La certezza di trovarti sempre
Quante volte disegnai su fogli strappati da vecchi quaderni, la rosa dei venti. Immaginavo che il suo centro fosse nel mare di fronte casa; avevo letto da qualche parte i nomi dei venti, Libeccio, Scirocco, Grecale, Maestrale, solo a pronunciarli mi sembrava di leggere nomi di nobili cavalieri. Lo sono. Ascoltando i racconti del mare di vecchi pescatori dal viso e mani segnati dalla salsedine, imparai che il Libeccio era un vento che giungeva dalla Libia, e porta con se il profumo dei gelsomini, lo Scirocco dalla Siria, che imbianca le città di sabbia dei deserti, Il Grecale che dalla Grecia porta l’aspro odor di salsedine e il Maestrale che da Roma lascia nell’aria l’essenza dell’ulivo. Nel mio pensiero c’è il mare che amo e che ho sempre guardato non come un nemico ma come un’immensa via senza confini, ne incroci, di ogni direzione per un qualsiasi approdo, per meditare e rigenerare lo spirito, l’anima inaridita dalle asprezze della vita. Il mare dunque altro non è che un “ viaggiare” di ogni esistenza in ogni esistenza, è “ approdi” continui ai lidi più distanti dell’anima, per sfuggire all’esperienza inutile dell’uomo-scatolone che si porta ovunque cose senza valore. Quel mare l’ho attraversato. Un giorno quando partii per un altrove che ci avrebbe per sempre separati. Lo salutai dal finestrino di un treno che sferragliando si allontanava e si riavvicinava, io sapevo che non sarei più tornato. Non sapevo e non conoscevo cosa sarebbe successo nella mia esistenza. Lo guardavo quel mio mare e sentivo in me un qualcosa che mi sussurrava che non tutto era andato perduto, solo se lo avessi voluto, solo se avessi saputo guardare attentamente oltre il muro del niente, avrei potuto trovare la strada di casa, quella strada che credevo di aver perduto per sempre. Un giorno in vela, erano allora i viaggi dell’anima, dettati forse dal mio settimo senso: l’altrove. Ma anche per allontanarmi da lei che sapeva come inchiodarmi su una sedia con i suoi occhi accesi dal mio sentimento che mi faceva paura: Andreas. Non era paura di amarla, era semmai consapevolezza che se fossi rimasto sarei di sicuro annegato nel suo calore, nel suo amore. Di notte davanti alla costa Greca, al largo di Zante e di Cefalonia, Itaca, sentii in me lo stesso terrore che provò Ulisse nel trovarsi al centro del Mediterraneo, e alle sue preghiere affinchè sopraggiungessero le prime luci dell’alba mentre pensava a Itaca che si allontanava sempre più dai suoi occhi. Ma era allo stesso tempo ” un ritorno” a casa, uguale al viaggio da un remoto verso il centro dell’esistenza. Io stavo fuggendo come Ulisse, da un amore diventato fiume, poi mare, fin sulle soglie di un mare vero: Andreas! Dagli occhi verdi, come il vestito di quel giorno che venne incontro dicendomi t’amo; intimorita e ferita si muoveva tra boma e cime attenta a non cadere, a non tornare. Io intanto mi ero incanalato in un viale del tramonto con tutta la mia storia di vita, coi grandi silenzi che hanno tenuto al riparo il cuore; ancora oggi continuo a non capire cosa sia la vita, il suo cercare di sorprenderci ogni giorno a guardare oltre un orizzonte proprio come lei, Andreas davanti ad un mare al tramonto. La vita, come il mare lo guardi ed è sempre diverso dal giorno prima, da anni , da sempre, come i colori, il suo moto in apparenza simili ma mai uguali. Come i miei ritorni fra le braccia di Andreas delle maree. E’ l’amore a rassomigliare tanto al mare e io la sente dentro come una melodia, non la racconto si direbbe che sono pazzo, la scrivo e sogno ancora, e se sogno vorrà dire che sono rimasto bambino, allora sono …… già certo di trovarla al mio ritorno da Itaca .