Ritorno a Casa

welcome_calabria Ritorno a Casa di Vincenzo Calafiore Accade di notte, il sogno s’impossessa del tempo e può iniziare il “ viaggio “. Tornare a casa. Nella mia terra tra due mari, diversi nei colori, nei linguaggi, nei rituali, che non la dividono ma ne fanno una terra unica al mondo, è stato come se Dio in quel preciso momento che la disegnò e la dipinse coi colori più belli o miscelando i colori che gli erano rimasti, pensò di mettere assieme le cose più belle concentrandole nella poca creta che era rimasta. La mia terra di un susseguirsi di insenature e di splendide spiagge; distese di valli e di foreste, antichi borghi appesi alle pareti rocciose come tenace verbena e memorie greche, medievali. Da questi parti al Nord, del nord le finestre guardano montagne e vette conficcate come frecce nel cielo, e colline verdi, distese di vigneti fino al perdersi degli occhi; niente profumo di zagara, ne il giallo dei limoni, il rosso degli aranci, il profumo dei pani appena sfornati, né l’intenso odor di fieno e dei gelsomini. Vagando fra le bancarelle di un mercatino rionale, trovo una cartina plastificata a rilievo, sporco e rotto ai lati; a casa lo fisso sulla parete dietro il ripiano di marmo bianco, rappresenta la mia terra da cui sono andato via sessant’anni fa. Tutte le mattine, quando vado a farmi il caffè, o a bere una limonata fresca come la preparava mia madre, mi salta agli occhi la sua posizione geografica, aperta a tutte le direzioni, come fosse un’isola tutta mare e montagne ove è facile sbarcare e difficile arrivare al suo cuore. Raramente accade una così perfetta e profonda dicotomia tra le realtà e le percezioni come nel caso della mia terra, la Calabria. Una terra di cui la “cronaca” ha dato un’immagine drammaticamente unidimensionale e che invece è uno dei tratti più ricchi, aperti, variegati e straordinari dell’intera penisola. Per cultura, tradizioni,costumi; per una straordinaria architettura naturale, la mia terra è la terra delle sorprese che non finiscono mai. E mi viene voglia di riannodare i fili della sua storia per fare in modo d’essere nuovamente amata, di non abbandonarla, come ho fatto io. Da ambo i lati ci sono mari di una trasparenza surreale che si allargano e si restringono in distese di cristallo o si chiudono ad arco di piccole baie dorate, colori accesi dal vulcano e da cieli sempre diversi, e superfici disegnate dalle “ rime” che salgono e scendono; alberi svettanti al cielo in un fitto susseguirsi di boschi che sembrano scesi dal Nord. E laghi, castelli, borghi antichi. La mia terra per secoli ignorata e dimenticata da tutti. Se mi avvicino al muro posso percorrere con il dito tutto il perimetro delle sue coste, tutte diverse fra loro, allargare il palmo sulla distesa dei due mari, accarezzare le cime delle Sile, dell’Aspromonte. Come sarà oggi la mia città, Reggio Calabria? Come sarà Ortì, il luogo di villeggiatura? All’inizio dell’estate, da bambino, ci salivo con la nonna su una corriera scassata che arrancava e nelle curve dovevamo scendere per alleggerirla, non si fermava perché la nostra meta era Ortì, il paesino povero fatto di poche case e strade sterrate. La sera sotto la volta stellata ( a quei tempi non esisteva ancora la televisione) contadini e pastori, mogli e bambini ci si ritrovava in piazza vicino alla vasca abbeveratoio a cantare le canzoni attorno al fuoco. Ma adesso qui davanti a queste montagne e cieli bigi ricordo certi rasserenanti spiagge della mia giovinezza, come quelle di Capo Vaticano, Tropea, Bova, Riace, in un mare che a quell’epoca era totalmente deserto. La mattina presto, quando i sogni sono più rivelatori, mi capita talvolta di sognare le facce dei calabresi, persone generose, accoglienti. Tanti per una sorta di destino hanno dovuto abbandonare la Calabria per l’Argentina, l’America, e il Nord dell’Italia, senza più fare ritorno, anch’io faccio parte di quel destino. Tanti non ricordano più il nostro dialetto, quella lingua fatta di parole antiche e misteriose, come quando da bambino mi dicevano << mangia cu’a brocca>>, e volevano dire << mangia con la forchetta >>. Chissà se oggi ancora qualcuno continua a chiamare – brocca – la forchetta. I calabresi emigrati sono con le radici spezzate, è un dolore tremendo, silenzioso,pesante, che uccide lentamente l’anima che ogni singolo emigrato si porta addosso. La pena di vivere un amore non corrisposto. Il paradosso dei calabresi è che chi arriva riceve molte più cose che i calabresi per sé non hanno; i turisti trovano verginità e vecchi valori che la mia terra non ha ancora perduto. La mitica apertura dei calabresi verso chi viene da fuori non è leggenda; forse è l’orgoglio a renderci così generosi, vogliamo dimostrarti di possedere qualcosa, come a rivalersi di una fama che dice il contrario, come il contadino della mia infanzia, che non avendo quasi nulla, dava privandosi del proprio. Da giovane mi dava fastidio questo aprire le porte sempre e comunque a chi viene da fuori e dicevo a mia madre: << …… mangiano e bevono gratis e quando tornano nelle loro case continueranno comunque a chiamarci terroni con quel grande senso di disprezzo… >> Ancora adesso c’è questo rito, ti invitano in casa per offrirti di tutto, e intanto il vicino di casa guarda, poi prende coraggio ed entra anche lui in casa, si avvicina, saluta, e poi si porta lo straniero in casa sua, che alla fine fa il giro degli amici e non lo lasciano più andare via. Mi sono sempre domandato perché i calabresi fanno così? Forse perché hanno un bisogno assoluto di sentirsi amati e non disprezzati come ancora accade, è come se dicessero invitandoti << vorrei che tu mi volessi bene, e allora faccio di tutto perché sia così >>. Noi calabresi siamo eccessivi in ogni cosa, nella generosità, nell’orgoglio, nell’onore, nel rancore, negli odii che sono andati e vanno avanti per generazioni. Tutte le mattine passando col dito i profili della mia terra, riaffiorano spunti di memoria che non devono andare perduti li conservo parlando pure da solo il dialetto o rivolgendomi agli uccellini in gabbia, una tradizione che ho avuto da mia madre, con la speranza in cuore che esista ancora la fonte a cui mi dissetavo da bambino a Orti o a Gambarie, che esista ancora quella spiaggia e quei massi in mezzo al mare su cui ci passavo le ore fantasticando di raggiungere l’isola dei miei sogni, o quei campi con le margherite. Quella era casa mia, la Calabria che vorrei ritrovare tornando a casa.