Don Bosco il Principe degli educatori

L’indimenticabile Presidente Pertini, ex allievo dei Salesiani della sua Varazze, in una lettera destinata ad un suo ex insegnante, non può fare a meno di ricordare la sua scuola, quella voluta dalla pedagogia di un prete. Così scriveva: “ Oggi comprendo che l’amore senza limiti che io sento per tutti gli oppressi e i miseri, ha cominciato a sorgere in me accanto a voi. La mirabile vita del vostro Santo mi ha iniziato a questo amore.”

 È san Giovanni Bosco, quel prete dall’attività instancabile e senza confini sempre rivolta a favore dei giovani che privilegiava nella sua azione quotidiana e che ispirò anche principi di una pedagogia della prevenzione sempre più accettata nella scuola come nella vita di centri sociali e dintorni.

Tanti, non solo tra i credenti, devono a don Bosco, il prete torinese che dall’800 continua a richiamare “l’attenzione ai giovani”, la voglia di fare, di agire perché le nuove e future generazioni si aprano a percorrere il sentiero sano della vita e a costruire la loro parte nella storia dell’uomo.

Che prete era? Di certo non è stato prete di sagrestia o da tavolino a pensare o scrivere il come risolvere il problema dei giovani. No, niente di tutto questo. Sì immerso, infatti, quotidianamente e realisticamente nella convivenza umana che lo circondava, osservando, leggendo ed interpretando la strada, i relativi ambienti e le persone che vi vivevano attorno e dentro.

 Insomma un prete tutto per i giovani? No, non dimentica il popolo bisognoso di difesa e di orientamento e raggiunse anche le lontane popolazioni degli infedeli. E perché la sua opera si perpetui, fonda una società di religiosi, i Salesiani, quelli appunto del Presidente Pertini, e all’interno di questa presto diventa educatore, il “Principe degli educatori” come lo ebbe a definire Papa Giovanni Paolo II nell’88.

E non poteva essere diversamente. Dà priorità ai bisogni dei giovani e ad essi addita soprattutto la “salvezza di Dio”. Nessuna meraviglia, era prete, e nel soprannaturale vedeva la soluzione delle esigenze dei giovani, senza per questo accantonare la concretezza delle loro richieste: pane, vestiti, lavoro, qualificazione professionale a servizio della collettività e soprattutto tanta, tanta allegria.

I suoi giovani – diversi da quelli di oggi? – dovevano essere “onesti cittadini e buoni cristiani”, insomma capaci di vedere lontano e farsi strada sgomitando anche.

Con essi e per essi fa di tutto per mettere l’uomo al centro di ogni realtà e farlo artefice del suo destino, oltre che protagonista della storia. Promuove la specializzazione professionale e la qualità del prodotto in conformità alle leggi della società di mercato, introducendo, però, la novità cristiana del dialogo, del rapporto interpersonale tra lavoratore e datore del lavoro, al fine di superare la conflittualità di classe e umanizzare il lavoro.

Uno degli obiettivi fondamentali dell’azione del prete piemontese è l’apprendistato, considerato propedeutico e funzionale alla formazione professionale e all’incentivazione dell’occupazione dei giovani dequalificati, sfruttati e indifesi. Rifiuta, però, don Bosco, decisamente il concetto dell’assistenza fine a se stessa, nell’illuminata convinzione che questa a lungo andare, non solo non paga, ma diventa anche controproducente, perché crea una società di parassiti e di frustrati.

“Suoi” sono tutti i ragazzi: li sente così nel suo cuore sensibile e generoso. Si china ai giovani perché con i giovani si deve innalzare a Dio e con essi annunciare il Vangelo e condividerlo fu un tutt’uno. Davvero educatore, educatore senza barriere: fa sua l’esperienza dei giovani condividendone ansie e speranze senza mai scendere a compromessi con quella mentalità irreligiosa e permissiva che tra i giovani avrebbe fatto, e purtroppo anche ai nostri giorni tende a fare, tante vittime.