Letture estive. Saverio Strati, da muratore a grande scrittore

 Questa lettura vuole essere un omaggio al vecchio scrittore calabrese che in questi ultimi tempi è stato al centro dell’attenzione, non solo dei calabresi, per il riconoscimento del vitalizio come da “Legge Bacchelli”. Ciò perché non si può e non si deve lasciare nell’oblio un autore di 13 romanzi, 170 racconti, tantissime pagine di diario pubblicate anche per una rivista edita dalla Regione Calabria. Perché, si legge in un accorato appello rivolto al Governo italiano dagli intellettuali calabresi e non solo, “non sarà un Paese civile il nostro finchè scrittori, poeti, artisti e intellettuali soffriranno la triste condizione di Saverio Strati. Un Paese che non ha a cuore la propria cultura e la sorte di coloro che ne sono i principali artefici ha scempio della propria anima, la sola ricchezza capace di innalzarlo sopra la barbarie. La solidarietà verso lo scrittore calabrese è un doveroso atto di civiltà verso l’uomo, un gesto d’amore verso il nostro Paese”. È Saverio Strati, uno dei maggiori scrittori italiani viventi, il Verga calabrese più tradotto all’estero, nato a Sant’Agata del Bianco (RC), il 16 agosto 1924, il quale, dopo la conclusione degli studi primari, avrebbe voluto continuare gli studi, ma, come ha scritto in una recente lettera inviata a Il Quotidiano, “era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Pian piano imparai a lavorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro muratore e percepivo quanto mio padre, ma la passione di leggere era forte…Leggere e scrivere era per me vivere”. Oggi vive a Scandicci alle porte di Firenze. Nei mesi scorsi il suo borgo natio gli ha regalato la manifestazione “Dietro le parole…immagini, rumori, umori, passioni. E poi…”, una sorta di laboratorio di libri d’artista, ispirati alle opere letterarie dello scrittore reggino, che per una settimana ha impegnato studenti dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. E non solo. A Gioiosa Jonica, presso il Palazzo Amaduri, si è tenuto un incontro sulle opere di Saverio Strati con relazioni di Palma Comandè, nipote dello scrittore, del drammaturgo Vincenzo Ziccarelli che parlato del “rapporto di Strati col teatro” e del critico letterario Pasquino Crupi che si è soffermato su “Saverio Strati nella letteratura italiana”. Nel dicembre del 2010 l’Università della Calabria gli ha conferitola LauraHonorisCausa in Filologia moderna e nell’ottobre dell’anno primala ProLocodi Santa Severina è stato insignito del Premio Siberene 2009 perché “il più grande scrittore realista vivente. Nel novembre del2011 aTropea si è tenuto il convegno su “Calabria, Calabresi e Calabresità nella letteratura di S. Strati”; Un po’ tardivamente la Calabriaha riscoperto il suo figlio scrittore e lo stesso Strati se ne rammaricava come, nel 1981, ebbe a confessare a Vincevo Pitaro della Gazzetta del Sud:, “io sono sempre presente in Calabria con i miei libri. Solo che questi miei libri dovrebbero essere letti in Calabria purtroppo non si legge. In Toscana o in Piemonte, ogni barbiere e ogni cameriere ha letto almeno un libro di un autore della sua regione. In Calabria, invece, sono pochi quelli che conoscono gli autori calabresi. Perché?” Già, perché? Strati, definito “l’emblema della solitudine e testimonianza del potere fatale del pensiero poetico”, già dalla prima opera “La marchesina” del 1956 esprime una Calabria posseduta da ingiustizie antiche che necessita di soluzioni irrealizzabili, forse; narra un sud che conosce la retta lezione della realtà, la morale della roba, l’antica pena della vita nei campi, la quotidiana mortificazione, la tenacissima volontà di sopravivere e se possibile vincere. Dopo altre opere come “La teda” (1957), “Tibi e Tascia” (1959), “Mani vuote” (1960), l’autobiografico “Il nodo”(1965), “Avventura in città” (1962), i racconti “Gente in viaggio”del 1966, in “Noi lazzaroni” del 1972 affronta l’irrisolto problema dell’emigrazione, ricercandone le motivazioni razzistiche, reazionarie ed economiche. È un viaggio a ritroso, il suo, di un muratore che torna dopo vent’anni dalla Svizzera in Calabria, dove registra il tempo trascorso tra la violenza subita durante il fascismo e dal suo padre-patrone  e la violenza moderna, quella che lo ha costretto all’emigrazione. Ma è sicuramente “Il selvaggio di Santa Venere”, del 1978, (Premio Campiello), la più importante prova di ricerca e di analisi psicologica. Qui viene denunciata la corruzione dilagante nelle istituzioni, l’emigrazione massiccia  che impoverisce di risorse umane i tanti borghi collinari, la disoccupazione, lo sfascio della morale collettiva, il clientelismo dei partiti politici che svuota di fiducia e credibilità la democrazia. E nonostante tutto lo scrittore torna alla terra perché quel cordone ombelicale non si può e non si deve spezzare. Il romanzo diventa dolorosa indagine socio-culturale e psicologica e l’avventura del selvaggio di Santa Venera è la stessa avventura struggente di Strati. E comunque, per dirla con le parole del poeta Emilio Argiroffi, lo scrittore di Sant’Agata del Bianco non si rassegna e la sua identità regionale è incollata su di lui come e più della pelle. Rispecchiando, certamente, l’esperienza autobiografica, la narrativa di Saverio Strati è evidentemente abbondante e si spalma sul percorso storico e umano della sua gente di Calabria, da una parte immergendosi in un tempo senza tempo, immutato nei secoli, dall’altra parte affacciandosi al mondo di oggi, quello della metropoli e nella ricerca di un vivere il più possibile lontano dagli stenti delle terre assolate e mortificate del Sud.