Zungri, lo scrittore Francesco Bevilacqua propone l’oikofilia

Il futuro della Calabria passa attraverso il ritorno alla memoria, alla bellezza dei paesi, del paesaggio e dei luoghi, in un rinnovato legame con gli uomini e la loro cultura. Il senso dell’incontro che è stato vissuto a Zungri sabato 8, nel pomeriggio (piazzetta Madonna della Neve), si intreccia con il destino di una terra come la Calabria. Lo ha spiegato con straordinaria passione etico- civile, sensibilità umana  e visione geo-antropologica, un protagonista del rapporto con i luoghi, come Francesco Bevilacqua (naturalista e autore di numerosi guide sulla Calabria, libri di viaggio e saggio-racconti come “Genius Loci” e “Sulle tracce di Norman Douglas”). La sua lectio magistralis sull’importanza di mettersi in ascolto con l’anima dei luoghi, ha avuto come motivo ispiratore l’insediamento rupestre di Zungri, “le grotte degli Sbariati”, (immagine-metafora del disorientamento dell’uomo che ritrova la sua nuova dimensione esistenziale e topografica), uno dei più importanti della Calabria, assurto da qualche anno all’attenzione nazionale. L’intervento di Bevilacqua ha coronato l’incontro organizzato da Italia Nostra, sezione di Vibo Valentia, con la partecipazione di Eugenio Sorrentino (responsabile presidio di Italia Nostra di Zungri), del sindaco dell’amministrazione comunale Francesco Galati, dello scultore Michele Zappino e del giovane scrittore Francesco Marchetti.

 Lo scrittore e ambientalista ama definirsi un medico specializzato a curare una malattia di cui i calabresi ancora non sono riusciti a guarire: il “coma topografico”, ereditato dalla malaria, che ha generato “l’amnesia dei luoghi”. Questa malattia è la principale causa della distruzione del paesaggio e della memoria dei luoghi producendo scempi, disastri e una “periferia apocalittica”. Lo si vede lungo la costa e nelle periferie di città come Reggio o nello stesso capoluogo Catanzaro, devastato da una cementificazione che ha massacrato l’identità storica e geografica, e ci si rende conto di che cosa, negli ultimi cinquant’anni, è stato capace di partorire il genio architettonico calabrese. La causa di questi tremendi disastri inflitti al paesaggio è da rintracciare, come ha spiegato Bevilacqua, nell’illusione della industrializzazione e nel complesso di inferiorità di cui il calabrese è affetto. Lo aveva sottolineato Giuseppe Berto nei primi decenni degli anni ‘70, periodo in cui era incipiente la distruzione della eredità millenaria della civiltà contadina. I diversi articoli scritti che lo scrittore veneto, a cento anni dalla sua nascita, ha dedicato alla Calabria, hanno prefigurato il presente e sono una chiave di lettura emblematica delle dinamiche autodistruttive e autolesioniste dei calabresi, i quali hanno fatto di tutto per annientare la loro memoria e la bellezza del paesaggio. Ne “La ricchezza della povertà” del 1972, Berto, in un passaggio non lascia dubbi:“La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità dei mezzi rende più potente il disonesto …” e prosegue: “Ora, la civiltà contadina era sì miseria, denutrizione, malattie, analfabetismo, esuberanza sia di nascite che di morti, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente esprimeva  nel parlare, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile, in una terra che di materie prime scarseggia. I calabresi si sono messi con grande energia a distruggerla: in questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali”.

Lo scenario apocalittico evocato da Bevilacqua non è certo un iperbole semantica o frutto di una certa propensione al catastrofismo millenaristico, ma ha l’efficacia di risvegliare le coscienze addormentate su quello che potrà accadere in breve se non si ritorna indietro, se non si ferma lo scempio che continua inesorabile, sia nei confronti del paesaggio rurale che nell’anima delle persone inquinate dall’egoismo, dalla mancanza di coscienza civica, e animati da un consumismo sfrenato che ha determinato una mutazione antropologica della società, e non solo calabrese, come aveva scritto Pier Paolo Pasolini negli stessi anni in cui Berto lanciava questo disperato grido dalla Calabria. Bisogna riappropriarsi del bene comune, di una vocazione che con un neologismo, Bevilacqua chiama “oikofilia” per riannodare i legami perduti tra uomini, territorio e  luoghi; con altre parole, è fondamentale che le persone guardino ai luoghi con “gli occhi della sacralità” per ricreare “l’idillio rurale” perduto e ritornare alle tradizioni, all’accoglienza, ai volti delle persone. E per fare questo è necessario dare vita ad una “clinica dei risvegli dall’amnesia dei luoghi” di cui è particolarmente contaminato il popolo calabrese. Altrimenti non si potrà mai vivere con un autentico orgoglio nei tanti paesi come Zungri, che ancora, per fortuna, hanno conservato un’anima, e questi paesi – ha osservato lo scrittore – rappresentano i veri scrigni della Calabria.

Le parole di Francesco Bervilacqua così cariche di suggestioni culturali, emotive ed estetiche, sono state un inno ad amare la bellezza del paesaggio e alla riscoperta dei luoghi e del sublime, ma sono state anche un racconto poetico ed “epico” della sua erranza, 35 anni di peregrinazioni alla scoperta del misterioso fascino che sanno emanare la natura, i luoghi e il paesaggio calabrese, rivendicando la sua programmatica estetica della “provincialità”, che trova corrispondenza nelle parole di Ernesto De Martino: “Coloro che non hanno radici, e sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria”.

Ad introdurre l’incontro Eugenio Sorrentino, con una approfondita relazione sul tema “L’insediamento rupestre di Zungri e lo sviluppo sostenibile dell’area del Poro”, mettendo in luce le potenzialità che ha il sito. Sorrentino ha sottolineato come negli ultimi anni, l’insediamento rupestre sia diventato meta di un numero sempre crescente di visitatori italiani e sopratutto stranieri, unitamente all’annesso museo della civiltà contadina, in cui sono esposti attrezzi e strumenti agricoli, arredi ed altri reperti in gran parte spontaneamente donati dalla popolazione zungrese. Queste presenze turistiche avvengono nel periodo primavera-estate, in coincidenza e come conseguenza dell’avvio della stagione turistica lungo la vicina costa tirrenica, ma che non hanno determinato finora una corrispondente ricaduta in termini economici o di arricchimento umano e sociale. Il sindaco Francesco Galati, nel suo intervento, ha dato notizia di tutte le opere in cantiere per dare una maggiore visibilità all’insediamento rupestre sia sotto il profilo dell’accessibilità e della sicurezza che per quanto riguarda la fruibilità turistica e culturale del sito, che ha un utenza di oltre 20 mila visitatori l’anno, e che è rientrato tra i più importanti siti archeologici della Calabria. Infine sono intervenuti l’artista e scultore Michele Zappino, il quale ha sottolineato il legame che negli anni ha stretto con Zungri, nonostante la sua attività per tanto tempo si sia svolta a Milano, un rapporto con il suo luogo di origine che ha prodotto un laboratorio–museo in cui lo scultore ha raccolto tante sue opere, mettendo in luce l’importanza del legame con le radici culturali che l’insediamento rupestre testimonia nella sua ispirazione artistica ed espressiva. Infine l’intervento di Francesco Marchetti, scrittore che vive a Milano ma le cui origini sono di Zungri, che ha posto l’attenzione sull’uomo e sulla necessità di recuperare l’ascolto in cui riscoprire il valore antropologico che è dentro l’anima dei luoghi, come espressione dello spirito autentico delle persone che vi abitano.