La riscoperta del dialetto, il Calabrese lingua vera per struttura e nobiltà

 Nei giorni scorsi a Crotone si è parlato di dialetto. Lo hanno fatto gli amici dell’Associazione “Dante Alighieri” che nel 16° appuntamento con la cultura tutta all’insegna della Calabresità hanno organizzato un incontro con il poeta crotonese Bruno Tassone il quale ha intrattenuto il qualificato uditorio con “Dialettando”, una carrellata di poesie e aneddoti in vernacolo crotonese. Tassone scrive da sempre in lingua ed in vernacolo, e molti, anche giustamente, lo ritengono la “voce” del dialetto crotonese. Ha dalla sua, in più, il vantaggio di conoscere e parlare anche il dialetto dei suoi genitori, quello di Serra San Bruno, che ne ha la più alta espressione nel poeta-scalpellino Mastro Bruno Pelaggi di fine ‘800. Non bisogna sottacere, inoltre, che il Tassone ha avuto il coraggio, si fa per dire, di andare a declamare la nostra lingua nella tana del lupo, nella Padania di un certo Bossi.

L’incontro della Danta Alighieri mi induce a qualche riflessione da proporre ai nostri lettori forse distratti da certa esterofilia e ai tanti detrattori del dialetto ed anche “interpreti” di una lingua italiana che offende la nostra storia. La differenza fra lingua e dialetto è di natura essenzialmente pratica e non scientifica, anche se si prendono in considerazione caratteristiche come la fonetica, la morfologia, il lessico e la sintassi. Giovanni Alessio, già ordinario di glottologia all’Università di Sofia e di Napoli, annovera tra i dialetti calabresi il reggino, il catanzarese e il cosentino, insomma tre aree ben distinte. Quindi traccia un confine tra i dialetti calabresi neolatini o romanzi e le isole alloglotte, cioè il greco bizantino  o grecanico di Bova, l’albanese o arbresh della tipica area cosentina e dell’alto crotonese e l’occitano di Guardia Piemontese e conclude che: “sotto la dominazione bizantina, il greco, lingua dell’Amministrazione e della Chiesa finì con l’affermarsi sul latino senza però soppiantarlo e senza che esso si sia innestato su sopravvivenze del greco della Magna Grecia, che otto secoli di dominazione romana aveva fatto del tutto scomparire.” Anche per il Rohlfsla Calabrianon costituisce “né un’unità etnografica né un’unità linguistica”, essendo molto profondo il contrasto nei rapporti linguistici e di costume, a causa del diverso sviluppo storico della civiltà registrato nella Calabria Citeriore e in quella Ulteriore. Tuttavia nella Calabria centromeridionale la grecità si è sviluppata senza interruzione sin dal tempo dei primi coloni poiché ”l’antico ellenismo,trasformato man mano in linguaggio volgare, ha potuto mantenersi saldo e forse per tutti i secoli dell’impero romano fin oltre il periodo della dominazione bizantina.” Comunque aldilà dell’unitarietà o meno, il dialetto calabrese è esploso, in termini di diffusione, perché ha in sé una struttura che le deriva da un passato di civiltà ineguagliabili e latore di temi che seppur poveri hanno la nobiltà di intenti. Questi temi son tornati d’attualità sotto l’onda della riscoperta del cosiddetto linguaggio delle classi subalterne, cioè del solito dialetto che è stato per secoli il mezzo di comunicazione unitario delle nostre popolazioni. Certamente l’uso, divenuto via via più frequente, del dialetto nella prosa narrativa, come in Gadda, Moravia, Pasolini, Camilleri, dopo gli esempi più illustri, anche se distanti, di Verga, Capuana e De Roberto, veniva interpretato come indice sintomatico della crisi irreversibile della lingua colta in relazione al declino della società borghese. Una crisi, si diceva, che riproduceva sul piano linguistico il conflitto, in atto, tra borghesia e proletariato. Insomma la levata di scudi dialettale, altro non è stato se non l’esigenza, vitale e frustrata, di riappropriarsi delle proprie radici. E però questo fenomeno viene datato già nel secondo ‘800 per evidenziare, poi, il massimo della sua esplosione nel ‘900. Sono gli anni in cui il dialetto non è solo espressione del popolo rurale e artigiano, ma diventa proprietà anche della classe borghese. Ormai sono medici, avvocati, notari e maestri elementari che scrivono in dialetto e davvero per riappropriarsi delle proprie radici ed essere sinceramente più vicini a tutta la gente comune. Insomma dare voce alla classe subalterna. E i temi trattati ne sono la conferma. Sono i canti d’amore e di sdegno e non sono “assenti – scrive Pasquino Crupi – i motivi faceti e arguti, riconducibili all’area non lamentosa della civiltà contadina”. E ancora, l’infanzia negata, la povertà senza confini, l’emigrazione forzata, le piccole realtà aggrovigliate da una quotidianità traviata che non conosce pace e via via su questa scia. Insomma temi che la letteratura in lingua se non negava neanche palesava.