocchi con mano ogni giorno – condanna al risentimento e alla tristezza” (Don Luigi Ciotti, Lettera a un razzista del terzo millennio, 2019) La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo, nulla che borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché e fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta. ( Eugenio Montale, La storia,“Satura”) “La storia siamo noi” cantava Francesco De Gregori: “La storia siamo noi / nessuno si senta offeso /siamo noi questo prato/ di aghi sotto il cielo /La storia siamo noi, attenzione/ nessuno si senta escluso…”