Ecco perché il Pil italiano non può crescere

“L’attenzione del mondo è centrata sulle economie occidentali e sulla  loro capacità di far fronte a un debito pubblico molto elevato, che fa correre loro il rischio di continui declassamenti, prima allo Stato poi ai vari attori dell’economia. Per far fronte al problema le ricette che vanno per la maggiore sono due: la crescita del Pil e il progressivo azzeramento dello stato sociale. Come Popolari Glocalizzati – si legge in una nota a firma del segretario politico Corrado Tocci – siamo fermamente contrari alla riduzione dello stato sociale, considerato che il livello attuale può essere mantenuto, come già dimostrato da  alcuni nostri progetti basati sulla sussidiarietà orizzontale, per cui è possibile mantenere questo sistema dei servizi, escluso l’assistenza ospedaliera, facendo a meno del contributo dello stato; questo per non tornare a scenari ottocenteschi. Riguardo alla situazione italiana  per potere fare delle proposte efficaci occorre ripensare a come nei vari anni questa situazione sia così degenerata, prendendo in esame sia la spesa, che il Pil. I mali che hanno causato l’enorme debito pubblico vengono da lontano. La teoria del welfare propone che lo stato possa indebitarsi per favorire la realizzazione di progetti di interesse generale, che abbiano una ricaduta occupazionale, capaci di far aumentare la ricchezza media collettiva, con il risultato di un aumento delle entrate fiscali necessarie al ripianamento del debito. Per una Repubblica parlamentare fondata sui partiti, bisognosi di consenso elettorale, la teoria del welfare è la ricetta giusta. La teoria permette di creare un circolo virtuoso dove il debito pubblico porta più investimenti, più investimenti creano più occupazione, più occupazione crea più consenso, il consenso permette ai partiti di continuare a governare. Questo sistema ha retto finché il disavanzo del bilancio invece di essere destinato agli investimenti è servito per pagare gli interessi del debito contratto negli anni precedenti. Questa situazione ha messo in difficoltà i partiti che si sono trovati per alcuni anni senza possibilità di distribuire posti di lavoro necessari a garantire il consenso. Il sistema produttivo si stava ristrutturando l’automazione richiedeva sempre meno manodopera. In questa fase avviene anche un cambiamento culturale all’interno del sistema politico, alla persona si offre non più un lavoro ma un posto dove percepire uno stipendio, in questa fase si passa dalla cultura del lavoratore alla cultura dell’occupato; si inizia a parlare di terziario. Questa trasformazione avviene negli anni ’70: con l’avvio delle regioni a statuto ordinario nel 1970 e l’avvio della riforma sanitaria nel 1978. I partiti si erano ritagliati due grandi bacini da occupare politicamente in grado di erogare decine di migliaia di posti. Le regioni a statuto ordinario, che avrebbero dovuto essere degli Enti di programmazione per favorire lo sviluppo territoriale, con il tempo hanno assunto tutti i connotati di quello Stato burocratico e pletorico di cui avrebbero dovuto limitare l’ingerenza. La riforma sanitaria, fatta decollare in Italia quando in Inghilterra era fallita, con la motivazione di estendere l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, ha permesso l’occupazione del sistema sanitario  nazionale da parte di tutti i partiti, con l’arricchimento di coloro che sono partecipi del sistema, ma a scapito del bilancio delle regioni  che è quasi tutto destinato alla sanità a detrimento delle politiche per lo sviluppo. Questa occupazione “militare” del sistema regionale da parte dei partiti verso la fine degli anni ’80 non dava più i frutti sperati, mentre pressante era la necessità di occupare le nuove generazioni. Questa classe politica incapace di attivare politiche di  sviluppo che creassero ricchezza ha scelto la via più congeniale e semplice al proprio tipo di cultura politica, si sono inventate le varie forme di “lavori socialmente utili” in modo da occupare decine di migliaia di “clienti” negli Enti locali e territoriali. Così piccoli Comuni che erano stati gestisti fino ad allora con il supporto di alcuni dipendenti si sono ritrovati a disposizione decine di dipendenti ai quali bisognava attribuire mansioni per giustificarne la presenza. Tutte queste politiche assistenziali sono la causa dell’enorme debito pubblico al quale hanno attinto tutti i Governi e i Parlamenti che si sono succeduti, senza distinzione di ideologia o scuola di pensiero economica; non a caso la pubblicistica parla di casta e non di elite. Occorre adesso parlare del bilancio dello Stato dal punto di vista delle entrate e delle politiche di sviluppo atte ad incrementarlo. L’Italia alla fine della seconda guerra mondiale era un paese agricolo mercantile. Il territorio, escluso il triangolo industriale, fondava la sua economia su agricoltura, artigianato e commercio, queste categorie erano chiamate a garantirsi il sistema previdenziale, tramite un Ente di categoria presso l’Inps, e l’assistenza sanitaria attraverso le mutue, sempre di categoria. Il bilancio dello stato si fondava sulle entrate garantite dal sistema industriale e sul debito, garantito da Bot e Cct sottoscritti per lo più da risparmio interno. Dopo le lotte sindacali della seconda metà degli anni ’60, portate avanti per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e con l’entrata in vigore dello “statuto dei lavoratori” il sistema industriale italiano entrò in una profonda crisi che lo obbligò a trasformazioni organizzative radicali. Questa congiuntura economica comportò una modifica sostanziale del sistema organizzativo dello Stato, soprattutto dal punto di vista della riscossione delle entrate. Questo processo fu guidato da due uomini: per l’accentramento delle entrate; Gaetano Stammati; per il coinvolgimento tributario di tutte le categorie, Bruno Visentini. Il sistema produttivo italiano si fonda sulla micro-impresa, basta pensare che oltre il novanta per cento delle imprese non supera i due dipendenti; eppure  questo sistema tra la seconda metà degli anni settanta e tutti gli anni ottanta favori una crescita inimmaginabile per il sistema Italia, infatti fu coniato lo slogan “piccolo è bello”. Questa dinamicità delle piccole imprese ha favorito la nascita di decine di distretti industriali anche in zone del paese considerate da sempre terre di emigranti. Il fiore all’occhiello del sistema è rappresentato dal Triveneto dove si avviano politiche atte a favorire l’immigrazione. Verso la fine degli anni ’80 cambia la politica economica mondiale, si fanno strada le politiche reganiane che possono essere applicate in paesi come l’Inghilterra, la Germania, la Francia, ma non all’Italia che fonda il suo sistema produttivo sulla micro-impresa. Come reazione i Governi di sinistra propongono politiche sempre più stataliste. Con la seconda  Repubblica la classe politica non proviene più dalle organizzazioni socio-economiche presenti sul  territorio ma viene “cooptata” dalle professioni. Ha inizio “la dittatura delle corporazioni” , che di concerto con la politica, supportati da una Europa delle burocrazie, avviano tutta una serie di riforme atte a soddisfare i bisogni corporativi di entrambi, normative non sempre chiare e l’aumento delle procedure garantivano lavoro alle professioni e permettevano alla politica di giustificare la gran mole di occupati nel sistema pubblico ai vari livelli istituzionali. Questo sistema si diffonde anche grazie alla cecità del sistema universitario che avallava le teorie che consideravano identici i problemi del lavoro presenti sia nella catena di montaggio della Fiat  che nella falegnameria dove lavorano l’artigiano e un apprendista. In questa fase emergono tutti i limiti della politica, gli uomini politici e la dirigenza della burocrazia dimostrano: primo di non essere a conoscenza della composizione e del funzionamento del sistema produttivo italiano, soprattutto di quello artigiano, dando per scontato che questo appesantimento del sistema procedurale non può incidere sulla produttività dell’impresa; secondo non prendendo in esame l’aspetto psicologico della applicazione delle nuove normative, per cui l’artigiano deve cominciare a dedicare diverse ore settimanali all’espletamento di costosi aspetti burocratici tralasciando il lavoro produttivo. In questa fase il sistema politico invece di sostenere il piccolo imprenditore nel processo di crescita necessario ad affrontare il nuovo che avanzava, attivando strutture pubbliche di sostegno, ha permesso agli ordini professionali di fare i propri affari e alla burocrazia di fermarsi all’aspetto di mero controllo tipico di uno Stato di polizia. Non a caso in questa fase c’è stata la rincorsa tra i vari corpi e organi dello stato per essere considerati come polizia giudiziaria. Così per l’avvio di una impresa occorrono decine di procedure dove tutte le componenti burocratiche, con la motivazione del controllo, vogliono garantirsi un ruolo. Questa incapacità della politica, derivante dalla non conoscenza del sistema produttivo reale, ha permesso tutta una serie di aberrazioni che hanno sconcertato il piccolo imprenditore facendolo sentire sempre più suddito e sempre meno cittadino. Così un artigiano che compra una macchina utensile certificata da un organismo dello stato deve farsi fare una relazione sul rumore, pagandola; un falegname che tiene delle tavole per fare i mobili deve fare la relazione antincendio, sempre pagando un professionista; una impresa chiude l’attività ma spesso la camera di commercio la obbliga a pagare anche la quota dell’anno successivo, pena andare incontro a sanzioni erogate da Equitalia; che per chiudere una impresa venga richiesto l’atto notarile, questo nella logica che gli imprenditori, da sudditi, non possono certificare un atto a titolarità da cittadini; che alcune sedi Inps richiedano il pagamento dei contributi pure per l’amministratore di una società che non svolge attività; di questi esempi se ne possono portare a centinaia. Ma una caratteristica del sistema burocratico italiano è la soggettività dei vari uffici sulla interpretazione e applicazione delle varie norme, un esempio su tutti, basta ricordare quello che è accaduto a livello tributario con la interpretazione della Visco sud, dove lo stesso caso è stato trattato con visioni opposte dalle varie Agenzie delle entrate regionali, con gravi ricadute sul piano finanziario delle imprese. Altro problema è rappresentato dalla competenza ispettiva di più organi sullo stesso aspetto di una attività di produzione. Con il trascorre del tempo la prima preoccupazione del piccolo imprenditore non è più quella di lavorare e produrre, ma  di evitare sanzioni e multe. Contemporaneamente anche i professionisti, che dovrebbero sostenere l’impresa nel districarsi tra le abbondanti normative, si sono trovati in difficoltà a causa della pubblicazione di circolari esplicative pochi giorni prima della scadenza, vedendosi trasformati così da consulenti dell’impresa in uffici esattoriali territoriali. Questa non chiarezza ha messo in difficoltà gli imprenditori puri, che hanno preferito delocalizzare la produzione, queste scelte hanno fatto perdere al sistema delle Pmi italiane decine di migliaia di imprese e milioni di posti di lavoro. La giustificazione che in alcuni ambienti si da nel parlare di queste scelte è riferita alla necessità di ricercare luoghi con un costo del lavoro più basso, ma questa è solo una parte della verità, forse quella di valenza minore, perché se quello che affermano fosse vero in Italia ci sarebbero molti investitori stranieri, ma in giro per il mondo parlare di investire in Italia è come parlare di giocare alla roulette, stante la complessità della burocrazia che rende le norme  sempre impugnabili. Oggi l’imprenditore che investe, che crea ricchezza vera, ha bisogno di normative chiare e di tempi di start-up certi, non è più disponibile ad esporsi al rischio che un qualsiasi ufficio, anche in buona fede, blocchi un progetto e le decisioni di merito non hanno tempi definiti. Emigrati gli imprenditori puri in Italia, tolte alcune grandi imprese, sono rimasti: gli imprenditori legati a doppio filo con la politica, dei quali sentiamo parlare nelle Procure della repubblica; e le micro-imprese. Il settore della micro-impresa vive una situazione molto complessa, visto la scenario in cui si muove: considerando sia l’aumento costante di imprese con titolari non italiani, e se qualcuno di costoro ritiene di non versare l’Iva o di non pagare quanto dovuto alla previdenza e all’erario, le relative somme sono di difficile riscossione; sia le difficoltà del piccolo imprenditore italiano messo alle strette dalla crisi e dalla mancanza di accesso al credito, e che è portato sempre più ad adottare forme di economia informale e meccanismi di baratto. La difficoltà del sistema pubblico di indire nuove gare di appalto, il ritardo con cui paga i fornitori, i comportamenti di imprenditori stranieri che evadono e trasferiscono le somme nei Paesi di origine, la deriva delle micro-imprese italiane verso l’economia informale ed il sommerso, la incapacità della burocrazia di invertire il suo ruolo da mero controllo ad assistenza di crescita nella legalità, sono le cause per cui il Pil italiano nei prossimi anni non potrà che essere stagnante”.