Nemo propheta in patria: Mimmo Lucano tradito dal bacio delle urne

Nel piccolo borgo di Riace, che ha fatto della Xenia la sua utopia, si afferma la Lega di Salvini. Ma il sogno continua il suo racconto: riappare  l’eclisse totale del sole di un secolo fa, quando la luna sorrise ad Einstein e si manifestano la suprema armonia di Pitagora, il mito della meraviglia di Aristotele,  il carpe diem di Orazio, i versi del poeta persiano Saʿdi di Shirāz ,  grazie all’equazione del tempo intuita dal fisico Ludwig Boltzmann che riformula il panta rei di Eraclito con la visione sfocata del mondo.    

Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo,

sono della stessa essenza.

Quando il tempo affligge con il dolore

una parte del corpo

le altre soffrono.

Se tu non senti la pena degli altri

non meriti di essere chiamato uomo.

(Saʿdi di Shirāz,  poeta persiano, 1184 – 1291)

Nomina sunt consequentia rerum, (i nomi sono conseguenza delle cose, espressione derivata da un passo di Giustiniano che deve la fortuna ad una citazione di Dante nella Vita Nuova.

Odi profanum  vulgus (et arceo), Odio il volgo profano e lo tengo a distanza. (Orazio). Il verso, l’inizio di un’ode per il quale il poeta esprime il suo disgusto per il popolo insensibile all’universo della poesia e del bello,  è considerato come proverbiale fin dall’antichità. Lucano Nemo propheta in patria. Così Gesù commentava la fredda accoglienza nella sua Nazareth. L’espressione evangelica getta un tagliente raggio di luce sulla vittoria della Lega nel paese simbolo dell’accoglienza, Riace, che ha rinnegato “l’utopia della normalità” perseguita dal suo ex sindaco, Mimmo Lucano. L’esempio allegorico “nessuno è profeta in patria” coglie anche la comparazione che eminenti commentatori hanno voluto creare tra la vittoria della propaganda xenofoba di Salvini (con la complicità delle disastrose cinque convergenze parallele astrali) e la presunta sconfitta di papa Francesco, con il suo accorato, mai domo e disperato appello alla xenia (ospitalità) cristiana verso il prossimo, gli ultimi, “i rifiuti umani” sulla via crucis del Mediterraneo. Nel creare questa corrispondenza politica, gli oculati osservatori, dimenticano – perché ormai la memoria è obnubilata e la storia obliata – che nel “sacro” testamento dei vangeli, Gesù è stato messo in croce, mentre il “popolo sovrano” ha scelto Barabba. Ed infine – come dimenticarlo! –  Giuda ha tradito il Maestro con un bacio, come qualcuno, che si è eretto a nuovo salvatore della Patria, ha fatto urbi et orbi. Parabola dovrebbe insegnare. Ad una settimana dallo spoglio, e all’indomani della Festa della Repubblica (animata dalle parole del presidente della Camera Roberto Fico, che dedica il 2 giugno anche “ai migranti, ai rom, ai sinti, che sono qui e hanno gli stessi diritti”), tra i tanti commenti che sono stati fatti sul caso Riace che, a quanto pare,  dà molto panen et circenses a tante interpretazioni ed esegetiche analisi “antroposofiche”, quello di Mattia Feltri sulla Stampa (29 maggio) colpisce nel segno. Il suo “Buongiorno” merita attenzione soprattutto per il ricorso alle categorie antropologiche del mithos e del logos, del rosario e del presepe, del demonio e del cherubino. Il suo “ponderato” commento trae spunto dalla verità partorita dai riacesi dalle urne: “L’oggi mi sollecita una ponderata analisi: siamo tutti delle teste di papero (sic!). Succede che a Riace il sindaco Mimmo Lucano (ormai ex) non è riuscito ad entrare in consiglio comunale poiché la sua lista è arrivata terza. Lui ha preso centoquaranta preferenze, il dieci per cento dei votanti, il sette degli aventi diritto. Il nuovo sindaco guida una lista civica colma di leghisti, e la Lega è il partito più votato in paese alle Europee. Eppure Mimmo Lucano è l’ideatore e l’artefice del modello Riace, elogiatissimo modello d’accoglienza degli immigrati in decine di reportage giornalistici e servizi televisive e filippiche politiche, per cui Riace era una piccola Svizzera, linde botteghe artigiane, gerani ai davanzali, armonia multietnica, ecumenismo, sottofondo di arpe. E il modello sarà senz’altro un buon modello, per l’amor del cielo, ma mai una volta che in queste filippiche politiche e in questi servizi giornalistici si registrasse uno di Riace con il dito alzato a dire eh no, a me pare una gran boiata. Bizzarro vero? Questo modello ci piace tanto, piace a chiunque, in tutta Italia e in tutta Europa, tranne che ai riacesi. E non ce n’eravamo accorti. E sarà forse perché il demonio sovranista s’è voluto contrapporre il cherubino riacese, e alla fiaba salviniana del ritorno al piccolo mondo antico, facce bianche sotto il campanile, s’è voluta contrapporre la fiaba edificante dell’abbraccio dei popoli, ci bastano il sorriso e mani spalancate, e insomma al mito del rosario padano si è voluto contrapporre il mito del presepe calabrese. Il problema è che dietro il mito c’è la realtà, con le sue maledette complicazioni” . Al cospetto della matura analisi nelle nostre “teste di papero” sorge spontaneo un interrogativo:  “E se dalle urne Mimmo Lucano avesse avuto oltre il 50 per cento dei voti, la realtà sarebbe cambiata?”. La realtà, secondo questa logica, per usare il linguaggio della matematica, non è una variabile indipendente, ma una funzione legata all’esito delle urne. Ma c’è di più: Mattia Feltri dimentica che Lucano è stato eletto dai riacesi per tre legislature. Per questo merita particolare acume esegetico la coda morale: “Il problema è che dietro il mito c’è la realtà, con le sue maledette complicazioni”. Questa affermazione ci rivela che il mondo degli uomini non vive di favole e di miti (riecheggia, suo malgrado, la ricostruzione della storia dell’umanità compiuta da Giambattista Vico ne la “Scienza Nuova”, attraverso le tre età: degli dèi, degli eroi e degli uomini). Secondo Feltri infatti, la realtà è ben diversa dalla narrazione mitica. Ammesso che su Riace si sia costruito un mito (non sappiamo se il giornalista di punta de “La Stampa” si sia mai recato a Riace a vivere la sua realtà) però, questo ricorso alla “verità della realtà”, ci costringe ad intelligere, ad interrogare il significato, cogliere il dentro, la relazione delle cose. Per questo ci chiediamo se, nella ricostruzione semantica dei significati, ancora viga la netta distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa, perché, come ci ha insegnato Giustiniano, ripreso da Dante nel suo prosimetro dedicato alla sua Beatrice (“Vita Nuova”), Nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza delle cose. E si ricorda che sulla “natura delle cose” uno dei poeti-filosofi più significativi della classicità latina, Lucrezio, ha scritto il De rerum natura, un magistrale poema ispirato dalla filosofia epicurea, considerato tra l’altro un trattato filosofico-scientifico. Lucano Chi fa largo uso e abuso della parola “realtà” dovrebbe prima di tutto spiegare a quale “verità” (nel suo etimo elatheia , “scoprire ciò che è nascosto”) faccia riferimento: a quella delle urne, a quella delle emozioni, a quella della materia, a quella dello spirito, a quella della scienza, a quella della filosofia, a quella della teologia, a quella della teoria della relatività di Einstein o della fisica quantistica, oppure a quella dei riacesi o di quei italiani che hanno deciso di votare Lega perché sulla scheda elettorale c’era la dicitura “Salvini premier”. E  ammaliati dal gran Capitan che gli ha raccontato il mito della razza bianca, facendo affiorare gli istinti barbarici inveterati nelle viscere profonde di questo Paese, dalle urne è venuto fuori il rigurgito dopo che nel frattempo si è dato in pasto un abbondante cibo avvelenato, alle bocche affamate del popolo e diffamate dalla parabolica liturgia. Ma è anche possibile immaginare che tanti calabresi – non solo quelli di Riace – hanno introiettato l’altro mito, che sono brutti sporchi e cattivi.  E si sono a tal punto convinti di esserlo che se qualcuno si permette di obiettare che non è vero, come i prigionieri del mito della Caverna raccontato da Platone, viene considerano un pazzo. E quindi si compiacciono di essere brutti, sporchi e cattivi, perché qualcuno gli racconta che ci sono altri, simili a loro, che sono ancora più brutti, più cattivi e più sporchi. Questo meccanismo antropologico lo aveva spiegato Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, quando riflette sul “senso comune”, cioè  la “filosofia dei non filosofi”. Secondo il pensatore sardo (messo in carcere dal regime fascista a cui si ispirano i movimenti sovranisti), nel senso comune si riflette il dominio intellettuale della classe dominante attraverso i vari poteri (sovrastrutture). La classe egemone fonda la sua concezione del mondo come “filosofia del popolo” (che oggi potremmo declinare come “populismo”), affinché gli schiavi si credono liberi perché il padrone è dentro di loro, è diventato la loro coscienza morale e politica.  In una visione ancora più approfondita, si è di fronte ad un problema di carattere ontologico ed ermeneutico, che interroga l’esser-ci, il dasein, l’essere nel tempo e nel mondo dell’uomo, codificato dal filosofo Martin Heidegger in “Essere e tempo”. Ma per ritornare alla dialettica antropologica “mito-realtà” che ha conteso l’esperienza evolutiva dei Sapiens, le parole dello storico Y. N. Harari nel suo “Sapiens. Da animali a dei” (2016), ci indicano una via maestra: “Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la Rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: ‘Attento! Un leone!’ Grazie alla Rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: ‘Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù’. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens”. Tradotto significa che sia il sottoscritto che Mattia Feltri non fanno altro che raccontare miti. Il punto, come afferma più avanti Harary, “è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente.” Così ci siamo sostituiti agli dèi, ci ammonisce sempre lo storico, nella coda morale alla sua favola che si compone di oltre 500 pagine: “Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo causando la distruzione dei nostri compagni animali e dell’ecosistema circostante, ricercando null’altro che il nostro benessere e il nostro divertimento, e per giunta senza essere mai soddisfatti. Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?” Anche le parole di Harari sono naturalmente un mito, secondo la logica con cui ha costruito il suo di mito Mattia Feltri, quello del “Rosario e del presepe”. Al cospetto di questa narrazione, il linguaggio razionale del metodo scientifico (compreso il principio di indeterminazione di Heisemberg, che riformula le ricerche nel campo della meccanica quantistica o teoria dei quanti), ha perlustrato le tenebre del mistero e indagato le leggi della natura: per cui, se prima lo sguardo dei Sapiens era rivolto verso la volta celeste per trarre auspici e i desideri (nel linguaggio degli àuguri desiderio significava mancanza di sidera, cioè delle costellazioni necessarie per trarre gli auspici), con l’avvento della scienza, grazie a Galilei, gli animali-dei hanno rivolto la loro osservazione non solo verso il firmamento, ma anche verso la materia oscura, microscopica, le molecole e gli atomi (come la concezione filosofica degli epicurei). A loro volta gli atomi sono stati suddivisi in altre particelle e si scopre che esiste il vuoto che occulta il primo mattone di cui siamo composti e scomposti e che si agita vorticosamente in noi, ma che ancora siamo ben lungi dall’identificarlo. Ebbene, sono proprio le leggi della fisica che ci svelano quelle della natura antropologica e sociale, schiudendo le porte della materia oscura che abita le nostre dimore, o meglio i buchi neri in cui ogni luce è stata risucchiata. Uno di essi, come si ricorderà, è stato fotografato per la prima volta dall’immagine dell’Event Horizon Telescope del 10 aprile scorso. Ha dimostrato come la teoria delle onde gravitazionali intuito da Einstein, aveva un suo fondamento. Per questo, il padre della relatività ha immaginato che “La mente intuitiva è un dono sacro e  la mente razionale è un fedele servo”; mentre noi “abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”. E il mondo si dispiega innanzi allo sguardo come “una meraviglia mai sopita per l’immensità, l’unità, l’armonia razionale e la bellezza… dove la natura pare essere causalmente discontinua e irrazionale” come ci ricorda Erede Foleclavo ne “Il romanzo perduto e … ritrovato” (2018). Ora tentiamo di fotografare intuitivamente il buco nero di questo Paese alla luce delle urne di cui gli assertori sovranisti traggono i loro auspici. Perché questa storia dei buchi neri non è nuova sotto il sole. L’aveva già intuita Erasmo da Rotterdam quando ha scritto “L’elogio della follia” o il “Lamento della pace”, Querula pacis. Che grande scienziato è stato l’umanista avendo anticipato di oltre 5 secoli  quello che la “realtà” invisibile della materia fisica ci mette sotto gli occhi, ma che noi non riusciamo a scorgere perché siamo diventati nel frattempo sempre più ottusi. Il perché accade questo fenomeno lo ha dimostrato qualche secolo dopo un fisico, matematico e filosofo austriaco,  Ludwig  Boltzmann (1844-1906) con una equazione, che ha tracciato il segreto del tempo. Ce lo rammenta Carlo Rovelli (fisico italiano conosciuto nel mondo soprattutto per il suo best seller “Sette brevi lezioni di fisica”) nell’affascinante viaggio che ci propone nel suo “L’ordine del tempo”. Rovelli racconta  che è stato lo scienziato austriaco a farci vivere uno dei “tuffi più vertiginosi verso la nostra comprensione della grammatica intima del mondo”. L’equazione è quella che misura l’entropia: “Delta S è sempre maggiore o uguale a zero”. Spiega Rovelli: “Alla fine dell’Ottocento molti ancora non credevano che molecole e atomi esistessero davvero; Ludwig era convinto della loro realtà e ne aveva fatto la sua battaglia”. E commenta: “Gli occhi di Copernico hanno visto la Terra girare guardando il sole che tramonta. Gli occhi di Boltzmann hanno visto muoversi furibondamente atomi e molecole guardando un bicchiere di acqua immobile”. Gli scienziati non sono altro che novelli historei, testimoni oculari come si autodefiniva Erodoto, vale a dire osservatori della natura delle cose. Il che ci racconta che lo sguardo ci fa intuire ciò che si agita dentro l’invisibile. Ma oggi sta accadendo l’inverso: nella “surrealtà” dei social i nostri sguardi sono magnetizzati dentro i nuovi labirinti. E per riprendere la riflessione di Gramsci sul senso comune, gli schiavi si credono liberi perché il padrone è dentro di loro, “è diventato la loro coscienza morale e politica”. Questo lo dovrebbe sapere un uomo colto come Mattia Feltri, ma anche tutti gli illuminati scrutatori della scena politica italiana e soprattutto i navigatori che vagano dentro la nebulosa della costellazione “Penta” per scrutare la pagliuzza negli occhi altrui, mentre il novello Odisseo gli ha conficcato una trave infuocata. Ma tutto questo era già stato anticipato, non solo dal’aedo Omero, ma anche su queste pagine, da chi verga queste nugellae, “cosucce” come amava definire i suoi rerum fragmenta vulgarium  un certo Petrarca, si parva licet componere magnis, “se è lecito confrontare le cose piccole con le grandi” (Virgilio, Georgiche. Nota: l’autore dell’Eneide usa questo topos diffuso nella cultura classica per introdurre il confronto tra la laboriosa attività delle api e l’opera mastodontica dei Ciclopi). E’ sempre una questione di come scorre il tempo e del punto di vista. Panta rei era l’arcano algoritmo della filosofia di Eraclito. Ma Rovelli sottolinea che Boltzmann “ha capito che la differenza tra passato e futuro non è nelle leggi elementari del moto, non è nella grammatica profonda della natura. E’ il disordinarsi naturale che porta verso situazioni via via meno peculiari, meno speciali”. In altre parole il fisico austriaco ha mostrato che “nella descrizione microscopica non c’è un senso in cui il passato sia diverso del futuro” e che “la differenza fra passato e futuro si riferisce alla nostra visione sfocata del mondo”. Tradotto significa che in un qualsiasi sistema tanto maggiore è l’entropia, tanto minore è la capacità di comprensione.  Si tratta, commenta Rovelli, di “una conclusione che lascia esterrefatti: possibile che questa mia sensazione così vivida, elementare, esistenziale – lo scorrere del tempo – dipende dal fatto che non percepisco il mondo nel suo minuto dettaglio? Una specie di abbaglio dovuto alla mia miopia? Davvero, se vedessi e prendessi in considerazione la danza esatta dei miliardi di molecole, il futuro sarebbe ‘come’ il passato?”. Tutto è già scritto nella natura della cose, per re-citare Lucrezio. Quando si osservano con attenzione i segni si coglie anche il disegno. Il punto dirimente, ribadisce Carlo Rovelli “è solo in questa visione sfocata che appare la vistosa differenza fra passato e futuro”. Non a caso mette insieme la poesia e la fisica, la scienza con la coscienza, l’estetica con l’etica. Al poeta latino Orazio che scandisce il viaggio nell’ordine del tempo, affianca il grande poeta persiano Saʿdi di Shirāz, che ha scritto quei versi memorabili – almeno per chi crede nella sacralità dell’essere umano – incisi all’entrata del palazzo dell’Onu: “Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo,/  sono della stessa essenza./Quando il tempo affligge con il dolore / una parte del corpo / le altre soffrono./Se tu non senti la pena degli altri /non meriti di essere chiamato uomo”. Quante volte noi dimentichiamo “la pena degli altri”… La demagogia, la propaganda, la miopia, l’indifferenza per la sorte altrui, con la carica di disumanità che si porta dentro l’onda populista e sovranista e che si sta abbattendo inesorabile su questo Paese, è il frutto della “visione sfocata del mondo”. L’equazione di Bolztmann ci svela tutto questo: l’oscurità ci sta trascinando in un buco nero, che risucchierà ogni lume. Ma ci illuminano ancora i versi di Orazio: “Se più dolcemente di Orfeo, / che gli alberi anche commosse,/ tu modulassi la cetra,/ il sangue non tornerebbe/ all’ombra vana… /Duro destino,/ ma meno grave si fa,/ col sopportare,/tutto ciò che fa tornare a ritroso/ è impossibile”. Il cantore del Carpe diem, intuisce che “mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile, il tempo” e ci invita a “cogliere l’attimo”. Anche la parola deve essere “colta”: “Anche le parole che ora diciamo / il tempo nella sua rapina/ ha già portato via/ e nulla torna. Se nulla torna, ritorna il tempo in cui anche la parola è come un boccio chiuso che ha bisogno di essere illuminato per poter aprire i suoi petali, per mostrare la bellezza del fiore che custodisce. Forse dovremmo ri-codificare il tempo del ritorno di Aion: il tempo ciclico, della durata, il tempo della coscienza, intuito dal filosofo francese H. Bergson: “Noi non percepiamo, praticamente, che il passato dal momento che il puro presente è l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro (Materia e memoria. Saggio sulla relazione del corpo allo spirito, 1911). Ogni attimo che passa diventa immediatamente passato come nell’etimo di futurum. Nella sua origine latina, il termine è participio futuro del verbo ‘essere’, indica ‘ciò che sta per essere o accadere’, ‘ciò che è destinato ad essere’. Al tempo stesso, però, tale forma si origina dalla *fu-, che corrisponde appunto alla radice tematica del tempo perfetto, cioè del passato. Possiamo quindi immaginare il tempo come la sabbia o l’acqua che scorre in una clessidra: il contenuto è sempre lo stesso e diventa tempo nel momento che si riversa. Non a caso per rappresentare il tempo-spazio, Rovelli ricorre a due coni rovesciati che formano una clessidra. Ora nel tempo che scorre, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni concetto, si travasa come accade ai granelli di sabbia e alle gocce dell’acqua nella clessidra nel momento in cui si capovolge. Kronos e Kairos, le altre dimensioni temporali codificate nel mito dei greci, sono entrati nei coni del tempo di Aiòn. E in questo travaso di pensieri, di riflessi immediati o lasciati a decantare come le parole nella caotica, entropica e assordante doxa mediatica italica che si mesce nei tanti calici deliranti dei social, “sono più di cent’anni che abbiamo imparato che il ‘presente dell’universo’ non esiste” e che “l’idea che l’universo esista adesso in una certa configurazione, e cambi tutto insieme con il passare del tempo, non funziona più”. È questa la conclusione di Rovelli che si spalanca di fronte ai nostri occhi, mettendo un certo “ordine” al tempo che stiamo dedicando a queste parole per intelligere con l’ars interrogandi, la realtà delle cose. E nel fare ciò, “Siamo testimoni – e nostro malgrado, più spettatori che protagonisti – di una mutazione antropologica che ci rende estranei e superate persino le parole che riteniamo uniche, inalterabili e insostituibili”; ma “di fronte a questi scenari il pensiero sembra segnare il passo e soffrire di anoressia: come se stessimo smarrendo alcuni fondamentali. E’ come se all’improvviso scontassimo tutta la complessità e drammaticità della parola latina finis, il vero nome dell’uomo: ‘la fine’ da patire, ‘il fine’ da raggiungere, ‘il confine’ da oltrepassare. Nel contempo avvertiamo l’assenza di un télos, un disegno, che, riattivando la spina della storia, tiri un filo fra passato e futuro, fra memoria e progetto, fra trapassati e nascituri; e avvertiamo, altresì, la mancanza di un dialogo, un’intesa fra i diversi mondi, linguaggi, saperi: un orizzonte e uno sguardo panoramico da affidare a un nuovo umanesimo (…). I tempi spiegano la mutazione in atto: ma chi spiega i tempi?” (Ivano Dionigi, Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio. Seneca e noi, 2018). Da questo speciale osservatorio, nell’arco di un decennio, i protagonisti della scena politica hanno offerto uno spettacolo a dir poco surreale. A partire dalla Seconda per giungere alla “Terza” Repubblica, da quando la politica è diventata un “teatrino” secondo la mitica espressione di colui che ha incarnato questo teatrino (quel certo Cavalier errante che con le sue mitiche imprese è diventato folle per la bella mora “Ruby rubacuori”), fenomeni da baraccone imperversano nel circo mediatico-istituzionale come un piccolo esercito di mosche che sciamano dove si sentono gli olezzi del cibo in putrefazione. Così si sperimentano processi alchemici inversi: l’oro trasformato in vile metallo, come nelle cinque mitiche età, magistralmente interpretate dai pentastellati. O forse ci dobbiamo rassegnare alla concezione machiavellica, teorizzata da Hobbes, che l’uomo per natura è un essere malvagio e nessuna educazione, nessuna cultura, può emanciparlo dalla sua brutale natura, perché l’Homo non è Sapiens, ma homo homini lupus. Questa concezione purtroppo agisce come una potente droga nelle vene di chi viene a contatto con il vampiro del potere e poi viene iniettata nelle menti e si insinua profondamente, sfocando la coscienza e divaricando, anzi separando e recidendo, il passato dal futuro, l’anima dal corpo, la materia dallo spirito, generando l’homo necans, (come ci insegna Walter Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia, 1972); ma ce lo hanno ricordato, per citare alcuni “scienziati” della fisica antropologico-sociale, Primo Levi per primo e poi Gunther Anders, Hannah Arendt, Pier Paolo Pasolini, don Lorenzo Milani negli anni Sessanta-Settanta e adesso lo confermano le urne della “metafisica” social. Il corpo del popolo sovrano come la pasta non lievita se non è manipolato, plasmato e cotto negli altiforni siderurgici della demagogia. Tra i primi anni Novanta, quelli della famigerata “discesa in campo” e questa della Terza Res Pubblica, in cui è entrato in scena un metallo dalla “lega” ancora più vile, l’unica differenza è che non c’è più il cavaliere errante a partecipare alla grande giostra mediatica, ma è rimasto il cavallo pazzo per la pura razza del genius loci italico, dopo aver disarcionato il cavaliere. E in questi nostri “sfocati” tempi sentiamo forte la nostalgia di Astolfo che, con l’ippogrifo, si reca sulla luna per recuperare il senno di Orlando (secondo il mito raccontato da Ariosto). Eppure è stata proprio l’eclisse totale di sole del 29 maggio del 1919, grazie all’ombra prodotta dalla luna, che si ha la prima dimostrazione sperimentale della teoria della Relatività generale di Albert Einstein. La luna, un secolo fa, sorrise ad Einstein, come ci raccontano in alcuni articoli (nell’inserto “Tuttoscienza”  de “La stampa” del 29 maggio) Emanuele Perugini, Piero Martin e Gabriele Beccaria. Pierre Luminet nel 1978 – 1979, allora giovane astrofisico, ebbe l’idea di dare una immagine ad uno dei fenomeni più elusivi dell’universo, i buchi neri. Egli spiega che potremmo avere informazioni importanti “sul momento angolare” nell’immagine del buco nero fotografata dall’Eht: “Come la maggior parte dei buchi neri , M87 è rotante, ma non abbiamo ancora un valore preciso del suo momento angolare”; mentre Gianfranco Bertone (professore all’Università di Amsterdam, esploratore di queste “realtà del cosmo”) in merito riferisce: “Abbiamo la mappa del tesoro con la fatidica X, ma l’universo oscuro, quello della materia e dell’energie oscure, rimane tale”. Il microcosmo dispiega il mistero del macrocosmo, l’infinitamente piccolo svela l’origine dell’universo come l’intuizione dell’equazione di Boltzmann. In compenso abbiamo sempre una pasta formata da tante farine ormai super contaminate, che le mani del potere manipolano a propria immagine e somiglianza. E in questo impasto ci sono gli infiniti clic della post verità con il lievito della democrazia digitale, scrutata dal magico occhio di Pinocchio. Ma dentro le molliche si scoprono anche le impronte delle menti colte, raffinate e sensibili al destino dell’uomo. Anche queste intelligenze, attratti dalla bellezza seducente del “particulare” ereditato dai “Ricordi” di Guicciardini e dalla “gaia scienza” di Nietzsche, sono state immolate sull’altare della Patria e delle sue alte virtù, supponiamo, ispirate dall’imperativo categorico di Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. E per renderci ancora più edotti, il filosofo dell’età dei lumi, ci ricorda che  “Nel regno dei fini ogni cosa o ha un prezzo o ha una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere rimpiazzato da qualcosa di equivalente; ciò che dall’altro lato si innalza su ogni prezzo e dunque non ammette alcun equivalente ha dignità. Ora, la moralità è la condizione per cui soltanto un essere razionale può essere un fine in se stesso. Dunque la moralità, e l’umanità in quanto capace di moralità, è ciò che ha dignità” (Fondazione della Metafisica dei Costumi, 1785). Possiamo immaginare che gli atomi di Pico della Mirandola e della sua Oratio de hominis dignitate (“Discorso sulla dignità dell’uomo”) si stiano indignando furiosamente o quelli dei padri della Costituzione che tra i principi fondamentali hanno enunciato la pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3). Ma in questa eclisse totale della mente intuitiva ci danno luce le parole di Vasilij Grossman: “C’è un dono superiore rispetto a quello dei geni della scienza e della letteratura, dei poeti e degli scienziati. Tra le persone di talento, se non di genio, tra i virtuosi delle formule matematiche, del verso poetico, della frase musicale, dello scalpello e del pennello, molti hanno un animo misero, debole, meschino, lascivo, avido, servile, cupido, invidioso; molti sono i molluschi, gli smidollati nei quali l’irritazione di una coscienza inquieta favorisce la nascita della perla. Il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale, della nobiltà d’animo, della magnanimità e del coraggio del singolo in nome del bene. E’ il dono dei cavalieri e fanti timidi e senza nome che con le loro imprese fanno sì che l’uomo non si trasformi in bestia”(Il bene sia con voi! Appunti di viaggio,1962-1963). Dispiegando il filos tra passato e futuro, un altro prezioso dono ci viene tradotto da Cicerone, la profezia della natura umana di Pitagora. Secondo Diogene Laerzio, oltre ad elaborare il famoso teorema e la dottrina della trasmigrazione delle anime (metempsicosi) già presente anche nei culti orfici e nella tradizione religiosa dell’Oriente (Buddismo), fu colui che si è definito per primo filosofo, “amante della sapienza”: “A mio parere la vita umana è simile a una di quelle fiere che si tengono con grande apparato di giochi e sono frequentate da tutta la Grecia. Lì infatti, alcuni cercano la gloria e la fama di un premio nelle gare sportive, altri sono attirati dal guadagno trafficando a comprare o a vendere, e c’è poi una categoria di persone, ed è la più nobile, che non cercano né l’applauso né il guadagno, ma ci vanno come spettatori e osservano attentamente quel che avviene e come avviene. Lo stesso è la vita umana: noi siamo partiti per questa vita da un’altra vita e da un’altra natura, come da una città verso un mercato affollato, alcuni schiavi della gloria, altri del denaro; e vi sono certe rare persone che trascurano completamente tutto il resto e studiano attentamente la natura. Questi si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi, e come nella fiera l’atteggiamento più nobile è fare da spettatore disinteressato, così nella vita lo studio e la conoscenza della natura sono di gran lunga superiori a tutte le attività”.(Cicerone, “Discussioni di Tuscolo”, citato da Ivano Dionigi in Quando la vita ti viene a trovare, 2018). La corrispondenza con l’ordine del tempo che Carlo Rovelli ha creato, coniugando la fisica alla poesia, ha evocato l’armonia suprema che presiede al misterioso fascino del cosmo, della sua intima materia e profonda essenza, intuita da Pitagora nell’arché (principio). L’archetipo del filosofo che ha vissuto a Kroton nel tempo della Magna Grecia, scaturisce dal rapporto tra i numeri e le note musicali. Dalla sua armonica risonanza deriva l’invenzione della scala musicale, ma anche il fondamento numerico dell’anima del mondo (anima mundi), come è stata concepita da Platone nel Timeo, e quindi tutto ciò che ruota intorno alla scienza fisica dei nostri tempi social. Ma il tutto ritorna al principio della meraviglia di cui Aristotele ci ha fatto dono nella Metafisica, illuminando la materia oscura, perfetta unione col futurum della meraviglia enunciata da Einstein nei suoi “Pensieri”: “Che cosa non sia una scienza produttiva, risulta anche a partire da quanti per primi ricercarono il sapere: a causa della meraviglia infatti gli esseri umani, sia ora che per la prima volta, hanno cominciato a ricercare il sapere, all’inizio meravigliandosi per le aporie a portata di mano, in seguito procedendo a poco a poco nello stesso modo, sviluppando aporie anche a proposito di cose più importanti, quali le fasi della lna, e <i fenomeni> riguardanti il sole e le stelle, e a proposito dell’origine dell’universo. Chi si pone problemi e si meraviglia, ritiene di essere ignorante (perciò l’amante del sapere è anche in qualche modo amante del mito, poiché il mito è composto di cose che destano meraviglia); di conseguenza se <gli esseri umani> ricercarono il sapere per fuggire l’ignoranza, è chiaro che perseguirono la scienza a causa del sapere e non in vista di qualche utilità”. (È un altro Ordine a rammentarci queste parole, Nuccio, nel suo “Gli uomini non sono isole”. I classici ci aiutano a vivere, 2018). La spola delle parole ha intessuto così il suo tempo: un ritorno all’origine, al mito della meraviglia per declinare il futuro della parola “realtà”, attraverso lo Spirito del logos, l’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande.  In principio era il logos ed il logos era presso Dio e il logos era Dio (Vangelo secondo Giovanni). Ed è con il battito del cuore che le corde fanno vibrare e risuonare l’armonia pitagorica che muove “L’Amore, il sole e le altre stelle” (Dante, XXXIII canto del Paradiso), compreso il moto delle parole. È  con il respiro (pneuma, anima, soffio vitale, spirito) che si espande l’universo e si contrae nella profondità del mistero, diastole e sistole. È il suo “sacro” alito che crea e governa la vita, il pensiero, la scienza, l’arte, il desiderio, il sogno, il bisogno, il segno e il disegno. È nel ritmo del battito del cuore cosmico che il tempo-spazio respira, scandisce e unisce il passato e il futuro dell’umanità. “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Essa è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare e rimanere rapito in timorosa ammirazione, è come morto: i suoi occhi sono chiusi” (Albert Einstein). Il microcosmo Riace non è forse tutto questo? Mito, sogno, utopia, visione, luce, tempo, perché “Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo”. Quale altra realtà potremmo intuire e immaginare? Quella della “visione sfocata del mondo”? La differenza tra mito e realtà risiede nell’eclisse totale del sole di un secolo fa, quando la luna sorrise ad Einstein.