La Calabria in mano alla ‘ndrangheta, istruzioni per l’uso

La Calabria è in mano alla ‘ndrangheta. Le ultime dichiarazioni del Procuratore di Reggio Federico Cafiero de Raho, in sintonia con quelle di Nicola Gratteri e di Marisa Manzini, attestano il potere delle ‘ndrine sul territorio regionale. Ma sulla fenomenologia ‘ndranghetista di mezzo c’è l’eterogenesi dei fini del Principe di Machiavelli: istruzione per l’uso.

Si sa che il mito si riproduce in quanto è un organismo vivente che assume sempre nuove forme (si leggano I miti di oggi di Roland Barthes o I miti del nostro tempo di Umberto Galimberti). La narrazione corrente nella innovativa tradizione mediatico-digitale, che ha sostituito quella orale, lavora in profondità per dare vitalità e potere alla nuova mitologia che viene costruita attorno al misterioso fenomeno della ‘ndrangheta. Le classiche personificazioni mitiche hanno assunto una versione aggiornata del mito nella liturgia visiva mass mediatica. In questa narrativa non manca il fascino, creato ad arte, della ‘ndrangheta, del potere seduttivo e distruttivo del criminale che domina e che uccide senza pietà per imporre il suo codice, la sua legge suprema (il nuovo dio degli eserciti che non perdona).

Dal mito alla realtà all’indomani dei 24 anni dalla strage di Capaci compiuta da Cosa nostra in cui hanno perso la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Da allora c’è stata una sorta di “mutazione antropologica” in positivo della società siciliana e in particolare di Palermo, grazie all’impegno sociale e alla responsabilità etica e culturale di tante associazioni che si sono battute contro la mafia. In Calabria invece “la ‘ndrangheta controlla passo passo tutto quello che avviene. Nel porto di Gioia Tauro, prima porta di accesso in Italia per la cocaina, sequestriamo 1 tonnellata di cocaina all’anno, il che vuol dire che ne entrano almeno 10 tonnellate. La cocaina si trasforma in denaro che entra nell’economia apparentemente legale ma che in realtà è drogata  inquinata”. Sono le dichiarazioni del procuratore capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho al convegno “Uscire dal cono d’ombra”, che si è svolto alla Camera dei Deputati (19 maggio). Cafiero de Raho ha messo in “luce” come la ‘ndrangheta governi l’estrema punta dello Stivale e “aggiunge: “Oggi la ‘ndrangheta è formata da professionisti come commercialisti, avvocati, imprenditori, persone insospettabili che vestono in giacca e cravatta”. Ma rammenta che “ultimamente le cose stanno cambiando, stanno arrivando le denunce che aiutano noi investigatori a perseguire il malaffare. Il fatto che ci siano collaboratori anche nella ‘ndrangheta, nel 2015 ci sono stati 13 collaboratori, è un fatto straordinario, poiché la ‘ndrangheta vive sulla confusione, sul silenzio e con il silenzio è diventata forte”.

Che sia stato il Procuratore capo della Procura di Reggio a fare queste dichiarazioni, ci deve far riflettere perché le sue parole possono sortire almeno due effetti se consideriamo l’eterogenesi dei fini (espressione coniata dal filosofo tedesco Wilhelm Wundt, che si richiama alle “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali” ma che già era stata concepita da Gianbattista Vico ne “La scienza Nuova”. Il filosofo partenopeo evocando le tre età, degli dei, degli eroi e degli uomini, insieme alla teoria dei corsi e ricorsi storici, aveva prefigurato come il tentativo dell’uomo di raggiungere alti e nobili fini, nel fiorire di civiltà e saperi, la storia arrivi a conclusioni opposte. Senza addentrarci in concezioni provvidenzialistiche della storia, guardando alla “realtà effettuale” secondo il metodo storico introdotto da Machiavelli, il primo effetto che sortiscono le parole di Cafiero de Raho, uomo che opera nella procura più difficile d’Italia, è la sensazione che lo Stato (dalle istituzioni alte a quelle locali) non si sia impegnato abbastanza e abbia lasciato mano libera alla ‘ndrangheta. L’altro effetto è sotto il profilo della comunicazione; infatti il messaggio che passa in particolare nella terra dove l’organizzazione criminale è radicata, rivela, per logica, che la ‘nandrgheta non è un corpo estraneo allo Stato, perché la Calabria è una regione dell’Italia (anzi, è stata proprio questa estrema propaggine a dare il nome all’intera Penisola).

Ogni pagina è fatta di un verso e di un recto. Se in un verso è scritto che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondato sul lavoro e che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1), nel recto leggiamo che la ‘ndrangheta è dentro la Stato. Il sillogismo sembra quasi lapalissiano. Ma non ci risulta che i Governi passati o quello attuale abbiano omaggiato la ‘ndrangheta concedendo come feudo la Calabria… Non abbiamo notizie in merito.

Senza addentrarci nei corsi e ricorsi storici prefigurati da Gianbattista Vico, a partire dall’uscita dalla barbarie dell’umanità grazie al mito, che ha fatto germogliare la sapienza poetica quando il mondo era ancora fanciullo, facendo scaturire la fonte spontanea e naturale della natura mitico-fantastica dei primi popoli, che hanno dato corpo e anima all’immaginazione collettiva, è certo che il ricorso a Vico ci conduce inevitabilmente alla meditazione sul linguaggio mitico come strumento essenziale per la interpretazione, non solo dei tempi remoti, ma anche dei presenti, in chiave postmoderna. Il potere del linguaggio che interroga e si interroga scava in profondità, diventa come la mano dell’archeologo e fa emergere etimologie, significati e messaggi reconditi, sotterranei, mettendo in moto risonanze e processi simbolici che vanno a toccare le corde dell’immaginario, perché elaborano un codice che ha effetti subliminali e occulti. In una società segnata dai post, dominata dai media, complessa e liquida (secondo la definizione di Zygmunt Bauman), ogni parola può provocare effetti non controllati, secondo la “legge della discrepanza” introdotta dal filosofo Gunther Anders (nell’opera “Noi figli di Eichmann”), in quanto il principio di precauzione è in esilio, così come la capacità immaginativa insita alla facoltà mitopoietica rintracciata da Vico nella fanciullezza del mondo. Nell’attuale vortice mediatico non è importante il contenuto ma il messaggio (è la lezione di Marshall McLuhann) e tutto diventa puro intrattenimento, spettacolo: positivo e negativo si mischiano (vedi il figlio di Totò Riina alla corte di Bruno Vespa), assumono una nuova sembianza, così come accade nelle Metamorfosi di Ovidio. Il male e il bene non hanno più un confine, tutto viene mistificato e massificato.

Ritornando alla’anatomia geo-antropo-comunicativa sul fenomeno della ‘ndrangheta, se da una parte si stilano con precisione chirurgica le mappe delle famiglie ‘ndranghetiste che controllano il territorio, con relative ramificazioni e tentacoli (i vari intrecci, il volume di affari, i nomi degli affiliati), e queste testimonianze e memorie sono corredate in modo scientifico da tutta una letteratura che alimenta il fenomeno narrativo ed evocativo attorno alla mafia e antimafia, fino al punto da diventare una sorta di nuovo mito fondativo della società italiana del terzo millennio, con ascendenze antropologico-religiose che vanno a confluire nell’alveo originario del misterioso e del numinoso (si veda il testo “Il sacro” del teologo tedesco Rudolf Otto), voltando pagina avvertiamo l’assillo rumoroso di una domanda: come è possibile che lo Stato sia impotente con tutti i mezzi che ha a disposizione? Il mistero e il numinoso si infittiscono. Il cittadino calabrese e italiano che crede nel suo onesto lavoro, che porta avanti il suo impegno, il suo patrimonio di valori legati ai principi democratici e che ha lottato e lotta per il bene comune perché fortemente animato dai valori etico-civili scritti con il sangue nella Costituzione, venendo a sapere che lo Stato ha ceduto le armi, e che quindi non è più in grado di proteggerlo e di garantire alle generazioni presenti e future “la pari dignità sociale” e la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione), cosa deve pensare? E tutta quell’area contaminata, inquinata, marcia e corrotta (non sappiamo quanto possa essere la sua estensione, ma certo rappresenta una minoranza), non continua ad esercitare con più spregiudicatezza e arroganza tutta la carica criminale? Non accade forse che il loro potere riceva il crisma della consacrazione come accadeva con l’atto di omaggio del sistema feudale? In questo caso il mostro non viene occultato, ma mostrato. Sono le stesse parole rivelate che rendono visibile l’invisibile. Ma chi ha avuto il potere di intervenire, in tutto questo tempo, perché non lo ha fatto? Perché è stato incapace o perché ha lasciato che l’epidemia potesse proliferare? Il paradosso che sconcerta è proprio il fatto che più si conosce questo misterioso e invisibile potere (è qui è il caso di citare Norberto Bobbio il quale in “Democrazia e segreto” ha affermato che l’Italia è un Paese dove il potere invisibile è quello più visibile) e più ci viene raccontato che diventa potente, che cresce a dismisura. E la liturgia massmediatica che si crea intorno al mistero confeziona il prodotto per darlo in pasto ad un pubblico vorace pronto a divorarlo senza rendersi conto che si tratta di un cibo ogm, “organismo geneticamente manipolato”.

Ogni effetto ha la sua causa, anzi il suo principio. La criminalità, l’oppressione, il degrado, l’inquinamento morale e materiale, la manifestazione malvagia della natura umana, sono essenziali alle finalità del neocapitalismo della nuova rivoluzione “pluto-centrica” dell’era digitale: vale a dire che il mondo deve girare attorno al dominio dei soldi e dei soldati. Un bel salto evolutivo che l’homo faber ha compiuto se si è arrivati ad adorare “lo sterco del demonio”! Il successo, le ambizioni, i desideri, la fenomenologia del potere, sono modellati e si identificano nella seduzione che ha il danaro. L’onestà, l’umiltà, l’umanità, il rispetto e la cura del mondo interiore, dell’ambiente sociale e naturale e dei valori collettivi condivisi, sono ritenuti inutili rifiuti umani dal bel mondo “pluto-cratico”, spazzatura indifferenziata da destinare alle discariche. Il nuovo ordine mondiale deve essere in mano a pochi Principi. A questi illuminati magnati, per il principio delle “affinità selettive” e dello scarto, interessa disseminare immondizie e avvelenare lentamente le coscienze, per paralizzare il pensiero, per uccidere ogni sussulto di dignità e di libertà, i fondamentali valori su cui si era edificata l’epoca d’oro dell’arte e della cultura del Rinascimento. La mafia, la ‘ndrangheta e tutto ciò che crea paura, violenza, terrore, è solo l’effetto dei modelli legati alla simbologia del potere. Si pensi a tutti i meccanismi che sono costruiti nei gangli dei social media e le diverse sembianze che assume l’amplificazione dell’ego il cui narcisismo spinge molti uomini con un livello di istruzione considerato elevato, pluridecorati e plurititolati, ad essere vampirizzati da tutta questa mitologia (utile a comprendere questi fenomeni, oltre al noto “I persuasori occulti” di Vance Packard, anche il recente libro di Mauro Magatti, “Libertà immaginaria, Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista”). Questo mappa è scientificamente disegnata da Machiavelli nel “Principe” e nella personale concezione della natura umana. L’uomo, per il segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica di Firenze, è geneticamente malvagio, egoista, avido e desideroso di potere: la cultura e l’educazione non hanno la forza di trasformare la parte di cattiveria e meschinità dell’essere umano. Proprio per questa sua visione negativa Machiavelli pensa che chi esercita il potere debba usare tutti gli strumenti e i mezzi utili al dominio, quindi ogni forma di violenza e di inganno. Ma, nonostante questa poca fiducia nell’umanità, non crediamo che l’autore del Principe avrebbe mai immaginato l’evoluzione attuale della machiavellica specie di “principe italicum”.

Ora tutti i magistrati che lavorano in prima linea contro il fenomeno ‘ndragnheta affermano già da tempo ciò che Cafiero De Raho ha testimoniato pochi giorni addietro. Si rileggano ad esempio le dichiarazioni di Nicola Gratteri (il nuovo procuratore della Repubblica del tribunale di Catanzaro) che ha rilasciato ad ottobre scorso su “La voce di New York”, o di un altro magistrato come Marisa Manzini che dai primi anni Novanta si trova in Calabria. Nella “Prefazione” di “Onore e Dignitudine, Storie di donne e di uomini in terra di ndrangheta” scritto da due sociologhe, Sabrina Garofalo e Ludovica Ioppolo, la Manzini afferma: “La Calabria deve fare i conti con un potere mafioso esercitato senza interruzione e senza scampo”; poi constata e rileva: “Nei primi anni ‘90 c’era ancora un po’ di resistenza nel chiamare con il proprio nome quella forma di criminalità così presente e penetrante sul territorio.” E in modo impietoso ribadisce che in Calabria “la democrazia non esiste” perché le organizzazioni criminali “mirano al controllo pieno e totalizzante delle persone, delle istituzioni e della economia del territorio”. Questo controllo lo esercitano “uccidendo le persone, facendole scomparire dopo la completa distruzione del loro corpo, affermano il potere – inteso come sostantivo e come verbo – imponendo e rafforzando l’esistenza di un sistema giuridico antitetico a quello della Stato”. Ma poi l’attuale Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Cosenza (per diversi anni alla DDA di Catanzaro) pone la questione dei valori etico-politici: “La piena realizzazione dei principi di dignità della persona umana, di libertà, uguaglianza, lavoro e pari opportunità per tutti i cittadini saranno possibili solo se verrà esclusa la ‘ndrangheta dal territorio calabrese”. Le stesse corde ideali vengono toccache dalle parole di Nicola Gratteri, creando una significativa corrispondenza con quelle della Manzini. Lei giovane donna che incontra la Calabria nel 1993 provenendo da una terra lontana, il Piemonte, così come aveva fatto nel 1909 un altro illustre piemontese, filantropo, antifascista, considerato “monaco laico” e senatore a vita della Repubblica, che si è speso per tutta la sua vita a dare una speranza di riscatto e di dignità a tutta quella “perduta gente” di Calabria oppressa dal bisogno, dalla miseria e dai disastri tellurici, come accadde con il terribile terremoto del 1908 che ha distrutto Messina e Reggio. La Manzini è rimasta (come scrive nella già citata Prefazione a “Onore e Dignitudine”) “affascinata da una terra ricca di mille contraddizioni. Una terra che mescola il clima caldo e le onde frizzanti del Mediterraneo con l’asprezza e la fierezza dei monti. Ma l’ampiezza degli spazi naturali, la superbia di una natura libera e prorompente, deve fare i conti con presenze umane violente e sprezzanti, che impngono spazi chiusi, ritagliati e insistentemente controllati. Dove malignità degli uomini non risparmiano neppure i bambini”. Un analisi sociale e antropologica spietata; ma lei è rimasta in Calabria a combattere questa brutalità: “Il nostro compito però è fondamentale. Per i cittadini ottenere verità e giustizia significa ricominciare a credere nelle istituzioni, quelli legali, costituzionalmente garantite; partendo da questa sicurezza: dalla presenza di uno Stato che tutela i suoi cittadini, ogni persona potrà iniziare a ribellarsi sull’arroganza mafiosa”.

Nicola Gratteri invece è un calabrese cresciuto in un piccolo paese, ricco del patrimonio di valori che ha ereditato dalla sua famiglia (dedica proprio ai genitori il premio ricevuto a New York, il “Civil Courage Prize Award” dalla Train Foundation, perché gli hanno “insegnato l’onestà”). Una eredità che sente e vive come istanza “forte”, “potente”, che ispira e infonde la sua missione, con una tensione etica e maieutica verso la libertà. Lo racconta in una intervista rilasciata mentre si trovava a New York per ricevere il premio durante l’incontro con la stampa al Consolato ad ottobre scorso (pubblicata su lavocedinewyork.com a firma di Stefano Vaccara): “Sono un magistrato che non faccio parte di nessuna associazione. Non appartengo a nessuna corrente. Non ho mai fatto politica attiva. Sono esattamente come lei mi vede. Io parto da un paesino di campagna della provincia di Reggio Calabria, di tremila abitanti, con letteralmente una scatola di cartone e lo spago, per andare all’università. E sono arrivato qua. In tutto questo percorso, dietro di me non c’è stato mai nessuno. Quello che ho ottenuto l’ho ottenuto producendo il triplo e il quadruplo rispetto a molti altri…”. E rammenta: “Malgrado il fatto che mi era stato proposto di fare il ministro, io sono una persona libera. Io non faccio dieci metri senza scorta. Ma io sono una persona molto libera. Più libera di quanto si immagini, più libera di gente che può girare in bicicletta dove vuole e quando vuole…”. Poi osserva: “Per decenni abbiamo avuto governi deboli che non hanno reso possibile fare la rivoluzione. Fare la rivoluzione significa fare cose che fanno male e che non piacciono. Chiunque è al potere non vuole un sistema giudiziario forte. Il condottiero non vuole essere controllato chiunque esso sia. E’ nella natura degli uomini”. Al contrario di quanto aveva affermato Giovanni Falcone sul destino della mafia, che come tutti i fenomeni umani è destinato a sparire prima o poi, Gratteri invece è pessimista, così come lo era Machiavelli, e spiega: “La mafia per esistere ha bisogno del consenso popolare. La mafia si nutre del nostro consenso. Se non ci fosse il consenso popolare, le mafie potrebbero sparire come spariscono  certi fenomeni che riguardano il terrorismo. Le mafie invece non spariscono, non scompaiono perché le mafie fanno parte della nostra cultura, fanno parte della nostra vita, le mafie si nutrono del nostro consenso. Sono tra di noi, tra le nostre file, tra i nostri banchi. Ecco perché le mafie forse finiranno quando finirà la nostra terra”. Questo perché “man mano che passano gli anni sempre più professionisti fanno affari con mafiosi, con la ‘ndrangheta. Questo è un trend che è in crescendo, cioè la linea si sta sempre più assottigliando tra la cosiddetta borghesia, cioè la classe dirigenziale, e le mafie. Perché oggi i capi mafia sono incensurati, sono medici, ingegneri, avvocati. Il mafioso con la coppola e col bastone non c’è più o è morto o è al 41bis. Ormai gli affari per la gestione e l’importazione di cocaina per tonnellate o l’infiltrazione degli appalti della pubblica amministrazione ormai è fatta dai figli, dai nipoti dei capi mafia, che sono andati all’università, si sono laureati. Alcuni bravi, altri ignoranti, ma laureati che comunque occupano posti importanti e che comunque gestiscono la cosa pubblica. Questa è la cosa più difficile da combattere, da sradicare”. Qui Gratteri si sofferma con un’analisi sociale e antropologica del boss mafioso e della società particolarmente significativa: “Il problema di un capomafia è quello di investire i soldi che già ha. Di giustificare la sua ricchezza. Poi ha due preoccupazioni: uno mandare i figli all’università, farli diventare professionisti. Due, almeno uno dei figli farlo sposare con la borghesia, con l’aristocrazia. Perché gli manca il pedigree. Al capomafia manca lo stemma alla porta, lo stemma patrizio. Ha bisogno di ciò che non può comprare. E’ come le persone che si arricchiscono velocemente e che non hanno le basi della cultura. In Italia è il perfezionarsi del gusto, e il gusto non si compra.  Il gusto è il risultato di anni, di secoli di cultura, in una famiglia. E quando una persona diventa ricca subito e costruisce una casa, la fa senza gusto, e compra una accozzaglia di stili, solo ciò che costa molto per fa sgranare gli occhi ma senza gusto.  Quindi il mafioso tende a facilitare un matrimonio con la borghesia. Come tende anche a far sposare un altro figlio con una ragazza di un’altra famiglia di ‘ndrangheta. Come facevano i regnanti d’Europa nel ‘700 per rafforzare il proprio potere. E questo sta avvenendo sempre più spesso. Vediamo attorno ad un tavolo, o in un club, ‘ndranghetisti con medici, ingegneri, avvocati. Questa è la cosa più triste, cioè il decadimento etico che porta a questa comunanza in nome del dio denaro” (il corsivo è nostro).  Dalle parole di Nicola Gratteri comprendiamo perché non solo la Calabria è in mano alla ‘ndrangheta e perché il nuovo procuratore del tribunale di Catanzaro non sia diventato ministro della giustizia.

Nonostante queste urla, la politica è rimasta a guardare o ha distolto volutamente lo sguardo. Il silenzio del Governo e di Renzi è assordante. Fa riflettere il fatto che il presidente del Consiglio non abbia mai lanciato un “cinguettio” sul fenomeno ‘ndrangheta o mafia. Addirittura quando è andato a commemorare Pio la Torre e Rosario Di Salvo, giorni fa (29 aprile), lo ha fatto quasi di nascosto. È duro il giudizio espresso da Sandro Zagatti sul blog del Fatto quotidiano online (13 maggio) dal titolo emblematico “Renzi e la negazione della lotta alla mafia” in cui è forte la denuncia dell’intreccio perverso tra politica e mafia: “I poteri che proteggono Matteo Renzi vogliono un paese assuefatto alla compenetrazione fra economia legale ed illegale, al ricorso a capitali riciclati per lo “sviluppo”, alla resa di fronte al potere delle famiglie mafiose, delle cosche camorristiche e delle ‘ndrine. Alla Repubblica fondata sul lavoro è subentrata l’Italia fondata sul profitto, e poiché le attività illecite sono quelle a maggior profitto, è naturale aprire le porte dell’economia alle organizzazioni criminali”. Dalla strage di Capaci seguita da quella di Via d’Amelio con l’uccisione dell’amico di Falcone, Paolo Borsellino, abbiamo appurato che la trattativa stato-mafia non è certo una leggenda “metro-napolitana”. A distanza di tanti anni, il sogno di creare le condizioni affinché nessun Paese abbia bisogno di eroi (come ammoniva Bertold Brecht) ancora resta una utopia. Tanti nuovi eroi operano in silenzio o spariscono senza nessun clamore. Machiavelli nel suo Principe ha spiegato che ogni mezzo utilizzato per dominare è giustificato, senza preoccupazioni di ordine morale, etico o religioso. Ma di fronte alle nuove “maschere nude” (Pirandello) nel teatro della vita e del mondo, la parte redatta nel copione globale dai nuovi gerarchi (mercati finanziari e multinazionali) per compiere massacri umani, tutti gli attori hanno ricevuto l’ordine di recitare la formula sacra nei santuari del dio denaro, con il prezioso ausilio di tantissimi “professionisti” asserviti allo loro missione distruttiva (si legga il rapporto Oxfan sulle disuguaglianze nel mondo). L’alta missione di questa nuova specie evoluta, è quella di sterminare i beni vitali dell’essere umano e dell’umanità, a partire dai sentimenti che rendono umano l’uomo. Per realizzare questa apocalisse, si è proceduto all’anestetizzazione della sensibilità verso la bellezza di ogni creatura e della natura, e poi alla paralisi delle coscienze, con l’inesorabile strage di sogni e di utopie, l’unica strada che l’umanità non ancora accecata può sperare di percorrere, con umiltà e saggezza, è continuare a credere, sognare e pensare, e comprendere il potere delle parole, con l’impegno di recuperare il loro autentico verbo che è custodito nel loro DNA emotivo ed evocativo, per non essere anche Noi figli di Eichmann (Gunther Anders), e credere con il poeta e scrittore Hans Magnus Enzensberger, che “nazisti, terroristi e ‘ndranghetisti sono dei perdenti radicali” (la citazione è della scrittrice Francesca Viscone, autrice del libro “La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media”).

VIBO Giovani Libera