Scalfaro un gentiluomo calabro piemontese

“Se ne è andato da forte e con coraggio. Così aveva vissuto. E posso dire: ha vissuto fino in fondo”. A Pasqua dell’anno scorso Oscar Luigi Scalfaro, “il Presidente” per i collaboratori e quelli che gli volevano bene, era caduto nella casa al mare di Santa Severa. Un incidente brutto per un uomo di oltre novant’anni e anche se il ricovero al Gemelli aveva rassicurato sulle conseguenze, qualche tempo dopo la voce se n’era andata, ridotta ad un sospiro. Operarsi a 93 anni non era nelle cose. Gli impegni pubblici si erano diradati così, a favore delle visite e delle piccole cose nella simbiosi con Marianna. Le passeggiate mattutine, la messa, le fughe al mare, qualche visita in Piemonte, alle radici di quella sconfinata carriera politica.

Oscar Luigi Scalfaro era “un uomo che non taceva. Un combattente, difficile da spaventare”. Nella prima parte della vita, gli esordi da magistrato dopo la Liberazione, gli scranni della Costituente, parlamenti e governi della cosiddetta Prima Repubblica, il suo profilo si tenne riservato e “ministeriale”, curialmente democristiano secondo i detrattori. E tuttavia, pure da cattolico moderato, in un tempo in cui le parole erano pesate e misurate non sull’audience, i suoi cavalli di battaglia (l’attualità della Carta, il rispetto della legge, la centralità del Parlamento) li difese con una voce appassionata. Se necessario, con atti pubblici impegnativi.

Ma è nella seconda vita di “gentiluomo calabro-piemontese”, come amava autodefinirsi con un omaggio alle origini familiari, che Oscar Luigi Scalfaro diventa, per una certa Italia “resistente”, la pietra miliare che è rimasto sino ad oggi. L’avvento al Quirinale nel 1992, dopo la caduta del Muro di Berlino e le tempeste istituzionali dell’esternatore Cossiga e appena prima di Tangentopoli e dall’entrata in scena di Berlusconi, lo trasportò letteralmente in trincea, ben oltre quel che avrebbe desiderato. Sempre sul filo della frizione istituzionale, tirato nella polemica e nello scontro iconoclasta dal berlusconismo, lui che della sobrietà e del primato della norma faceva una stella polare. “Il Presidente” diventò il metronomo istituzionale che provava a ridare tempo a un’Italia dalle mille derive politiche e giudiziarie. Già eletto presidente della Camera dei Deputati subito dopo la strage di Capaci, sull’onda del sacrificio di Giovanni Falcone (poche settimane dopo salì al Quirinale) intervenne su partiti e Camere perché evitassero scorciatoie legislative sui reati del finanziamento in Tangentopoli, e mandassero all’Italia infuriata segni incontestabili di moralità pubblica. Entrò nella crisi del primo governo Berlusconi favorendo la nascita dell’esecutivo Dini sull’abbrivio di una disponibilità iniziale dello stesso Cavaliere, da questi poi sconfessata. Negli anni delle leggi ad personam e del premier-autocrate battagliò per il decoro del Parlamento. Difese i magistrati ma ne criticò gli eccessi di protagonismo. Rispettò e tutelò interessi e prerogative della Chiesa, però dello Stato rivendicò sempre il carattere laico. Chi lo ha odiato lo ha definito fariseo, commediante e traditore, padre del famigerato Ribaltone. Chi lo ha sostenuto lo ha considerato un simbolo vivente dell’Italia anti berlusconiana.