Angelo Semeraro poeta e archeologo

Si è conclusa con successo, il 30 settembre, la Giornata di Studi tenutasi a Paganica, popolosa frazione dell’Aquila, nell’ambito delle “Giornate Europee del Patrimonio 2012”,  per ricordare a 20 anni dalla scomparsa Angelo Semeraro (Sulmona, 1906 – L’Aquila, 1992), letterato e archeologo. L’iniziativa, sotto l’egida della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo e della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, ha visto la partecipazione ai lavori di studiosi e autorità, oltre che di un pubblico attento e partecipe. Dopo il saluto portato al convegno dal vice Presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo, Giorgio De Matteis, e dall’assessore alla Cultura del Comune dell’Aquila, Stefania Pezzopane, alle ore 10 sono iniziati i lavori, coordinati da Walter Capezzali, presidente della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, con le relazioni di Raffaele Alloggia (studioso di storia locale), Walter Capezzali (giornalista e scrittore), Liliana Biondi (Università dell’Aquila), Franco Villani (autore e regista teatrale) e Goffredo Palmerini (scrittore), che hanno tratteggiato Angelo Semeraro sotto l’aspetto letterario, sociale e umano. Nel pomeriggio i lavori, coordinati dall’archeologo Vincenzo D’Ercole (Ministero Beni Culturali), hanno riguardato la figura di Angelo Semeraro “archeologo”, in riferimento alla collezione di reperti preistorici e protostorici che egli ha donato alla comunità paganichese e che presto dovrebbero essere allestiti a museo nel Palazzo Ducale di Paganica. Il contesto territoriale, dal punto di vista archeologico, e la collezione Semeraro sono stati oggetto delle qualificate relazioni di Silvano Agostini e Maria Adelaide Rossi (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo), Massimo Pennacchioni (Università di Roma Tre), Vincenzo D’Ercole (Direzione Generale per le Antichità Mibac) e M. Georgia Di Antonio (Università di Chieti-Pescara), Andrea Simeoni e Eugenia Cesare (Università di Roma Tre), Alberta Martellone (Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei), Veronica Quintili (Università di Chieti-Pescara), Serafina Pennestri (Direzione Generale per le Antichità Mibac), Fabio Redi (Univesrità dell’Aquila). I lavori si sono conclusi, dopo un interessante dibattito, alle ore 19. Dell’intensa giornata di studi si riporta, qui di seguito, la puntuale relazione della prof. Liliana Biondi, docente di Critica letteraria e Letterature comparate presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo aquilano, sulla poesia di Angelo Semeraro, autore di 32 volumi di liriche, in vernacolo e lingua.

Goffredo Palmerini

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LA POESIA DI ANGELO SEMERARO

di Liliana Biondi

A venti anni dalla morte del suo diletto Poeta – “Ju poeta” per antonomasia per i paganichesi -, Paganica  sceglie le Giornate Europee del Patrimonio 2012, che si tengono contemporaneamente in cinquanta Paesi europei, per celebrare la memoria di Angelo Semeraro attraverso l’indagine della sua opera letteraria e della sua passione archeologica. Alla celebrazione partecipa anche il Ministero dei Beni culturali d’intesa con la Soprintendenza  Regionale dei Beni Archeologici d’Abruzzo, con il supporto della Direzione Regionale dei Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo e della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, con il patrocinio di Regione, Provincia e Comune dell’Aquila e con l’organizzazione di Infomedia Group Srl.

Sulmonese (per caso) di nascita e di origini pugliesi per via paterna, Semeraro ha “sentito” Paganica essere la propria terra d’elezione, quella dove ha voluto riposassero le sue spoglie, e deputata ad  ereditare il suo patrimonio archivistico, librario ed archeologico. Paganica è d’altronde luogo ricco e generoso di belle personalità di spicco: dall’amico Goffredo Palmerini alle altre, tante, 38 in particolare, che si sono succedute nel tempo e che egregiamente Alvaro Jovannitti ha tratteggiato negli anni 2003-2007 sul mensile “ Il Punto” e che Errico Centofanti, ha raccolto e curato con solerzia nel volume Personalità e personaggi di Paganica (Amm. Provinciale dell’Aquila, 2007).

Una lunga vita, quella di Angelo Semeraro, che attraversa l’intero Novecento (nasce il 24 giugno 1906, si spegne il 2 settembre 1992). Due guerre mondiali, il capitalismo e il potere dei sindacati, il Concilio Vaticano II che rivoluziona la Chiesa, l’abbandono delle campagne a favore delle fabbriche, la contestazione giovanile, il terrorismo; e tra i diritti acquisiti: scuola dell’obbligo, università di massa, divorzio, aborto. Questi, per sommi capi, gli esiti sociali più evidenti in Italia, che Semeraro certo non disconosceva. Ma egli era uomo di fede profonda, buon conoscitore delle Sacre Scritture e di opere agiografiche, attento lettore dei classici letterari, scrupoloso studioso della storia, appassionato archeologo, accorto viaggiatore, vigile osservatore, versificatore fecondo, fecondissimo.

Eppure non era un professore. Forse, accanto agli stimoli che gli erano pervenuti fin dall’infanzia attraverso la risonanza di alcune personalità della sua terra salite alla ribalta della cronaca per motivi vari, e di cui ascoltava parlare in famiglia e fuori, va posto anche il suo ruolo di carabiniere prima e di funzionario della Previdenza Sociale dell’Aquila poi: dati, che contribuiscono a sensibilizzarlo nella valutazione e nella penetrazione dell’uomo e della società del tempo cui  egli spesso si rivolge nella sua opera creativa con lo scopo di scuoterli e migliorarli. È quanto dichiara senza sottintesi al suo interlocutore, Raffaele de Pintucciu, in una poesia in dialetto, giocosa ma pensosa, La puesia capovota (Nu piattucciu de mmestecanza, Marinacci, L’Aquila 1979), dove, come dice bene il prefatore Giuseppe Antonio Mariani «C’è tutto Semeraro: satirico e lirico, insieme»: «Raffaè, la puisia è ‘na cosa / che te’ ‘n’obbligu solamente: / quiju de fa’ refrette chiunque,/ e refrettenno  trovà  le maniere / che ajuteno ‘u prossimu a campà». (Raffaele, la poesia e una cosa che ha un unico dovere: far riflettere chiunque e trovare quei  precetti che aiutano il prossimo a vivere).

Un percorso poetico-letterario, il suo, sessantennale, in lingua e in dialetto, ma unitario e coeso nei motivi tematici, che si racchiude, per l’edito, in 32 testi di varia estensione. «Poeta dalla vena facile» lo definisce Lina Laganà in Guazzabuglio di una notte di mezzo agosto (1976). Verissimo, se si pensa che la sua prima poesia risale all’ottobre del 1915, quando a 9 anni e allo scoppio della I guerra mondiale scrisse, con stupore e lodi della sua maestra:  «Oh Signore che sei tanto potente / i nostri cuori copri col tuo manto, / e fa che siam vincitori del guanto / che il barbaro nemico ci dié». Versi che hanno in nuce sferza e mitezza, fede, preghiera, speranza, umanità, senso della giustizia: le impronte del poeta futuro che si sente essere anche educatore. L’ iter poetico di Semeraro si apre ufficialmente nel 1929 con Voli nel turbine, un titolo antitetico (con il volo che è ampio e regolato, e il turbine che comprende in sé la vorticosità), che evoca immagini dantesche o futuristiche o allusive del clima politico; nella silloge, invece, si respira un tono sentimentale e crepuscolare: il poeta ventitreenne si sente infatti «nomade oscuro d’una vita oscura / d’una esistenza sempre più pesante /e vado e piango e spero /nomade errante di un desio errante». I desideri sono quelli d’amore, e tutta la raccolta traspira amore per Fiorella, Wanda, Lidia, Menica, Vincenza.

La sua attività poetica si conclude, poi, con Celestino V. Un Santo allo specchio della storia, edito nel 1989,  ma, sembra – da quanto egli scrive – concluso nel 1983, all’indomani della reintroduzione, all’Aquila, su progetto di Errico Centofanti, dei festeggiamenti solenni della Perdonanza Celestiniana. Poema bello e straripante, che meriterebbe approfondite indagini di studio: migliaia di versi, perlopiù endecasillabi sciolti e settenari per 155 canti. In particolare: 148 canti narrano dettagliatamente, tra documenti storici, religiosi, geografici, agiografici e letterari, mediati dall’immaginazione, l’intera vicenda di Pietro dal Morrone, dal romitaggio alla santità; altri 4 canti commentano e confutano, in appendice, i versi danteschi sul gran rifiuto, e visto che, scrive Semeraro, «si rinuncia a quel che si possiede /e si rifiuta quel che non s’ha» (c.153, p.291), egli esprime, sempre in poesia, anche la propria lettura interpretativa dei versi danteschi, ipotizzando chi essi nascondono,  e non è affatto una congettura peregrina; infine altri 3 canti commentano il testo della Bolla di Celestino riportato anch’esso in appendice, insieme alle cinque Laudi e all’Inno che la letteratura tramanda, fino ad inneggiare alla felice reintroduzione dei festeggiamenti solenni della Perdonanza aquilana, nel 1983, grazie, rispettivamente, al «grande regista: Centofanti», al «maestro d’arti belle» (il pittore Remo Brindisi), sotto il governo cittadino del sindaco Tullio De Rubeis, con la benedizione religiosa del cardinale Carlo Confalonieri: un’opera imponente, che da sola consegna Angelo Semeraro alla storia della cultura celestiniana, e non solo, accanto, e direi al di sopra, dei tanti altri aquilani ispirati dalla vicenda non sempre chiara della vita e della morte del Santo: da Errico Centofanti, a Angelo De Nicola, a Stefania Di Carlo a Maria Grazia Lopardi, per nominare i più noti che gli sono succeduti.

Se dovessi definire Semeraro con una stagione, essa è sicuramente la primavera: «primavera odorosa chiara e bella» (Le promesse dell’alba, 1975, p.113);  se con un colore, questo è l’azzurro, anche quando è sottinteso (si pensi a quando Pietro dal Morrone nel tragitto verso L’Aquila «del mare lo avvinse la visione» (Celestino V, c. 41, p.72), altrove definita «l’azzurra distesa». Simbolicamente basterebbero questi due termini: primavera e azzurro, ricorrenti in tutta l’opera, per inserire la sua poesia nel filone della speranza che anela all’infinito. E tale essa è, perché il sentimento della fede cristiana costituisce il filo rosso che attraversa, evidenziato, tutta la sua produzione. E, più che cercatore di Dio, Semeraro si mostra vero fratello di fede che crede. Non per altro suo modello ispiratore è Dante, l’eco del quale pervade l’intera sua opera.

Poeta etico-religioso, quindi, questa la mia più ferma impressione. Poeta narratore, spesso di viaggi: al castello di Gradara con Paolo e Francesca (1971), in Puglia, con Puglia gentile (1986); e di pellegrinaggi: a Lourdes, con la silloge Amor mi mosse (1964),  nei luoghi francescani reatini con Franciscalia reatina (1972). Poeta narratore di storia e personaggi:  come Io e il Guerriero (1980) sul ritrovamento archeologico del Guerriero di Capestrano; Fra Ginepro (1981), un po’ orazione e un po’ filippica verso i tempi moderni; il poema già citato su Celestino V). Poeta osservatore dell’uomo: sì, certo, dei concittadini, soprattutto quando nella scrittura elegge il dialetto, la lingua materna, il paganichese; e li cita in versi e in rima – rarissima solitamente in lui -, per nome, in Chi ci stea a La Festa de S. Giovanne:  «N-c’era Ughettu e mastr’Achille / Co Ggiovanne ‘e parnanzonu, / Co Ciccigliu deiju Vinnole / E tre figli de Spacconu. Po Colombu, Gioacchinu / Pietre ‘e Zocchiu, Battistegliu, / Luiggittu, Paulinu,  Mario, Peppe e Donategliu»;  ma osservatore soprattutto dell’uomo contemporaneo, della società che dopo due guerre mondiali, vive l’epoca della contestazione giovanile, del cambiamento,  di una inversione in campo di valori morali, del terrorismo, della morte di Dio: «Ogni fascino è perso. Dalla serra / più non spargono i petali profumo. / La potenza s’inverte….Giunge tronfio l’eccesso a un punto tale / che perfino la guazza fa da orpello /  nell’orgia degli ammassi, dentro i quali / la creatura insulta il Creatore. / Gomorra dalle ceneri risorge. / La mente è surclassata dalla macchina. / I figli li ammannisce la provetta» (Le inversioni, in I giganti di creta, 1971, p.19).

Lo sguardo di Semeraro non è quello del progressista, ma quello del dolente conservatore che si ribella al progressivo disfacimento sociale; dell’educatore che denuncia e fustiga,  ma solo con l’intento di ricondurre la società ai principi di eticità, di fede, di amore («E l’amore è scomparso» [cit., p.51]), con la speranza di richiamare a quel senso del dovere che i lunghi anni del capitalismo corrotto e della contestazione stavano spegnendo in favore dei diritti a tutti i costi: : «‘U capitale e ju  lavoru / ormai puzzeno de stantiu /pe’ le vidute de certi capocci,» scrive in  Nu piattucciu de mmestecanza, p.80). Quel senso del dovere  e della responsabilità che oggi con fatica stiamo tentando di recuperare per non precipitare.

Le sillogi I giganti di Creta (1971) soprattutto, che sottende la tragica evocazione dantesca di Capaneo, e Canto di Marzo (1978) hanno questo unico motivo sofferente e aggressivo,  dove la parola del poeta suona rampognante, ironica e persino sarcastica,  perché  intransigente è il suo richiamo a una rinnovata moralità in un’epoca in cui solo «chi non lavora mangia e beve…»( Canto di Marzo, p.13): Una macchina con l’alto parlante, / -nuovi muezzin del duemila /che da minareti di un metro / non gridano più per Maometto – / dice che un certo tal dei tali / -io non ne so la dottrina – / parlerà con un altro tal dei tali / alla folla in una piazza del centro. / Bisogna istruire gli ignoranti (ivi, p.11).

Certo, la poesia di Semeraro non nasce adulta. Sono percepibili nel tempo l’acquisizione di una maggiore padronanza del verso, col passaggio dal verso libero a un più frequente endecasillabo sciolto, e la sicurezza della parola e dei motivi. Ancora in Vaporetto, contenuto nella silloge del 1950 Filo di Arianna, si sentono nei suoi versi descrittivi e cadenzati, deflagranti echi decadentistici con forme onomatopeiche:  «Vaporetto: una nave / un aborto di nave / tuf tuf di macchina / ululare di sirena / campanello e ringhiere / irrequieto ogni tanto» (p. 45).

Più di un critico, perlopiù prefatore dei suoi libri, si è posto il problema di come e dove incasellare Semeraro nell’ambito della letteratura italiana del Novecento. Brutta abitudine tutta italiana. Nell’immenso magma della scrittura creativa del ‘900, alimentato dalla rottura delle regole metrico-stilistiche, che da Giampietro Lucini in poi apparentemente hanno reso più accessibile l’arte del poetare; magma, incrementato dall’accavallarsi di sempre nuovi premi letterari; moltiplicato dai mezzi telematici che abbattono le frontiere anche della cultura; con l’arte, che come la moda, si frantuma in mille rivoli intersecanti e dove a distinguersi non può non essere che chi sa crearsi uno stile proprio, una coscienza poetica filosofica, una simbologia personale, un tocco di autentica originalità; con una critica che sovrappone metodi su metodi fino a scompaginarsi e decretare la morte della critica, Angelo Semeraro, che pure ha pubblicato le sue prime sillogi, fino a L’onda inesausta del 1957 nel nord Italia (Milano, Bologna), forse anche con qualche ambizione, dal 1962, col suo Natale, eleggerà L’Aquila quale sede di stampa per quelle successive. Semeraro comprende forse quanto importante e gratificante sia una gloria più coesa e sincera tra i propri cittadini, anche se meno estesa, che essere un numero insignificante tra quelli incalcolabili che si perdono nel mare di una vana ricerca di successo; per quanto, riconoscimenti e premi, gli giungano oltre che dall’Italia: si ricordi il Premio “La penna d’oro” del Convivio Letterario di Milano per La bruschetta (Centofanti da L’Aquila, 1972), ma  anche dalla Francia e dalla Germania.

Conclusosi il ciclo vitale di Angelo Semeraro, ora che il tempo ha sedimentato la sua produzione edita e, se c’è, inedita, e l’epoca che l’hanno ispirata, è bene e giusto tornare più serenamente a rileggere la sua opera, per depositare nello scrigno dei valori che non muoiono le essenze del messaggio  della sua arte e delle sue ricerche archeologiche. Il 1973 registra una parziale linea di demarcazione nell’analisi critica dell’opera poetica di Semeraro, con lo scrupoloso saggio di don Mario Morelli – anche lui sensibile letterato e poeta -, Poesia di Angelo Semeraro (Bodoniana, AQ), corredato di una ricca, forse completa bibliografia fino allora, con elenchi di pubblicazioni sia in volume sia su rivista, del e sul poeta di Paganica. «Analisi critico-estetica e soprattutto psicologica», precisa Morelli, il quale riconosce che la poesia del Nostro rappresenta «una spinta verso la purificazione universale. La storia, la religione, l’amore e il dolore sono le quattro soluzioni offerteci da un’opera di così notevole ampiezza» (p.45), scrive Morelli che le analizza, mettendo anche in luce, tuttavia, le visioni paesaggistiche presenti nell’opera: quelle reali, montane e no, come Monte Calvo, Corno Grande, le diverse fioriture nel Santuario della Portella, Vetta Cimaia, passo della Forchetta, le sorgenti dell’Aventino; o, San Clemente a Casauria, o dopo Campotosto, le sponde del Liri; o paesaggi che opere letterarie – come Firenze con Beatrice, Fiammetta, Arnolfo – e musicali – come le note di Chopin – gli evocano.

È interessante anche la rassegna critica che Morelli fa delle opere fino ad allora pubblicate dal paganichese, offrendo un significativo panorama di valutazioni obiettive: il suo essere antiermetico come sottolinea la rivista Arciere di Napoli,  il suo «dosato classicismo ed equilibrato modernismo» privo di «feticismo per il passato, né frenesia modernistica alla ricerca dell’originalità a qualunque costo», come scrive Garibaldo Alessandrini nella prefazione a Il rosario della speranza.. Ma giustamente, replica lo stesso Morelli, «forse il Semeraro non si è neppure posto il problema di creare – o crearsi – una corrente, scegliendo una via di mezzo: ha poetato invece come gli ha suggerito l’ispirazione» (Poesia di A.S., p. 91). E dopo aver brevemente colto la linfa delle singole valutazioni per lo più legate a singole sillogi, don Mario, dall’esame complessivo dell’opera di Semeraro fino a quel momento, riassume le sue impressioni coordinandole intorno a quattro condivisibili elementi: «assoluta indipendenza da ogni corrente letteraria o poetica, complessità e sodezza di pensiero, molteplicità di interessi, profondo senso unitario» (ivi, p.93); per concludere, di fronte ad alcuni giudizi effettivamente sovradimensionati, con un equilibrato: «A noi basta riconoscere l’autenticità della poesia e fermarci – pensosi e commossi – su tante pagine soffuse di luce interiore» (ivi, p.95).

Il decennio 1971- 1981 costituisce sotto il profilo editoriale un periodo fertilissimo con 16 pubblicazioni poetiche in lingua e in dialetto, con alcune sillogi – come Le promesse dell’alba (1975) -, che evidenziano una più coesa «maturità del suo pensiero», e uno stile rappresentativo di Semeraro uomo, il quale, con la sua «tormentata ansia religiosa per l’umana condizione terrena – scrive giustamente il prefatore Dante Pace – ha fatto della poesia un atto profondamente etico prima che estetico» (p.17). Si legga L’assurdo: «Adesso è bello /  far l’amore tra maschi oppur tra femmine, /  è bello rapinar, l’onore infrangere, / è bello contestar l’ortodossia /  della legge, del bene, del dovere. /  è bello aver diplomi senza studio, /  è bello far raccolti senza semine, /  è bello dire evviva al doppio gioco,  /  è bello che la casa vada in frana, /   è bello debellare tutto e tutti, / ed in ultimo poi, per totale / dei sarcasmi elencati e detti prima, / è bello, più che bello in assoluto, /  urlare a tutto spiano ai quattro venti / che l’io è diventato più di Dio» (Le promesse dell’alba, pp. 82-3).

Ma come ho detto, e con questo concludo, chi ama la primavera e l’azzurro, non può non essere aperto alla speranza. E di una speranza che s’innesta alla storia plurimillenaria, e perciò reale, ma anche personale, è anche quella con cui Semeraro intraprende il suo viaggio di ritorno nei luoghi aviti, nella Puglia paterna, “disteso” sul dorso «di un’aquila a me inviata da Giove / da un anfratto di Campo Imperatore» (metaforica unione di due luoghi reali a lui cari: quello pugliese d’origine e quello aquilano d’adozione, e ulteriore segnale dell’ispiratore modello dantesco): «Mi sono ubriacato di sole,/ mi sono ubriacato di mare,/ mi sono ubriacato d’amore./ Amore per la Puglia stupenda; / amore per le contrade che nel mito / trovano la loro essenza di essere» (p.13): sono i versi d’incipit della silloge Puglia gentile (1986), in cui storia, mito e memoria si compenetrano nei luoghi e nel cuore del poeta ed aprono alla speranza.

Una silloge ulteriormente ingentilita dalla raffinata e affettuosa prefazione di una persona sempre tanto cara al mio ricordo: il compianto amico e collega Francesco Di Gregorio troppo prematuramente scomparso agli amici e alla cultura.«Angelo Semeraro onora davvero “il culto dei ricordi” – scrive Di Gregorio -, convinto com’è che il nostro passato, il nostro presente e il nostro avvenire in esso e soltanto in esso / trovano il punto focale / per essere in maniera irrepetibile. […]. È una serenità classica quella di Angelo Semeraro; è la serenità di chi è nella condizione, filosofica oltre che poetica, di comprendere fino in fondo i valori imprescindibili dell’amore, della fratellanza della lealtà; e di chi, naturalmente, sa riproporli (ed ha il coraggio di riproporli) al mondo attonito di oggi, classicamente, in senso culturale, certo, ma anche ed anzi tanto più, in senso umano» (pp. 9-10). Parole che conservano interamente a tutt’oggi la loro autenticità e verità.