La musicoterapia che ha sperimentato con successo la giovane medico Sarah Barbuto

Alla pneumologa originaria di Rombiolo il conferimento del Premio San Giorgio (I edizione) organizzato dalla Pro Loco di Pizzo Calabro, per essersi distinta nell’ospedale di Sondalo convertito in struttura Covid. L’opera simbolo del riconoscimento, ispirata al patrono della città napitina, è stata realizzata dall’artista Antonio La Gamba

Non accade tutti i giorni che, alla prima esperienza, dopo pochi mesi, si dimostri una qualità umana e professionale rara, in particolare in tempi di crisi. Richiama la “metis” che tirava fuori l’eroe omerico Ulisse: in situazioni difficili, sapeva inventarsi soluzioni inattese. Per questa risorsa è stato assegnato a Sarah Barbuto il Premio “San Giorgio”, la giovane dottoressa che si è distinta all’ospedale “Morelli” di Sondalo in provincia di Sondrio, trasformato in struttura Covid. Originaria di Rombiolo, Sarah è risuscita a far parlare di sé per come ha saputo “rianimare” i suoi pazienti durante il drammatico periodo della diffusione del coronavirus, dimostrando spirito di iniziativa veramente originale, cantando ogni mattina l’inno di Mameli al megafono e incoraggiando i pazienti con la medicina della sensibilità umana.

La Cerimonia di conferimento si è svolta nel suggestivo scenario del Castello “Murat” di Pizzo (domenica 2 agosto alle ore 20). Alla sua prima edizione il premio San Giorgio è stato ideato e organizzato dalla Pro Loco di Pizzo Calabro. L’obiettivo principale è quello di mettere in luce le eccellenze del territorio che si sono distinte per la loro professionalità e creatività. Un progetto, come ha sottolineato il presidente Cesare Cordopatri nel corso dell’evento, da tempo messo in cantiere “che finalmente ha preso forma”. L’idea – ha spiegato Cordopatri – è stata suggerita dal vice presidente della Proloco, Emanuele Stillitani. San Giorgio è il patrono di Pizzo ed è proprio alla sua rappresentazione iconografica che l’artista Antonio La Gamba si è ispirato per la realizzazione della statua in miniatura che la Proloco donerà alla città di  Pizzo, per contribuire ad arricchire il patrimonio d’opere d’arte della località napitina, ricca di storia, di tradizioni e di cultura.  

Alla cerimonia di conferimento sono intervenuti Antonio Reppucci  (Commissario straordinario del Comune di Pizzo), Antonino Maglia (Presidente ordine dei medici di Vibo Valentia). Hanno relazionato mons. Giuseppe Fiorillo (Libera Vibo) e  Vincenzina Percivalle  (Consigliera di Parità).

Sarah Barbuto, nel suo significativo intervento di ringraziamento, ha raccontato la sua esperienza e i sentimenti che ha vissuto da quando ha iniziato a lavorare all’ospedale di Sondalo, subito dopo la specializzazione (da dicembre 2019). Senz’altro una prova impegnativa in cui ha potuto mettere in atto la sua passione per la professione di medico e intuire l’importanza della condizione psicologica in cui si trovavano i pazienti, privati dagli affetti familiari, lottando contro un nemico invisibile, per risollevare il loro spirito. Nelle parole espresse dalla giovane dottoressa Barbuto, si avverte la responsabilità di chi ha alle spalle una lunga esperienza abbinando la freschezza della sua giovane età. Un connubio che l’ha spinta a coniugare in modo originale al linguaggio della medicina la terapia del canto:  “Noi operatori, pur consapevoli di aver fatto più del massimo, ci rendiamo conto che in molti casi anche questo non basta. Ho deciso, pertanto, di trovare una soluzione, anche momentanea”. Ha portato con sé un megafono in ospedale, accolto con gioia e condiviso dai colleghi, per dare ai pazienti un singolare buongiorno ed un messaggio di incoraggiamento: “Io sono medico da poco, ma neppure i colleghi che hanno vissuto l’hiv negli anni ’90, i tanti casi di tubercolosi, o che hanno lavorato in situazioni di emergenza in Africa, hanno mai assistito a nulla di simile, ed è davvero devastante”.

Sarah Barbuto dimostra una personalità matura. E di fronte all’emozione dei genitori, il padre Giuseppe, anche lui medico, la madre e la sorella Raffaella, e ai tanti presenti, ha testimoniato il valore che riveste per lei il premio come giovane donna calabrese.

“Questo premio mi viene dato come donna calabrese e medico. Mi sono laureata nell’anno in cui le donne medico hanno superato gli uomini. È un futuro che si prepara sempre più al femminile. Come donna calabrese ho fatto un paio di settimana fa, con Libera, un dibattito su questi temi e don Ennio Stamile ha affermato che in Calabria si preferisce l’appartenenza alla competenza. Questo è il motivo per cui io sono in Lombardia. A me la Calabria piace, l’amo profondamente, mi piacerebbe vivere con la mia famiglia, ma non sono disposta a sacrificare la competenza che ho e quella che avrò in futuro per una appartenenza che non sento per nulla. Credo che per la Calabria ci sia un grande problema culturale, c’è bisogno di un cambio della mentalità”.

La riflessione di Sarah Barbuto poi si focalizza sulla sua diretta esperienza all’ospedale di Sandalo:

“I medici quest’anno siamo tornati alla ribalta, nel bene e nel male, a causa della pandemia da Covid. Il medico è una missione, un dovere, ma soprattutto in una nazione fondata sul lavoro, è anche un diritto. Io ho scelto di fare il medico ed è quello che mi piace fare. Il Covid mi ha insegnato che siamo fallibili. Il 5 marzo abbiamo aperto questo reparto (con 12 pazienti) per andare incontro agli altri ospedali ma nel giro di 2 mesi abbiamo ricoverato 700 pazienti. Il 21 per cento sono morti. Tra questi anche un primario del nostro ospedale; ma anche tanti altri medici di base. Il mio ingresso nel lavoro come medico non è stato convenzionale. Le pandemie del resto compaiono ogni secolo. Abbiamo iniziato senza avere consapevolezza di quello che sarebbe accaduto. Dopo due settimane abbiamo iniziato ad essere tutti terrorizzati. Circa 30 pazienti al giorno. Aprivamo il reparto anche di notte, l’ossigeno non bastava e più andava avanti e più peggiorava. Erano soprattutto uomini e faceva particolare impressione che non fossero anziani. La maggior parte dei morti avevano 50-60 anni, soprattutto nella prima fase. Poi sono arrivati pazienti delle RSA. A livello di malattie di genere, tutte le malattie polmonari sono diverse tra uomo e donna. A livello umano è stata una bella palestra. Ci siamo ritrovati a ricoverare persone con notizie drammatiche in televisione, e con il paziente che aveva tutte le caratteristiche e i sintomi che venivano descritte”.

In questa situazione e condizione entra in gioco la sua intuizione sotto il profilo psicologico:

“Tutti i pazienti hanno paura quando vengono ricoverati, però è diverso quando puoi vedere i tuoi parenti, quando hai una malattia che può essere guarita. Ma di fronte ad una malattia nuova, si è creato questo panico e noi stessi eravamo disumanizzati, perché sotto le bardature potevamo essere chiunque. In questa situazione i pazienti si sono attaccati a noi con disperazione e si sono affidati completamente; ma anche i parenti, che ci chiamavano disperati per avere notizie. La mia mail è piena di fotografie che i figli mi mandavano per la festa del papà, di pazienti che poi sono morti. E fa un certo effetto vederle dopo la loro scomparsa. Da questa condizione si è visto un moto di empatia e di solidarietà che ha caratterizzato tutta Italia, e questo sarebbe bello portarcelo anche in futuro”.

Nel suo racconto Sarah Barbuto sintetizza la reazione del Paese di fronte al ad un nemico invisibile attraverso l’aneddoto di un paziente.

“Ricordo una notte un uomo di 46 anni, che abbiamo tirato per i capelli, tornato guarito a casa. Tre giorni prima delle dimissioni passeggiava per il corridoio, cercando di fare attività per migliorare la respirazione. Appena mi ha vista mi chiede: – Sarah, ma fuori che si dice? – Alcuni dicono che non ci credono, qualcuno che ci siamo inventati tutto, il 90 per cento sta zitto e si comporta bene. – Io credo – risponde il paziente – che chi non è stato mai qua dentro non ci crederà mai – .”

Sarah Barbuto chiude il suo appassionato discorso con una riflessione ed un auspicio.

“È bello sapere che in questa fase tutta Italia è stata unita. Tutti si sono impegnati. È stata un’esperienza che mi ha insegnato tanto. Sono felicissima di prendere questo premio, e mi auguro in futuro di vivere sempre questa solidarietà”.

 Queste sue ultime riflessioni riportano alla memoria  il protagonista dello straordinario romanzo di Albert Camus, “La peste” (1947), il dottor Rieux.  Ad un certo punto, conversando con il suo amico, il giornalista Rambert, Rieux, di fronte alla disperazione e all’assurdità del male, trova una motivazione esistenziale per continuare a combattere e afferma che “la sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà.” Onestà è responsabilità. Questo assunto convince Rambert a restare, per dare il suo contributo nell’assistenza dei malati, sacrificando l’Io al Noi. Emerge come protagonista assoluto lo spirito di solidarietà. Alle stesse conclusioni di Rieux giunge anche padre Paneloux, che aveva considerato la peste un castigo inviato da Dio per punire l’umanità peccatrice. Ma di fronte all’inspiegabile morte di bambini, vittime innocenti, il prete corregge la sua prospettiva e conclude che “è necessario continuare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca e tentare di far del benebisogna essere colui che resta! Nella sua lotta quotidiana contro la sofferenza e la morte e accettando il dolore personale della perdita ( la peste, infatti, gli ha portato via gli amici, gli affetti, la moglie), il dottor Rieux decide di scrivere la cronaca dell’epidemia, per raccontare quello che s’impara in mezzo ai flagelli: “che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.

Le parole e la missione abbracciata da Sarah Barbuto lo testimoniano,  perché, riprendendo le parole del dottor Rieux, “tutti gli uomini che, non potendo essere dei santi e rifiutando di accettare i flagelli, si sforzano tuttavia di essere dei medici”.       

Questa lotta contro il male, e verso ogni male, dalle malattie fisiche a quelle sociali e psicologiche, è una terapia potente, che insegna come la sacralità della vita si esprime e si traduce attraverso questa missione laica, capace di guarirci dall’indifferenza e dal nichilismo, flagelli invisibili che affliggono l’attuale società più di ogni coronavirus.