Gioia Tauro, al Porto con la corsa al ribasso guadagnano solo i terminalisti

Un dato incoraggiante: il settore portuale non subisce flessioni e sembra crescere. Con dati che oscillano, in termini di traffico, in segno positivo da più 20% fino alle punte che raggiungono il 40% a Gioia Tauro in Calabria. Ma a spese del lavoro e della produzione portuale, che è stata oggetto di una ristrutturazione del lavoro (liberalizzazione senza privatizzazione, di fatto) che ha rappresentato un esperimento estremo di dumping sociale negli ultimi 15 anni. Con la decimazione dei lavoratori (dai primi anni ’90, tanto per fare un esempio, si è passati da più di 6.000 portuali della Compagnia di Genova al migliaio di oggi) attraverso la progressiva riduzione delle cosiddette “banchine pubbliche” e la trasformazione delle Compagnie portuali in oggetti societari ben più vicini a delle società per azioni che a delle cooperative. Altissimo il ricorso alla cassa integrazione. Di fatto siamo davanti ad una forma di lavoro a cottimo sofisticata. Che, per il tipo di prestazioni che richiede questo tipo di attività, contribuisce non poco a un diffuso rilassamento in termini di sicurezza, con turni ravvicinati di sei ore ciascuno, distribuiti lungo le 24 ore. Tornando all’attuale crescita dei traffici, il contraccolpo di una fase recessiva con ogni probabilità non si farà attendere per molto. Il presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Luigi Merlo, ha recentemente affermato che “i traffici, che si sono stabilizzati nel periodo estivo, vanno bene, siamo in crescita rispetto allo scorso anno, ma quello che preoccupa è, in chiave prospettica, la situazione recessiva dell’Europa. Trattandosi di traffici prevalentemente di beni di consumo, infatti, se diminuisce la domanda interna dei mercati europei, non so fino a quando potranno crescere i traffici”. E si teme un crollo verticale come quello del 2008 con un calo complessivo di movimentazioni dei container pari al 50% circa, con inevitabili e gravose ricadute occupazionali. Il traffico container in Italia è infatti condizionato pesantemente dalla frammentazione degli scali sul territorio che, unita alle croniche carenze di infrastrutture ferroviarie, impone ai nostri porti di avere un bacino di utenza prevalentemente interregionale, che non riesce ad allargarsi verso l’Europa. Questo, ad esempio, è uno dei grandi limiti che ha colpito il grande scalo di Trieste e ne ha ridotto immensamente le potenzialità di possibile porta verso l’Europa centrale. In questa situazione si inserisce la mancata applicazione di un contratto unico nazionale per i lavoratori portuali da decenni obbiettivo delle organizzazioni sindacali. Un passaggio inevitabile, in termini etici e organizzativi, in uno scenario del mercato della forza lavoro differenziato tra dipendenti degli enti portuali, dei terminalisti, dei lavoratori delle Compagnie Portuali, dei soci lavoratori delle cooperative e ancora degli interinali. Una situazione di apparente disorganizzazione che in più occasioni ha portato a vere e proprie “guerre tra lavoratori” per garantirsi la “giornata”, generando una corsa competitiva al ribasso di cui hanno beneficiato esclusivamente terminalisti e armatori, come è accaduto anche ai portuali di Gioia Tauro, che lo hanno vissuto direttamente sulla loro pelle. Da quando nello scalo calabrese Msc e Maersk hanno dirottato le loro navi sui porti nord africani e lo scalo calabrese ha dovuto chiudere per trenta ore per mancanza di arrivi. Un gioco estremamente pesante, visto che il gruppo armatoriale Maersk partecipa alla gestione del porto calabrese con il 33% delle quote. È facile quindi capire quale sia il ruolo di queste multinazionali del traffico marittimo e le ricadute che hanno le logiche commerciali sull’intero sistema portuale italiano. Tutto ciò è avvenuto grazie a una miope visione pubblica, anzi a causa di un arretramento del pubblico nella gestione strategica della logistica. L’Italia è stato, infatti, il paese europeo dove maggiore è stata la possibilità per gli armatori e i terminalisti di diventare monopolisti negli scali e di ottenere concessioni e investimenti in cambio di promesse di traffico. Regalando in pratica gli scali italiani ai processi di speculazione.