Finanziamento regionale per valorizzazione area archeologica di Cirò Marina. Quel che resta della riscoperta di Paolo Orsi

Chi si porta oggi a Cirò Marina e seguendo la cartellonistica raggiunge la costa a nord della cittadina sperando di ammirare il tanto segnalato e pubblicizzato “Santuario di Apollo Aleo”, ne resterebbe di sicuro profondamente deluso. Perché è vero che si è ammaliati dal bel paesaggio costiero su un angolo di mare davvero suggestivo con i ruderi della Torre Vecchia del XVII secolo ancora in piedi, la chiesetta pur povera di Madonna di Mare e i misteriosi edifici dei Mercati Saraceni, ma…del santuario greco solo quattro pietre squadrate e nulla di più e per giunta di nuovo affossate da terra ed erbacce. Lo si scopre solo perché  vi è un vecchio cartello stinto che te lo indica. Altrimenti! Ma come si è arrivati a queste quattro pietre squadrate?  Beh se non fosse stato per la campagna di scavi archeologici in Calabria e nella fattispecie quella del1924 aCirò Marina voluta e materializzata dall’archeologo di Rovereto Paolo Orsi, all’epoca Soprintendente all’Archeologia con sede a Siracusa, probabilmente non lo avremmo mai saputo. Di quella scoperta e di quegli scavi l’Orsi aveva lasciato una monografia anch’essa andata dispersa nel tempo, opera ormai introvabile o quasi. Quasi, perché grazie al Lions di Cirò Marina che, nel 2004, ne hanno realizzato una ristampa anastatica per l’edizioni del calabrese Laruffa, oggi possiamo ripercorrere ciò che a partire dall’aprile del 1915 Paolo Orsi aveva scoperto in questa desolata landa paludosa. Si tratta del lavoro tematico “Templum Apollonis Alaei ad Crimisa promontorium” con illustrazioni di Rosario Carta, assistente dell’Orsi. Il tempio dedicato ad Apollo Aleo, edificato in epoca brettia nel sec. VI a.C. come spazio di culto pagano indigeno, già all’epoca dell’influenza magno-greca risultava un santuario isolato giacchè, scrive Orsi, “Crotone è troppo discosta da Cirò Marina, perché si abbia a pensare con fondatezza ad una diretta relazione fra santuario e città; e d’altro canto, la piccola città che io credo di riconoscere a Cirò superiore non è nemmeno una polis greca, ma una cittaduzza mixobarbara di indigeni, a cui si sovrapposero elementi greci in tempi oscuri assai: intendo alludere alla piccola Crimissa, la cui storia è tutta un mistero, e che mai rappresentò una parte significante nelle vicende politiche della regione.” Il tempio dapprima edificato in legno con fondamenta in pietra, sorgeva  in località Mesola, Isola di San Paolo, ad ovest della Punta Alice di oggi (la greca Punta d’Haleo, “la punta infuriata”, dall’etimo “haleos”, “arrabbiato”, “infuriato”), allora “Crimisa Promontorium [che] ebbe nell’antichità e soprattutto per le più remote navigazioni, un’importanza di primissimo ordine, oggi perduta, e che nessuno avverte percorrendo rapidamente in treno la costa monotona e quasi uniforme…Il suo tempio non fu soltanto un ricordo storico – religioso di assai remote navigazioni, ma un faro ed un semaforo ai marinai che traevano dalle opposte rive italiche e greche. Giova pertanto tenere presente la funzione storica e marittima di questa prominenza e del suo santuario.” È davvero ammaliante e coinvolgente l’incipit dell’Orsi verso il ritrovamento di quel che rimaneva del tempio. È una descrizione minuziosa, che ti par d’essere con lui nell’attraversare questo tratto di costa, una descrizione con dovizia di particolari che tanto servono oggi allo studioso o al semplice curioso. Mi piace definire l’Orsi un diarista puntiglioso e preciso che ti prende per mano e ti guida nella Calabria greca di allora. E continuiamo a farci prendere per mano dall’archeologo di Rovereto. Doveva essere davvero isolato il Tempio di Aleo se l’Orsi mostrava qualche difficoltà nella localizzazione e se neanche il guardiano del faro seppe dargli indicazioni almeno approssimative. Già perché  per “il vecchio lanternaio, nulla di antico si trovò quando un 30 anni prima del 1915 si era fabbricato il Faro, e nulla nella circostante brughiera, che egli, cacciatore impenitente, batteva da oltre un quarto di secolo. Percorsi anche i 4 chilometri che separano il Faro dalla Marina di Cirò, attraversando i mammelloni della spiaggia, che velano una bassura palustre e acquitrinosa, scrutando le piccole frane, assumendo informazioni da caprai e da villici senza raccogliere il più tenue indizio, che mi confortasse a sperare.” In questa difficile ed impossibile opera di recupero, in questo cammino impervio e che non dava segni di speranza, l’Orsi non si trovò solo. Gli fu a fianco un cirotano doc, quel Luigi Siciliani profondo cultore di cose greche e “Sottosegretario di Stato alle Belle Arti”; i due erano accomunati dall’interesse per il tempio ma li separavano le idee e le supposizioni circa la localizzazione dello stesso. Per qualche anno l’Orsi rinunciò all’esplorazione convinto com’era dell’impossibilità dell’erezione di un tempio in un sito paludoso e per nulla visibile ai naviganti. Ma l’arcano mistero fu svelato subito nel primo dopoguerra allorquando è stata progettata la grande opera di bonifica agraria e sanitaria su tutta la costa paludosa e malsana della Calabria e quindi anche l’area di Cirò Marina. Alla fine dei lavori vennero alla luce i ruderi della pianta del tempio di Apollo Aleo. Guarda un pò, l’edificio era ubicato proprio sotto il pantano e sicchè l’Orsi relativamente smentito, perché “il tempio per quanto basso, doveva essere bene in vista ai naviganti; la condizione panoramica del luogo fu pertanto profondamente turbata, forse da movimenti bradisismici, certo dalla fondazione delle dune, avvenuta nei lunghi secoli medievali, dopo il completo abbandono da parte dell’uomo.” Da quei lavori di bonifica venne fuori un cospicuo numero di reperti depositati nel vicino castello Sabatini e dall’Orsi visionati nel 1924. Si tratta, tra l’altro, di cinque capitelli dorici in calcare bianco, rulli di colonnine che dovevano far parte del peristilio e raccolti nell’area detta “abitazione dei Sacerdoti”. Da un’indagine più avanzata altro materiale si rinvenne: una maschera di terracotta, un piedistallo, monete di bronzo, frammenti della parrucca di bronzo e statuine, ma soprattutto, tra il tanto, il reperto sicuramente più famoso, il “grande idolo acrolito”, la testa di Apollo Aleo che oggi la si può ammirare nelle sale del Museo Nazionale di Reggio Calabria. L’ acrolito doveva far parte di una imponente statua marmorea di oltre due metri di altezza. La descrizione, da pag. 135 e segg., di questa austera opera d’arte litica la risparmio perché il lettore non ne perda il buon sapore della scoperta e per lo stesso motivo mi esimo da ulteriore commento del libro. Solo un’ultima considerazione: con gli scavi di Cirò Marina finiva l’attività calabrese dell’Orsi e dopo l’Orsi il diluvio e per molti anni, privati come siamo stati di altre campagne di scavi. Comunque sia, quel che oggi ammiriamo nei siti archeologici della Calabria lo dobbiamo a Paolo Orsi. Orbene, è salutato con vivo compiacimento il finanziamento, deliberato nei giorni scorsi dalla Regione Calabria, di 700 mila euro per un progetto per la valorizzazione e sistemazione dell’area del tempio di Apollo Aleo di Cirò Marina. Se son rose fioriranno!