Pasolini e la Calabria, 40 anni dopo la sua tragica fine

A 40 anni dalla sua tragica scomparsa, la parola profetica e l’esperienza di Pier Paolo Pasolini istituiscono un legame profondo con la Calabria nella condizione di sradicamento esistenziale che si manifestò anche nel poeta Franco Costabile, morto suicida a Roma dieci prima.  

 “Sono morto da poco. Il mio corpo penzola a una corda, stranamente vestito. Sono dunque appena risuonate qui le mie ultime parole, ossia: “C’è stato finalmente uno che ha fatto buon uso della morte.” (dalla tragedia Orgia di Pasolini, 1968).

Sono passati 40 anni dalla tragica scomparsa di Pier Paolo Pasolini. La sua storia e il suo epilogo interrogano e inquietano. Ma la sua morte era stata prefigurata, presentita, già scritta dalle sue stesse mani, come emerge in “Empirismo eretico” o nella tragedia “Orgia”. E la chiave per leggere l’esperienza tragica di Pasolini risiede proprio nella etimologia della parola eresia: Pasolini è stato un eretico perché ha scelto di essere libero e in virtù di questa fede nella radicalità della sua scelta è stato un ortodosso. Come i fiumi che scorrono tra le rocce carsiche determinando erosioni e fenomeni topografici come doline, foibe, grotte, anche la storia umana, intellettuale e artistica di Pasolini, ha scavato la roccia culturale, sociale e politica dell’Italia con l’acqua eretica delle sue parole e delle sue opere. Oggi questo fiume scorre davanti ai nostri occhi, nei nostri pensieri, nella realtà che ci ritroviamo a vivere di fronte alle forze oscure e inquietanti che dominano le coscienze e i corpi delle genti che abitano questo Paese e il mondo. Non sappiamo quale sia il confine geopolitico, genealogico, antropologico tra spirito e materia, tra coscienza e corpo, tra identità e diversità. Se, per esempio, i tanti tumori generati dal potere sparsi in ogni spazio e ambiente, aggrediscono prima il corpo o la coscienza; ma è certo che la lotta deve iniziare dall’interno, in quella sorta di laboratorio dove si plasmano le parole, i pensieri, i sentimenti e gli istinti, ma soprattutto dove emergono i principi – da non confondere con i principi, come molti fanno – che chiamiamo coscienza. La voce di Pasolini è rimasta inascoltata mentre la “mutazione antropologica” si è adempiuta e opera con la sua forza occulta e persuasiva nei nuovi media senza più alcuna resistenza, e il “monstrum” che si nasconde nel narcisistico labirinto dell’apparire, divora anche l’ultima possibile rivoluzione: “La rivoluzione non è più che un sentimento” scrive in epigrafe alla raccolta “Poesia in forma di rosa” (1964).

pasolini

Anche chi nasce in Calabria è destinato a elaborare la condizione di sradicamento esistenziale, come quella vissuta da Pasolini. Negli specchi convessi delle sue parole si riconosce il destino del calabrese, sia che abbia deciso di sperimentare la diaspora esterna che quella interna, compresa la decisione di vivere e resistere in una terra ferita e mortificata nell’anima, depredata e martoriata nel corpo e sottoposta ad un feroce scempio nella sua più profonda identità culturale e naturale. L’articolata analisi compiuta in raccolte come Lettere Luterane e Scritti corsari penetra nel terreno melmoso e corroso della storia dell’Italia a lui contemporanea, dominata da un potere di stampo neofascista, che ha determinato la creazione di macro e micro tumori le cui metastasi hanno prima colpito soprattutto le zone periferiche, e la Calabria, per la sua particolare storia e posizione geografica, era – ed è – la vittima predestinata ad ammalarsi, per l’abbassamento delle difese immunitarie a causa del forte inquinamento diffuso nelle istituzioni civili e democratiche. I versi profetici di “Ali dagli occhi azzurri” (1965), trasfigura il destino dei tanti calabresi negli occhi di Alì, istituendo un legame tra la condizione sradicata di Pasolini, del migrante e del calabrese. Pasolini incontra la Calabria anche sul set del Vangelo secondo Matteo un anno prima (1964). La scena della passione, secondo testimonianze orali, la voleva girare in un comune del Vibonese, Gerocarne. Problemi di carattere tecnico lo hanno orientato a Matera, anche se alcune scene sono state realizzate nella zona di Isola Capo Rizzuto, a Le Castella (tra gli attori non professionisti anche Enzo Siciliano, uno dei maggiori studiosi di Pasolini e presidente della Rai, originario di Decollatura).

La sua lezione così come la sua voce – si pensi anche al Manifesto per un nuovo teatro in cui teorizza il teatro di parola, concependo un’opera epico-lirica sul potere come Pilade – non poteva essere accolta da un corpo sociale e intellettuale a cui si chiedeva di rovesciare lo sguardo e uscire dalle comode poltrone con il quale si guardava lo spettacolo che si proiettava negli schermi dei propri pregiudizi. Era necessario ridefinire gli strumenti culturali per leggere la realtà dei tanti mondi, di fronte all’azione distruttiva del consumismo e dell’edonismo. Se per secoli il mondo era stato letto, come ci riferisce il filosofo tedesco Hans Blumernberg ne la “Leggibilità del mondo”, con le parole del libro sacro, scritto da uomini prescelti da Dio e con quelle del libro della natura, scritto direttamente da Dio, un altro libro entra sulla scena della storia moderna, in una nuova veste editoriale aggiornata, scritto in un codice la cui decifrazione non ha nulla di misterioso, ma che si può leggere, per citare Bernardino Telesio, iuxta propria principia e la realtà, grazie all’ottica microscopica e telescopica, si espande e si contrae come il battito del nostro cuore. Se non ché, ci ha pensato Albert Einstein (sono passati cento anni dalla sua teoria della relatività generale)  a restituire l’antica autorità al mistero, quello che ha generato il mithos e poi il logos, suggellando questa breve parabola esistenziale in cui idealmente ci accompagna Pasolini: “La cosa più bella che noi possiamo provare è il senso del mistero. Essa è la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare e rimanere rapito in timorosa ammirazione , è come morto: i suoi occhi sono chiusi”. Gli occhi di Pasolini sono ben aperti e ci fanno vedere ciò che noi non siamo in grado di osservare o perché troppo vicini o perché troppo lontani, o perché miopi e strabici. Pasolini ha interrogato senza maschere la vita e l’esistenza (come emerge dalla stupenda lirica “Supplica alla madre”), e così facendo ha posto sotto osservazione la nostra vita attraverso un’ottica demistificata, controcorrente e provocatoria, prefigurando il momento in cui la vita gioca a carte scoperte mentre la morte le nasconde. E nel giorno in cui ricorre la memoria dei defunti, è fondamentale non far morire la memoria che il poeta, lo scrittore, il regista, ci ha donato, per leggere in profondità i segni e i disegni che le parole traducono e/o tradiscono.

Come la contraddittorietà dei fatti e dei messaggi che si leggono nel grande libro della comunicazione mediatica. Una serie di eventi hanno contrassegnato quel campo che di solito si definisce “culturale”, ma dentro si incontrano quello politico, economico e sociale. Alla settimana della lingua italiana nel mondo giunta alla 15. edizione che ha celebrato la musicalità della parola, promossa dal Ministero degli Esteri, ha fatto seguito l’iniziativa “Libriamoci”, le giornate di lettura nelle scuole. Non bisogna dimenticare che la musica lirica ha diffuso l’italiano nel mondo, soprattutto per le opere di compositori come Verdi, Donizetti, Rossini, Puccini, Bellini, senza considerare che alcune delle opere più famose di Mozart – ma non solo – sono cantate in italiano. E mentre la Rai (in prima linea Radio tre) ha dedicato molte iniziative per la diffusione e la tutela della lingua italiana, è in atto da parte dei rappresentanti istituzionali e dai media, un’azione sotterranea di distruzione della lingua italiana, e con essa della cultura. In prima linea il presidente del Consiglio Matteo Renzi, fulgido esempio che si offre al mondo per la sua anglomania (tra l’altro di pessima qualità), e non solo – con la sua entrata sul palcoscenico nella commedia della politica italiana, la rottamazione ha investito in modo brutale sia la democrazia che la cultura. Visto che proprio nella sua Toscana nasce Pinocchio, può darsi che il non eletto presidente del Consiglio, attore che predilige la tradizionale  commedia dell’arte, si sia lasciato sedurre dal gatto e dalla volpe, e abbia sentito l’irresistibile vocazione a vestire i panni del più celebre burattino del mondo, che ribattezziamo con il nome di  “Occhio di Pin”, per piantare le cinque monete d’oro donate da Mangiafuoco. Cercare di demolire la memoria delle radici greche e latine che hanno reso l’Italia una delle terre più interessanti del mondo per la sua ricchezza culturale, è un atto intollerabile sotto il profilo della comunicazione, dello stile e del gusto: non a caso siamo letteralmente invasi dalla immondizia del kitsch mediatico e politico.  E’ vero che Ugo di San Vittore (filosofo e teologo francese vissuto tra l’XI e il XII sec.) metteva in dubbio il valore del sentirsi figlio di una patria con un celebre aforisma: “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte: ma solo è perfetto colui per il quale il mondo non è che un paese straniero”.  Ma se raggiungere la perfezione è per definizione un’utopia, quantomeno essere più forti in questi tempi, diventa una questione di sopravvivenza, di sviluppo di anticorpi. Il ritorno in grande stile del darwinismo sociale e della spietata sopraffazione, è la diretta conseguenza della logica del potere che manipola le istituzioni democratiche: debole con i forti e forte con i deboli, per imporre la legge del pensiero totalitario che deve manipolare i pensieri e dominare le coscienze per distruggere le diversità culturali e le resistenze locali. Sulla scia di padre Dante e del De vulgari eloquentia, e riprendendo il filo della lotta condotta da Pasolini contro ogni forma di omologazione portata avanti  dal nuovo fascismo che non “è umanisticamente retorico”, ma “è americanamente pragmatico” il cui fine “è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”, che ha determinato la decadenza della civiltà e della cultura contadina e la devastazione delle piccole identità regionali, come profughi in cerca di asilo e di esilio, riprendiamo il viaggio alla scoperta della nostra identità locale attraverso la “geogenesi” della lingua italiana, osservando l’evoluzione dal basso, come l’impronta del piede che ha contatto con il suolo e con le zolle. Solo che la punta dell’Italia, nel caso della Calabria, poggia su una base quanto mai ballerina e instabile; e non per caso le forze telluriche creano movimenti profondi nella terra e nella vita delle genti di Calabria, come i cataclismi tettonici e sociali: emigrazione, criminalità, sradicamento umano, culturale ed esistenziale.

La Calabria ha contribuito alla diffusione dell’italiano nel mondo con i tantissimi emigrati. Ma è interessante disegnare una mappa degli autori che hanno avuto in sorte quella di nascere in questa terra, come viatico storico, antropologico e geografico da portare nelle nostre peregrinazioni. Incontrare personaggi che hanno lasciato dei segni linguistici, intellettuali e umani nella storia del Paese dove ha iniziato ad irradiarsi la propria esperienza, ci aiuta a combattere l’estraneità o l’estraniamento. Desumiamo che parlare della Calabria e degli autori calabresi sia un atto universalmente riconosciuto, perché vivere in questa terra è paradigmatico della estraneità che ha vissuto Pasolini: in fondo nemo propheta in patria, per parafrasare il sillogistico aforisma di Ugo di San Vittore. Per questo cominciamo il viaggio dalla Magna Grecia (Zaleuco, Pitagora, Alcmeone,  Ibico, Nosside, tanto per citarne alcuni) per approdare al Vivarium di Cassiodoro che dalle alture di Squillace contempla il vasto oriente rispecchiarsi nelle onde ioniche. Risalendo la costa arriviamo a San Giovanni in Fiore. Qui incontriamo l’età dello spirito dell’abate Gioacchino, cantato da Dante. Come un triangolo rovesciato il cui apice si trova tra le alture della Sila e i lati si estendono sui versanti delle due coste, ridiscendiamo verso il mar Tirreno e arriviamo a Seminara. Qui intravediamo la figura prima di Barlaam e poi quella di Leonzio Pilato, lo “straccione calabrese” come è stato definito da Petrarca, fiero di aver coltivato la sua anima greca, considerato il precursore dell’Umanesimo, maestro di Boccaccio e di Petrarca della lingua che fu di Omero. È lui che con la traduzione dell’Iliade e dell’Odissea dal greco in latino, ha gettato le radici dell’Umanesimo. Da Seminara risaliamo verso Cosenza e qui troviamo Bernardino Telesio, filosofo e naturalista , iniziatore della nuova filosofia della natura rinascimentale. Trassero ispirazione dalla sua dottrina Giordano Bruno, Cartesio, Francesco Bacone e Tommaso Campanella. Quest’ultimo lo incontriamo a Stilo, e risentiamo la sua anima rivoluzionaria, la sua lucida follia che lo ha salvato dal rogo. Ma Campanella non ha solamente immaginato la città del sole, ma è stato anche un grande poeta; anzi viene ritenuto il più importante poeta del Seicento, dopo Tasso, e la sua poesia ha la stessa forza espressiva e robustezza che ritroviamo in Dante, soprattutto per quella potenza spirituale ed etica che solo chi ha vissuto con coerenza e con passione può partorire. Dal Seicento compiamo un salto nel Novecento, percorrendo le due sponde con lo sguardo rivolto sia verso il Tirreno, dove tramonta il sole, sia verso lo Ionio, dove sorge. Non scomodiamo Alvaro (San Luca), Mario La Cava (Bovalino), Saverio Strati (Bianco), Leonida Repaci (Palmi), e poeti come Lorenzo Calogero (Palmi); invece facciamo una sosta a San Biase (oggi Lamezia Terme) dove era stata edificata l’antica Terina, per una breve sosta. In questi luoghi, in mezzo agli ulivi e ai riflessi marini, si alza la voce di Franco Costabile. Sono passati 50 anni dal suo ultimo urlo. La sua parola si staglia folgorante, incisiva, tagliente, tragica, nel bianco e nero foglio della storia di questa Terra. L’ha segnata e disegnata. Ne ha scolpito il dolore, la sofferenza, il dramma, il grido disperato di una umanità a cui rimane solo la parola disanimata e straziata come i volti e i corpi dei contadini. Eppure questo grido è rimasto confinato, esiliato. È sepolto con il suo corpo. Così la sua parola e i suoi versi giacciono come quei corpi che sono andati a finire negli abissi marini trascinati dalla disperazione che attendono di avere una degna sepoltura per poterne piangere le spoglie. Anche per Costabile il fato ha prescritto “illacrimata sepoltura” come per Foscolo. La tensione etico-politica verso le profonde ingiustizie che è stata costretta a patire la sua gente, sono diventati poesia tragica, profetica.

Il destino degli uomini si incrocia nel tempo e nello spazio generando segrete i ignote corrispondenze come ha cantato Baudelaire nei suoi Fiori del male. Sono passati due lustri e nella stessa città dove Costabile ha conosciuto il suo tragico epilogo, un altro poeta ha vissuto lo strazio della parola-verbo. Proprio la notte tra l’uno e il due novembre del 1975 del corpo di Pasolini si è fatto orrendo strazio, così come hanno fatto le mitiche menadi, invasate da Dioniso, con il corpo di Orfeo, il cantore che ha vagato inquieto e disperato dopo aver tentato di ridare luce e vita alla sua Euridice. Anche per Pasolini la poesia è stata, più di ogni altra arte, la sua vera biografia. Con essa sanguina sulla croce la libertà di pensiero e il coraggio di essere liberi, così come aveva sperimentato Giordano Bruno, le cui ceneri ancora si alzano sul cielo di Roma ed adombrano l’occhio della coscienza di chi ipocritamente ha voluto far credere che la libertà debba bruciare come la carne del monaco di Nola sul rogo, come se fosse un burattino o un pupazzo. Pasolini non è nato in Calabria ma ha guardato il mondo come se avesse vissuto in Calabria e ne ha interpretato l’anima affondando il suo occhio dentro l’oscurità che si annida nei palazzi dove impera il fetore putrido del potere. A noi, figli di due madri e di due padri, ci consegna le parole che hanno gettato una luce obliqua, sinistra, sul presente. La parola che scava in profondità, che penetra la realtà, che guarda con onestà e con coraggio, che demistifica e denuda le maschere del mondo, diventa una pietra profetica e drammatica, poetica e maieutica. Parla a tutti noi che viviamo in questo Paese per un caso del destino, e riprendendo le parole di Ugo da San Vittore, ci fa sentire stranieri in patria e anche se disdegniamo l’ambizione di essere perfetti, ne sentiamo quantomeno l’istanza e la tensione etica ed estetica.  Pasolini è colui per il quale il mondo non è che un paese straniero, perché ha vissuto da esiliato, con la sua identità diversa, con la passione per la libertà e la verità, con la sua croce. Come un rabdomante, ha captato la fonte per abbeverare chi è assetato di giustizia, la controcorrente che sradica la cattiva coscienza, che toglie le maschere in cui si nasconde la nostra ipocrisia, ma che ci rende inquieti e innamorati della vita e dell’umanità che soffre e che lotta per il riscatto del bene. Non come i tanti “intellettuali” sedotti dal canto delle sirene e restano legati, innamorati di se stessi, narcotizzati dal demone del successo, ebbri bevitori dal calice dannunziano della celebrità, estasiati ammirano i loro narcisi risplendere nei giardini ben coltivati, ma non scorgono la spazzatura che si ritrovano fuori casa. Il fulgore dei lori geni è ammaliante, simile al genio dei calabresi, colto da Giuseppe Berto ne la “ricchezza della povertà” della civiltà contadina amata e pianta da Pasolini: “I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali”. E siccome per la legge fisica dei vasi comunicanti, ciò che accade al piede poi si diffonde in tutto il corpo, questa genialità dei calabresi si è trasmessa a tutta l’Italia.

Recuperare un brandello della pelle della scrittura di Pasolini per farla nuovamente sanguinare, per farci sentire le impronte delle sue dita, la forza tragica, magmatica ma anche magnetica della sua lingua, significa sentire il tessuto epidermico dell’Italia di questi giorni, di mafia capitale e della “dama nera”, di tutto questo corpo corrotto e putrefatto che ha contaminato non solo le mani ma anche l’anima di questo Paese. Pasolini ha letto il sangue che circolava nelle istituzioni; e lo ha trasfigurato nel “Vangelo quello secondo Matteo” in cui domina una tensione continua fra nostalgia e profezia, evocando  “la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”; e per riprendere la metafora di Ignazio Marino (giustiziato pochi giorni fa), sentiamo le coltellate inferte al corpo morente della democrazia, da parte dei tanti “bruti” che infestano le stanze del potere e della società. Possiamo parafrasare Plutarco e l’indovino che avvisava Cesare del pericolo, dicendo che le Idi di marzo non sono ancora passate, ma non sono state neanche consumate in seno al Campidoglio. Corsi e ricorsi. La storia è stata già scritta nell’altro libro, che si aggiunge a quelli citati da Blumemberg, quello delle nefandezze di cui è capace l’uomo assetato di potere. Noi non facciamo altro che strappare queste pagine dalla nostra storia, per rilegare quelle  indirizzate a Gennariello nelle “Lettere luterane”, dove prevede “come parleremo”, perché siamo entrati nell’era della “teratologia”, cioè della mostruosità che, come ammoniva Gunter Anders, il nazismo l’ha solo introdotta, e tutti noi siamo, o rischiamo di essere, figli di Eichmann.

“Vedi, Gennariello, la maggioranza degli intellettuali laici e democratici italiani si danno grandi arie perché si sentono virilmente «dentro» la storia: accettano realisticamente il suo trasformare le realtà e gli uomini, del tutto convinti che questa «accettazione realistica» sia frutto dell’uso della ragione. Io no, invece, Gennariello. Ricorda che io, tuo maestro, non credo in questa storia e in questo progresso. Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che le società regrediscono o peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua «accettazione realistica» è in realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. È cioè il contrario di un ragionamento, anche se spesso, linguisticamente, ha l’aria di un ragionamento. La regressione e il peggioramento non vanno accettati: magari con indignazione o con rabbia, che, contrariamente all’apparenza, sono, nel caso specifico, atti profondamente razionali. Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile. Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuoi dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuoi dire che ama quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire, e che spero di comunicare anche a te. I più colpevoli nel non amare questi uomini degradati dal falso progredire della storia, sono, appunto, i potenti democristiani. Lasciamo stare la prima fase del loro regime che è stata decisamente la continuazione del regime fascista; e veniamo subito alla seconda fase, quella in cui hanno continuato a esistere e ad agire allo stesso modo di prima, benché il potere che essi servivano non fosse più il potere paleocapitalistico (clerico-fascista), ma un nuovo potere: il potere consumistico (con la sua pretesa tolleranza). In questa seconda fase si è avuto un atroce seguito di stragi e di criminalità politiche. (…) Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non là si può ascoltare. Bisogna tapparsi le orecchie. Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia. Invece, quasi tutti gli intellettuali all’opposizione accettano sostanzialmente quello che accettano i potenti democristiani. Essi non sono affatto scandalizzati dalla mostruosità della lingua dei potenti democristiani. Il mio sogno, nel nostro rapporto pedagogico, caro Gennariello, sarebbe di parlare napoletano. Purtroppo non lo conosco. Mi accontenterò dunque di un italiano che non abbia nulla a che fare con quello dei potenti e degli oppositori ugualmente potenti. L’italiano di una tradizione colta e umanistica: senza temere una certa «maniera», che in un rapporto come questo nostro, è inevitabile. I preamboli cosi sono finiti. La prossima volta ti delineerò sommariamente un abbozzo del piano dei nostri lavori – una specie di indice — e poi finalmente cominceremo le lezioni.”

 27 marzo 1975.