Balletto sulle Province tra cancellazione, riduzioni e salvataggi

A partire dal 2008 questi enti sembravano diventati il nemico pubblico numero uno tanto della destra quanto della sinistra. “Aboliremo le Province, è nel nostro programma” sentenziò Silvio Berlusconi il 10 aprile del 2008. Il suo avversario Walter Veltroni l’aveva già anticipato. “Cominceremo da subito, abolendo le Province nelle aree metropolitane”. Archiviato il voto, s’innescò la marcia indietro. “Vorrei abolire le Province per risparmiare ma la Lega Nord non è d’accordo” disse il Cavaliere l’11 dicembre 2008. E il 22 aprile 2010 alzò bandiera bianca. “Abbiamo fatto un calcolo e abolendo le Province si risparmiano solo 200 milioni. Troppo poco per iniziare una manovra che scontenterebbe i cittadini. Però non concederemo più nessuna nuova Provincia”.

La famosa lettera della Banca centrale europea recapitata il 5 agosto 2011 al governo italiano parlava chiaro. “C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi, come le Province”. E pure la Lega si dovette piegare. Ma per finta. Il taglio svanì in poche ore come neve al sole di Ferragosto.

Poi è arrivato Mario Monti, e nel decreto Salva Italia è comparsa una disposizione all’apparenza categorica. Il trasferimento a Comuni e Regioni delle funzioni attribuite alle Province, relegate a organi non più elettivi con un numero limitato di consiglieri scelti dalle amministrazioni comunali. All’inizio questa tagliola doveva scattare automaticamente entro aprile 2012. Poi è successo il finimondo. Così nella versione definitiva del salva Italia è spuntato un comma che prevede una legge dello Stato, da emanarsi entro dicembre prossimo, per rendere operativa la riforma. Un modo per prendere tempo e rimandare la resa dei conti. Organizzando la resistenza.

Il pericolo più grande a quanto pare viene dalla Corte costituzionale, che il 6 novembre esaminerà i ricorsi prontamente presentati contro il decreto di dicembre. Se li dovesse accogliere, come dicono molti esperti, la riforma di Monti salterebbe e le Province resterebbero in vita esattamente come oggi.

Perciò accanto al piano A, avviato sul binario morto, è spuntato un piano B. Da attuarsi forse con decreto legge, in parallelo alla revisione della spesa, che potrebbe contenere anche una micidiale pillola avvelenata per tutti gli enti locali. Ossia il divieto alla costituzione di nuovi enti o società per funzioni che può svolgere direttamente l’amministrazione. Per evitare rischi di ricorsi alla Consulta il piano B prevede che le Province mantengano tre funzioni quali strade, ambiente e gestione delle aree vaste.

Le giunte saranno comunque azzerate e i consigli, non più elettivi, ridotti all’osso come previsto dal decreto Salva Italia. Il numero degli enti verrebbe però tagliato, utilizzando criteri in parte simili a quelli della proposta abortita di Calderoli. Sopravviveranno soltanto le Province in gradi di soddisfare almeno due dei seguenti tre requisiti: superficie di almeno 3.000 chilometri quadrati, popolazione superiore a 350 mila abitanti e oltre 50 Comuni presenti nel territorio. Dalle attuali 107 (tolte la Valle d’Aosta e le Province autonome di Trento e Bolzano) si passerebbe a 54. Meno di quelle (59) esistenti nel 1861. In realtà, attenendosi scrupolosamente ai parametri, il loro numero dovrebbe addirittura scendere a 50.

Si è tuttavia stabilito di salvare i capoluoghi di Regione che pur non hanno i requisiti, come Venezia, Ancona, Trieste e Campobasso. Dieci Province, inoltre, dovrebbero scomparire in un secondo momento se e quando verranno finalmente istituite, com’è previsto fin dal 1990, le città metropolitane. Nell’elenco, oltre alla stessa Venezia, troviamo Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Reggio Calabria.

Con i criteri di cui sopra, in Toscana scomparirebbero tutte le Province tranne Firenze. Idem in Liguria, con l’eccezione di Genova. Nell’Emilia Romagna, sette su nove. In Sicilia, cinque su nove. In Piemonte, la metà esatta. E qui comincerà il gioco degli accorpamenti. Siena e Grosseto accetteranno la coabitazione? Pisa e Livorno, così vicine, saranno disposte a mettere da parte antiche rivalità? Prato si rassegnerà a rientrare a Firenze oppure preferirà Pistoia? Modena e Reggio Emilia continueranno a essere separate dall’aceto balsamico? E come reagiranno i lodigiani davanti alla prospettiva di essere riuniti ai milanesi?