Archeologia industriale al Sud

A cavallo delle province di Reggio, Vibo Valentia e Catanzaro visitiamo ciò che resta di quello che un paio di secoli orsono costituivano la linfa vitale dell’industriosità di un popolo e di una monarchia: le ferriere borboniche nel cuore delle Serre. Si tratta di un enorme patrimonio archeologico industriale che può e deve essere visto come “bene culturale” da conoscere, approfondire, valorizzare per ulteriore crescita a più livelli della Calabria. E’ ciò che resta della “storia dell’industrializzazione del Mezzogiorno, attraverso gli interventi dei primi Borboni, che costituirono, com’è noto, degli autentici “primati” industriali del Regno delle Due Sicilie – dalla fabbrica di armi a Torre Annunziata (1758) e dalle Reali Ferriere ed Officine di Mongiana in Calabria (attive dal 1771), alla prima linea ferroviaria(la celebre Napoli – Portici, 1835), alla prima officina di treni (Pietrarsa, 1842), sino ai ponti sospesi …sul Garigliano(1832) e sul Calore (1835) – episodi questi in tutto o in parte cancellati dall’ultima guerra o dalle successive opere urbanistiche condotte in tali siti”, come ha scritto Arnaldo Venditti nella presentazione al saggio “Archeologia industriale e Mezzogiorno” di Gregorio E. Rubino ( Mario Giuditta Editore, Roma 1978).

Tracciamo, ora, un pur sommario excursus storico dei nostri possedimenti minerari e delle ferriere. Le ferriere calabresi, oggetto di questo itinerario, attive già dal ‘500, sono state possibili perchè il comprensorio serrese è stato un bacino minerario per tutto il Regno di Napoli, ricchissimo di ferro, come del resto era ricco di argento ed oro altra parte della Calabria: la zona di Longobucco, San Marco Argentano e dintorni, della provincia cosentina. Già i giacimenti di Stilo, conosciuti fin dai secoli a.C., nel 1094 risultano possedimenti dei Certosini di Serra San Bruno in seguito a donazione del Conte Ruggero il Normanno. Qui nacque la ferriera che utilizzava anche il ferro estratto dal sottosuolo di Pazzano attorno al monte Stella, appartenuta agli Aragonesi e ceduta poi, assieme alle limitrofe ferriere di Spadola e di Fabrizia nel 1523, da Carlo V a Cesare Fieramosca, sì proprio il fratello del famoso Ettore. Durante tutto il ‘600 gli impianti di Stilo producevano in gran quantità come scrive G. Fiore nella sua “Calabria Illustrata” e G. B. Pacichelli in Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province” in occasione di un suo viaggio da queste parti per visitare la Certosa serrese. Nella ferriera stilese si lavoravano manufatti ferrosi per uso civile e militare, come “i tubi dell’acquedotto di Caserta, in base ai modelli ed ai disegni preparati dal Vanvitelli”(Rubino). Questi, derivata dall’inventario del 1761, ne traccia una descrizione della consistenza delle cosiddette “Ferriere Vecchie” di Stilo, per distinguerle dalle nuove ubicate presso il vicino corso d’acqua Assi. “Esse comprendevano, oltre ad una piccola cappella ed alla residenza per l’amministratore ed i militari di guarnigione, due fonderie, otto ferriere ed una sega idraulica…”.

Successivamente, verso il 1770 il sito siderurgico di Stilo è stato abbandonato ed edificatone un altro ben più grande, ricco e più vicino agli sbocchi commerciali e comunicativi come Serra San Bruno e Pizzo. Sono le Reali ferriere ed officine di Mongiana volute dai Borboni secondo il Piano di Alessandro Persico, amministratore degli arredamenti della Calabria Ulteriore e su disegno dello spagnolo Giovanni Francesco Contò. Di detta fabbrica restano i ruderi dell’antico ingresso fatto di belle colonne in ghisa. Tutto il complesso di archeologia industriale, di recente, è stato sottoposto a restauro conservativo. Le officine di Mongiana erano comprese in un solo stabile esteso per oltre 2 km e lungo i fiumi Ninfo e Allaro. La ferriera comprendeva tre altiforni denominati Santa Barbara, San Ferdinando e San Francesco e si lavoravano circa 30 mila cantaia di ghisa all’anno con un consumo di 40 mila cantaia di carbone di faggio. Nella ferriera c’era anche la fabbrica d’armi costituita da un imponente edificio di tre piani con all’ingresso le attuali due colonne scanalate di ferro fuso ed abbellite dalle statue dei coniugi sovrani. All’interno dell’edificio vi erano le officine dei forgiatori di canne di fucile, baionette e piastrine con 26 fuochi. In pratica il sito di Mongiana forniva alla Casa regia napoletana 2 mila cantaia di proiettili, mortai e bombe; vi si costruivano enormi ruote di ferro fuso, pezzi di macchine, docce, tubi, campane, attrezzi militari e rotaie. Tutto il complesso siderurgico comprendeva anche 26 alloggi per gli impiegati, 6 caserme per gli operai ed altre 3 per semplici manovali ed un quartiere per la truppa ivi di stanza. Per quanto riguarda la spedizione dei manufatti di Mongiana verso Napoli, veniva utilizzato il porto di Pizzo sul Tirreno e qui vi arrivavano su schiena di mulo attraverso un sentiero che passava da San Nicola da Crissa e dal bivio dell’Angitola. Sentiero che poi sarebbe diventato strada regia borbonica, la stessa che oggi si percorre per raggiungere i centri montani delle Serre. Per molti anni le fabbriche di Mongiana vissero attivamente ed anche sotto il Murat l’approvvigionamento militare partiva da qui e ciò anche per abbattere l’industriosa Inghilterra. Inoltre, sempre Gioacchino Murat incrementò altre attività industriali come la lavorazione del ferro battuto nella limitrofa Serra San Bruno che già all’epoca occupava ben 700 operai. Il ferro proveniente da Pazzano e Stilo riceveva nelle circa 300 fabbriche di Serra una vernice particolare vicina all’oro. Contemporaneamente alle dette ferriere, nei pressi di Pazzano sorse la fonderia della Ferdinandea, detta così dal Borbone Ferdinando II., nata con l’obiettivo di fabbricare cannoni di grosso calibro. Scrive Rubino: “Le abitazioni furono disposte in una pianta rettangolare… Bella più che mai la piccola chiesa, la quale è ornata all’esterno di granito e nell’interno di acero, ben lavorati… Quest’opera colossale è stata in costruzione per anni 30 (dal 1811 al 1841”. Oggi restano integri la chiesetta ed il grande palazzo che, in tempi garibaldini, fu acquistato da Achille Fazzari che “ne fece una splendida residenza di campagna con annesso museo di cimeli risorgimentali. Al Fazzari deve anzi attribuirsi il rifacimento in muratura dei precedenti edifici in legno…Sempre all’interno della corte, un piccolo busto in granito di Ferdinando II” (Rubino). Così vediamo oggi Ferdinandea, abbandonata e solo frequentata sporadicamente da turisti che si portano al vicino stabilimento di acqua minerale della Mangiatorella.

In quest’epoca di grande fermento industriale dovuto alla scoperta della materia prima, il ferro, e alla presenza in gran quantità del legno e quindi del carbone, non mancarono le iniziative private. Così nella vicina Cardinale in contrada Razzonà sorse quello che fu definito il più grande complesso siderurgico privato del Regno. Si tratta delle ferriere del Principe di Satriano Carlo Filangieri, sorte lungo il fiume Ancinale. Oggi sono evidenti i ruderi della chiesetta, le palazzine merlate quasi integre e parte delle officine.

Al termine di questo itinerario, diciamo che l’esplorazione ed un sommario studio di questi siti di archeologia industriale hanno l’obiettivo di far conoscere ai nostri lettori buona parte della regione calabrese a molti sconosciuta ed auspicare una meglio conservazione e restauro, anche perché tutto, come scrive A. Venditti: ” deve essere di stimolo agli Enti Locali ed agli organi regionali affinchè il prezioso patrimonio superstite non vada perduto, ma attualizzato di nuove finalità e di moderni significati comunitari….”.